Spesso nella vita come nella musica ci si basa sulle proprie esperienze e si è vittima di preconcetti e pregiudizi, la cosa piacevole è quando in entrambe la situazioni tutti i pre del caso scoppiano come bolle di sapone. I Velvet, spauracchio delle boyband anni 90, dopo 5 dischi e alcune radio hit di successo escono con il loro terzo EP intitolato La Razionalità. Ultimamente la forma EP sembra essere la modalità espressiva preferita di molti musicisti, forse perchè meno legato ai vincoli e alle aspettative che si creano intorno agli album. Io, ascoltando le cinque tracce proposte, un’idea me la sono fatta. Ammetto di non essere mai stata una fedele ascoltatrice e una seguace pedissequa, ma sicuramente schiacciando il tasto play non mi aspettavo un’evoluzione di tale proporzione, distante anni luce dal 1998. I Velvet senza dubbio hanno lasciato dietro di sè il passato e hanno intrapreso un loro percorso che li ha portati ad esplorare nuovi mondi, neanche troppo sommersi. Insomma La Razionalità è un istantanea che fotografa lo stato dell’arte del momento vissuto dal gruppo. Dicevamo cinque tracce, il primo ascolto non è stato il migliore: ciglie aggrottate e naso arricciato, ma la sfida per me era persevarare e a posteriori sono contenta di aver scoperto un viaggo variegato e fatto di momenti distinti tra loro. Prima tappa l’elettronica, che rappresenta in maniera decisa l’influenza più prepotente a livello sonoro, un fiorire di tastiere e suoni distorti e coretti che strizzano l’occhio ad esperti del genere come i Subsonica. L’elettronica non è per tutti e come un arma a doppio taglio il rischio è quello di sembrare un lontano parente di Sandy Marton, piuttosto che un bravo musicista; per fortuna la tracklist e primo singolo in uscita, “La Razionalità”, sorprende per il carattere pop, ritmato, ballabile e con quel pizzico di ironia testuale che nel giro di pochi viaggi in metro mi ha catturata nel loop del tormentone dal quale non sono più uscita. Mi vedo già trasportata su di una spiaggia a ballare come non ci fosse un domani sorseggiando cocktail. Il mood elettronico si ritrova in “Le Case D’Inverno” anche se qui l’amtosfera si fa notturna e languida e tutto suona più morbido. Finisce il primo giro e ne comincia un altro nel quale atterriamo nel mondo delle colonne sonore, terra amica al quintetto, nel quale ha iniziato a sguazzare amabilmente già da un po’,“I Cento Colpi” e la sua versione estera “I’ve Dream About You Love”, lato A e B della stessa cassettina, si fanno notare per la loro attitudine, pacata, privata di eccessi, di accompagnamento, appunto, a una scena fatta di canne al vento che ondeggiano. Probabilmente la A version italica riesce a essere più suggestiva di quella inglese. La terza e colclusiva tappa del Velvet tour approda in un mondo contemporaneo, forse troppo, fatto di parole recitate su basi ricche di suoni digitali ed effetti da smanettoni e privè Rock And Roll, “L’evoluzione “ vorrebbe negli intenti essere un brano provocatorio ma le frasi celebri e le citazioni che ne compongono il testo non riescono ad avere sapore e potenza espressiva. Una moda, forse, della quale potremmo fare a meno. Ritornati al punto di partenza possiamo quindi raccontare un bel viaggio fatto di momenti alti e qualche intoppo fuori programma. Non ci troveremo di fronte all’uscita dell’anno, ma nemmeno alla solita minestra riscaldata che molti propongono, e sicuramente nemmeno ai soliti Velvet, per una volta mettiamo al bando i pre e lasciamo parlare solo la musica.
Simona Ventrella Tag Archive
La Band Della Settimana: Il Mostro
IL MOSTRO nasce per partenogenesi.
Nel febbraio del 2011 quattro amici musicanti di vecchia data decidono di mettere a frutto un po’ di idee maturate nel tempo, fra sale prova e i numerosi palchi calcati con i rispettivi gruppi (Nemesi, Vintage Violence, La Fine Del Mondo, Multidimensional Smoking Trees, Züüngar).
I quattro provano a cucire insieme brandelli di influenze musicali contrapposte.
Al Mostro piacciono gli zuccherini, ma per tenerlo a bada serve il badile. il disco di debutto dell’omonima band di Como è il coronamento di un lavoro di quasi due anni, fra studio e concerti live. Nel disco sono numerose le influenze e commistioni di generi – dallo Stoner Rock al Blues, passando per il Punk e la Psichedelia – restando però sempre fedeli ad un suono analogico, dove l’unica elettronica presente è quella dei pedali degli effetti.
Impression Materials – It Shouldn’t be a Matter
Ci sono album che ci accompagnano in molti momenti della nostra vita come piccole colonne sonore che risuonano in sottofondo e la maggior parte delle volte s’incollano a ricordi d’incontri, partenze, addii, serate a ridere tra amici o a scaldarsi davanti ad un falò. Tra i miei preferiti ci sono quelli che generano la loro magia e si legano ai viaggi, il lavoro solitario di Impression Materials è senza dubbio un ottimo candidato a questo ruolo.
It Shouldn’t be a Matter è il risultato delle fatiche di Stefano Elli, un vero è proprio one man band nostrano dall’anima Blues, che si lascia dietro lo stesso sapore dolciastro e romantico della migