Silvio Don Pizzica Tag Archive
Massimiliano Martines – Ciclo di Lavaggio
Leccese di nascita ma bolognese di adozione, Massimiliano Martines inizia la sua produzione nel 2009 con l’esordio Frottole. Pur affrontando strade Pop e commerciali (vedi partecipazione al programma tv Viaggio Dentro una Canzone su Rai5 o altre a trasmissioni Rai di vario genere) la sua formazione è di stampo soprattutto teatrale e questa sua predisposizione ha finito per influenzarne anche lo stile canterino ed espressivo, spesso teso allo Spoken Word e a un cantato più adatto al mondo del teatro che non alla forma canzone, fatto di vocalizzi estremi e cambi di tonalità frequenti e una timbrica a volte ai limiti della sgradevolezza. C’è dunque una quantità notevole d’input a forgiare il nuovo album di Massimiliano Martines; dovremmo aggiungere la pubblicazione di diversi libri di poesie e testi teatrali, uno dei quali con presentazione di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, ma anche la sua attività di direttore artistico e organizzatore di eventi. Insomma, il materiale sul quale lavorare per la creazione di Ciclo di Lavaggio è innumerevole e da qui, il rischio di non produrre qualcosa di compiuto ma piuttosto un calderone confusionario in cui stili e tecniche si mescolino senza una propria anima. La verità sta in mezzo e per una volta la cosa non mi dispiace troppo.
L’iniziale “Amo le Novità” introduce un Massimiliano Martines che non ti aspetti, con una voce monocorde e profonda a scivolare su ritmiche ipnotiche e musica stridente, disturbante e psichicamente violenta. Eppure non è questo il cantautore che sentiremo perché presto le cose cambieranno, trasformandosi ora in un cupo Alt Rock anni 90 (“Tutto Uguale”, “Mi Sto Preparando”) dove la voce dapprima bassa e poi più alta, recita su brani essenziali, poi in tenui Folk Pop (“Perla Nera”, “La Scatola e l’Inganno”) dalle mille perplessità, con quella voce che sembra trovarsi per caso tra le pieghe della musica, con poco stile e un suono, un timbro, un’intonazione davvero fastidiose. Prova anche a giocare con il Pop Cantautorale (“La Polvere”, “La Guerra dei Fiori Rossi”, “I Colori dell’Autunno”, “Sogni Neri”) ma l’esercizio di stile non riesce e i testi, se non banali sicuramente senza mordente, finiscono per rendere ancor meno apprezzabili i brani. Molto più interessante la title track, in cui la prima parte scivola come un Folk Rock ritmato alle spalle di una voce che pare recitare monotone litanie per poi esplodere in un potente Alternative Rock, fatto di chitarre taglienti e ritmiche rabbiose con la voce a urlare alla maniera del più nervoso Capovilla. Ed è proprio quando Massimiliano Martines prende una piega aggressiva che finisce per convincerci maggiormente, quando urla e non quando recita o sceglie il falsetto. L’impostazione della sua voce diventa più incisiva, nonostante resti piatta, e l’apparato strumentale pare legarsi più saldamente a testi e parole. Il problema è che i brani in cui questo avviene sono una minima parte; il resto, come detto, è una serie di pezzi tra Folk e Pop, certamente ben costruiti, ma banali con Martines a declamare testi che, francamente, ci saremmo aspettati molto più interessanti (salviamo “La Guerra dei Fiori Rossi”, rilettura dell’omonimo film di Zhang Yuan che narra della repressione cinese infantile) e con un’impostazione e una timbrica che sembra un micidiale e mal riuscito cocktail tra Tricarico, Alessio Bonomo e Vasco Brondi. Ciclo di Lavaggio è un’occasione persa per Massimiliano Martines, occasione di dare un senso compiuto alla sua arte, di darne un’inquadratura precisa, definirne una strada e invece, ancora una volta, resta una moltitudine di elementi mescolati in maniera confusionaria, non sempre riuscita, con l’impressione che lui stesso non abbia ancora le idee chiare su quale estetica espressiva adottare per esprimere ciò che sente.
Deathwood – And if It Were True?
Reduci da un mini tour che li ha visti scorazzare in terra tedesca, gli horror punker abruzzesi hanno recentemente presentato il nuovo lavoro And if It Were True? con un’esibizione mozzafiato al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ) in compagnia dei Whip Hand, band di tutt’altra estrazione ma ugualmente valida. Messi da parte gli elogi per un contesto che è palesemente il palcoscenico più adatto alle loro canzoni, quello che resta è un disco che, se non nelle intenzioni, di certo nel risultato è una prova di maturità decisa o forse piuttosto una dimostrazione di consapevolezza dei propri mezzi.
And if It Were True? è, prima di tutto, un lavoro attento a ogni piccolo dettaglio, e in questo fondamentale è stato l’apporto dello studio Acme Rec. di Davide Rosati che ha prodotto, registrato e missato le nove canzoni così come quello di Nick Zampiello (AgainstMe!, Agnostic Front, Converge) che ha masterizzato il tutto ai New Alliance East Mastering Studio in Usa ma anche di Eeriette, l’artista che ha messo mano a cover e artwork. And if It Were True? è prima di tutto un disco Punk, un disco Horror Punk meglio, e potete immaginare da soli cosa possa significare suonare Horror Punk in Italia nel 2016. C’è solo da andare a sbattere la testa nella persistente reiterazione eppure i nostri quattro ragazzi scelgono una strada che riuscirà a dare loro la giusta convinzione e a finire per convincere anche noi ascoltatori.
And if It Were True? racconta delle storie, ovviamente spaventose, terribili, di cadaveri e fantasmi ma riesce a farlo con una sorta di velo d’ironia unico nel suo genere accarezzando trasversalmente le vicende dei singoli componenti della band ma anche le diverse leggende locali abruzzesi, affrontate con un misto di serietà e spasso che ci mette al riparo da ogni possibile critica su quanto stiamo ascoltando (non perdetevi il gioco di società inserito all’interno del libretto, che siate abruzzesi o no). In tal senso, assolutamente rappresentative le canzoni che compongono la trilogia di Quaglia Lake (“The Legend Is True”, “Lake of the Undead”, “The Day Is Over”) ispirata alle tante storie che si raccontano da generazioni sul piccolo lago La Quaglia. Ascoltare con attenzione ogni singolo brano, cercando di scavare più a fondo delle semplici note, è come stare nel bosco, attorno al falò, ad ascoltare i racconti di un vecchio incontrato per caso cercando di prestare attenzione mente la coda dell’occhio scruta l’oscurità degli alberi. Questo ci suggerisce la stessa copertina di And if It Were True? eppure la sensazione è che la metafora di quest’opera sia tutt’altra. L’Horror Punk dei Deathwood è un Horror punk che sa prendersi gioco tanto dei cliché del mondo che ruota attorno all’horror, inteso sotto l’aspetto artistico cinematografico, quanto dei cliché del Punk, qui proposto in tutta la sua semplicità, con coretti, chitarre taglienti e i giri semplici, sezione ritmica basilare e potente, voce poco attenta allo stile, ritornelli che invitano all’urlo di gruppo e, allo stesso modo, delle tradizioni del territorio da cui arrivano, spesso rilevate nei testi e nell’estetica (vedi i vari riferimenti al Parco Nazionale, agli orsi che popolano l’Abruzzo, ecc…). E se fosse vero?, si chiedono i Deathwood. Se lo chiedono come chi ti ha appena detto una stronzata, facendovi sbellicare dalle risate, ridendo con voi mentre faceva finta di volervi spaventare ma poi torna serio quando, prima di sparire nel nulla, vi ficca un dubbio nel cervello. E se fosse vero? Ed è quello che ci fotte, alla fine, il dubbio; ci rende liberi davanti al mondo e schiavi della nostra afflizione al tempo stesso. Che sia questo il mostro più temibile dentro la rassegna horror movie firmata Deathwood?
Anderson .Paak – Malibu
Il Neo Soul e l’R’n’B non hanno mai subito grosse fasi di smarrimento ma, negli ultimi tempi, indicativamente da Channel Orange di Frank Ocean del 2012, la qualità delle loro produzioni è cresciuta notevolmente tanto quanto il numero degli artisti dalle rosee promesse. Se in ambito Soul soprattutto la figura predominante, forse l’unica davvero sopra le altre, è quella di D’Angelo, si sono alternati tanti protagonisti capaci di tirare fuori canzoni straordinarie e, più raramente, interi album memorabili. Quello che sembra mancare è proprio un antagonista positivo al già citato musicista di Richmond. Poi è arrivato Anderson .Paak che, in realtà, era sulle scene già da diversi anni (inizio decennio, all’incirca) con qualche produzione alle spalle che tuttavia non aveva nulla di davvero eccezionale. Poi è arrivato Anderson .Paak con Malibu e la storia è cambiata radicalmente perché il nuovo lavoro del ragazzo di Oxnard è qualcosa che gli appassionati del genere non sentivano da anni, certamente tra le migliori uscite in ambito Neo Soul, R’n’B degli ultimi venti anni.
Non ci sono ricercate forzature tese a estreme contaminazioni nella sua musica, non c’è una disperata indagine verso l’originalità a tutti i costi e neanche un imbastardimento con generi poco affini ma utili ad ampliare pubblico e gradimento. La musica di Malibu è genuina, moderna e fluida, con ogni brano perfettamente incastonato a precedente e successivo tanto da creare una tracklist con un crescendo ritmico e lirico d’intensità mai ascoltata. Tra i molti elementi che fanno di Malibu un inno alla bellezza nera, non mancano incursioni nel mondo del West Coast Hip Hop e, se è banale l’accostamento con il suo rappresentante attuale più influente e talentuoso, Kendrik Lamar, non bisognerebbe tralasciare anche l’impronta di artisti come Dr. Dre e tutta la scena anni 90 (che il quasi trentenne ha potuto seguire attentamente). Riduttivo parlare di Malibu come d’un grande album Soul o R’n’B, impossibile catalogarlo come una semplice uscita Rap datata 2016, limitante soffermarsi esclusivamente sull’aspetto lirico e lo stesso sarebbe andare a insistere su quello strumentale. È un album dall’estetica roboante, che sa farsi ascoltare con facilità pur non essendo banalmente disadorno. A impreziosire il tutto, alcune collaborazioni, non sempre dal sapore imprescindibile ma che danno un piccolo valore aggiunto a un disco che comunque avrebbe conquistato uno spazio cospicuo (“The Waters” feat. BJ the Chicago Kid, ”Am I Wrong” feat. ScHoolboy Q, “Without You” feat. Rapsody, “Room in Here” feat. The Game e “The Dreamer” feat. Talib Kweli). Assodato che Malibu resterà nella storia del genere, la speranza è che l’artefice, Anderson .Paak, non faccia la fine delle tante promesse bruciate dal tempo.
Esercizi Base per le Cinque Dita – Disboscamenti
Ho scoperto questo nome quasi per caso, su consiglio di un amico con il quale si parlava di canzoni tristi, malinconiche, angoscianti e funeste. Ho cercato di capire chi si celasse dietro ad un appellativo tanto strano ma le notizie erano sfuggenti e la stessa biografia assomigliava più a un esercizio di stile sarcastico che non a una vera descrizione dell’artista. Ho ascoltato il disco omonimo e ne ho apprezzato lo stile diretto, i testi provocatori e aggressivi, pieni di giochi di parole pungenti e ben supportati da un sound energico seppur minimale e quasi Lo Fi, con chitarre graffianti e sezione ritmica aggressiva. Ho ascoltato (le prove di zenobio) ed ho assistito a un deciso cambio di direzione, con un suono non troppo dissimile ma più attenzione agli arrangiamenti e soprattutto con una maggiore scrupolosità nella parte vocale, sia testuale sia musicale. La vera svolta arriva con Dalle Viscere, uscito nel 2013. Il Rock vigoroso e incontenibile dei primi Ep lascia spazio a una più deprimente miscela di Folk, Lo Fi, Slowcore; la voce si rinnova in maniera netta, volutamente monotona, sommessa, abbattuta. Il disco non ha niente di troppo originale, non sembra essere nulla che non si possa evitare di ascoltare eppure ha qualcosa che affascina oltremisura. Ogni brano parla di disperazione, suicidio, tristezza, dolore e ogni altra sventura umana in maniera talmente diretta e coercitiva che quasi pare un derisorio gioco di esorcizzazione del tormento. Credo di non aver mai inteso trattare un tema come la disperazione in modo tanto ingente. Questa era la forza di Esercizi Base per le Cinque Dita, la sua capacità di affrontare un tema delicato in maniera grottesca, quasi irreale, affogando le parole in un sound devastato come le frasi che recita, con uno stile vocale peculiare e incisivo. Partendo da questa premessa, la curiosità verso Disboscamenti era ovviamente tantissima ma con essa la consapevolezza che non sarebbe stato facile continuare il percorso di allontanamento dal sound convenzionale degli esordi eppure evitare un accanimento su quello stile velenoso che caratterizzava Dalle Viscere. C’è ancora un tema centrale nell’opera; questa volta si canta l’assenza, intesa come malinconia, segregazione, confusione, rimpianto, inquietudine e disorientamento. La cosa lascerebbe supporre una specie di capitolo due alla scoperta delle miserie dell’animo umano ma, come vedremo, Esercizi Base per le Cinque Dita riesce al tempo stesso a dislocare dal passato senza però arrivare a tagliare di netto i legacci che lo strozzano a se stesso. Più attenta la cura del suono e degli arrangiamenti, evidentemente grazie al lavoro di Giovanni Mancini, produttore artistico del disco, ma anche grazie all’aiuto di Matteo Panetta al violino, di Luciano Cocco alla batteria e di Simone Alteri alle chitarre. Sono introdotti elementi elettronici e Giovanni Spaziani (è lui l’uomo dietro al moniker) non ha paura di osare, con brani inquietanti e certamente fuori dal comune alternati ad altri indiscutibilmente più sbottonati e conformi agli standard del cantautorato più apprezzato. I punti di riferimento restano gli stessi del passato, De André, De Gregori, Dalla ma stavolta sembra aggiungersi lo stesso Esercizi Base per le Cinque Dita tra le influenze, cosa che può essere vista sia positivamente, come consapevolezza di uno stile personale e ben riconoscibile ma anche come un’incapacità di rinnovarsi davvero con adeguatezza. Disboscamenti è sicuramente il lavoro più curato della sua produzione, solitamente molto grezzo nei suoni, ma stavolta quell’indigenza non lascia crepe nel sound; Disboscamenti è però anche il lavoro più problematico, con l’obbligo incombente di superare il passato e queste difficoltà finiscono per delimitare i termini stessi del disco. Quasi tutti i brani sono un riassunto delle esperienze passate, quelle più Rock degli esordi e quelle più Slowcore degli ultimi tempi e l’impressione è che, anche nei testi, Esercizi Base per le Cinque Dita non abbia lo stesso mordente, con alcune forzature stilistiche di basso livello. Se dunque è evidente una crescita da un punto di vista estetico quello che viene meno è lo spirito di chi canta, come se non credesse davvero a ciò che sta cantando e, per il suo stile che punta moltissimo sull’empatia, è un chiaro punto a sfavore. Un’opera che va certamente ascoltata con attenzione, che io stesso sto ascoltando diverse volte e che mi fa mutare opinione ad ogni ascolto ma che, forse, poteva essere molto di più di quello che non sia in realtà. Se tre anni fa, Esercizi Base per le Cinque Dita aveva tanto da dire, ma non sapeva bene come farlo, ora sa esattamente come fare, ma non sa bene cosa dire.
We Are Waves – Promixes
Provano a mostrare l’altra faccia della luna, i torinesi; tentano di palesare il proprio alter ego e tirano fuori un Ep che vuole evidenziare l’aspetto sintetico ed elettronico della loro miscela di Wave e Post Punk che ci ha entusiasmato in passato tanto da farci gridare al miracolo per aver scovato finalmente una band italiana valida, capace di rileggere il passato in maniera attuale e convincente e pronta per sfondare il muro dell’anonimato. Promixes è l’altra faccia del loro secondo album Promises, quello che più dell’esordio è stato capace di elevare i We Are Waves sugli altri. La copertina stessa non è altro che il negativo di quella che rappresentava l’album precedente, il titolo, una storpiatura che si lega al termine remix e i brani non sono altro che riletture del passato o meglio un diverso modo di esporre i propri brani giacché le tracce non sono semplicemente dei remix ma piuttosto le versioni risuonate di quei brani così come gli stessi We Are Waves le hanno portate in giro per l’Italia, nelle performance in formazione ridotta, con set electro composto di voce/chitarra basso ed elettronica/synth/drum machine. Spariscono, dunque, le influenze più evidenti nel sound We Are Waves ma ne compaiono di nuove, dai Depeche Mode a Trentemoller, da Gas a Plastikman, da The Faint ai New Order, passando per un’attitudine Pop, questa sempre presente, che richiama alla mente un certo Morrisey e non solo per la cover di “How Soon Is Now?” che chiude l’Ep stesso. Tuttavia, nonostante Promixes sia presentato come una necessità espressiva per la band, non resta molto ad ascolto concluso se non l’impressione che questo sia piuttosto un regalo buono per i più affezionati e non certo un nuovo biglietto da visita. I brani già noti perdono completamente quel fascino e quelle sonorità che ci avevano fatto innamorare senza acquistare davvero nuova linfa vitale, anzi, andandosi a ficcare in vicolo cieco di banalità Synth Pop che francamente avremmo volentieri preferito evitare. I We Are Waves sono una grande band, continuo a ripeterlo, in studio e live soprattutto. Ascoltate Promises, l’album uscito a maggio del 2015, e vi renderete conto da soli di trovarvi davanti a qualcuno che di strada ne farà tantissima. Se invece non avete mai sentito quel disco, non lasciatevi trarre in inganno da questo Promixes, i We Are Waves sono molto di più.
Nadj – Ep
Dopo diversi lavori alle spalle, tra cui l’ottimo Lp del 2007 Là e il comunque interessante L’Oeuvre au Noir del 2012, torna la francofona Nadj con un Ep che prova a rispolverare lo spirito di un tempo senza troppa convinzione, a dirla tutta. Con una vita fatta di musica che ormai supera i due decenni, il suo stile è sempre stato contraddistinto da una notevole astrattezza e da una continua ricerca di indipendenza sonora che l’hanno portata a scegliere sempre la strada dell’autoproduzione, pur, in questo caso, con la collaborazione di artisti membri del ben noto Il Teatro degli Orrori e la presenza non invadente della piccola ALMeidA, creatura della stessa Nadj del resto. Tutte le premesse lasciano supporre un lavoro stimolante, decisamente fuori dagli schemi e con notevoli spunti d’interesse eppure l’ascolto lascerà ben più d’un sapore amaro in bocca. Le quattro tracce fanno una fatica pazzesca ad amalgamarsi tra loro, creano un sound confuso, in cui elementi Blues e Grunge si mescolano al più classico Alternative Rock anni 90 ma senza mai scorrere in maniera fluida e gradevole ma piuttosto arrancando mal supportati dalla voce monotona e quasi cacofonica di Nadj e del suo francese fuori luogo. Sembra aprirsi in un demoniaco Avant Folk l’Ep quando partono le prime note di “Le Ciel de Nuit” ma il brano non prende mai consistenza, risolvendosi nella più completa banalità sonora. Non fa meglio la successiva “Le Fièvre” che dovrebbe garantire una certa potenza senza riuscirci mentre saliamo leggermente di livello con “Le Lion” che tuttavia resta di una insipidezza e d’una prevedibilità imbarazzante. Assolutamente senza senso l’ultima traccia, “Toutes les Fountaines”, buona solo a complicarci la comprensione d’un Ep che faccio davvero fatica a giustificare.
Ed Tullett – Fiancé (Disco del Mese)
Nome non nuovissimo per gli appassionati di musica cantautorale avendo collaborato con Local Natives, Ajimal e remixato “Hinnom, TX” di Bon Iver, il ventiduenne britannico tira fuori un album di debutto che, sono pronto a scommetterci, rimarrà tra le cose più interessanti del nuovo anno appena iniziato. La vicinanza stilistica proprio con Bon Iver è evidente, soprattutto nei passaggi più inclini al Folk Songwriting (“Posturer”) ma Ed Tullett si addentra ben oltre, miscelando con più risolutezza quelle atmosfere richiamate dall’artista di Eau Claire all’Elettronica, non intesa come elemento principale dell’opera ma piuttosto come un sostegno, uno scheletro funzionale e di grande impatto estetico come fosse l’armatura di un ipotetico Beauborg sonoro. Lo stile canoro dell’artista di Oxford teso all’acutezza potrà non suonare troppo originale ma la sua timbrica comunque calda e avvolgente riuscirà a trascinare la voce oltre l’ostacolo dell’anacronismo, il tutto grazie anche ad arrangiamenti essenziali ma perfetti. Dentro le nove tracce che compongono Fiancé, troverete una serie innumerevole di punti di riferimento, che vanno dal passato britannico del Songwriting, al Folk a stelle e strisce, passando per le moderne contaminazioni elettroniche con il Neo Soul, l’R&B e l’Art Soul di James Blake (“Saint”, “Ivory”) ma anche paradossali e pericolosi incroci con il Kanye West più fuori contesto di My Beautiful Dark Twisted Fantasy (“Canyine”). Fiancé è un full length splendido e magniloquente, che riesce a creare atmosfere eteree ai limiti del Dream Pop (“Kadabre”, “Ply”), costruite su strutture complesse e articolate, in grado di trasportarci senza mai annoiare. Un’opera non facile da definire, che sa gonfiarsi tanto di un unico lirismo, quanto di una potenza grave e inquietante (“Are You Real”) e che riesce a evocare i moderni fantasmi viventi del Pop rileggendoli in chiave introspettiva e più eterogenea, senza scorciatoie per un immediato gradimento.
Già dall’introduttiva “Irredeemer” appare chiaro l’obiettivo ultimo del lavoro di Ed Tullett eppure non ci lasci trarre in inganno dall’eccessiva delicatezza delle note di chitarra e della voce perché il seguito sarà ben più multiforme e a tratti veemente e, a tal proposito, basta la sezione ritmica martellante di “Malignant” a rendere l’idea. Il seguito è racchiuso tutto nelle mie precedenti parole, anzi, nelle note di questo gioiello che spero possa trovare spazio non solo nel vostro cuore ma anche nel tempo di chi cerca dalla musica qualcosa di più di belle e orecchiabili melodie. Se James Blake cerca un discepolo, credo lo possa trovare in Ed Tullett.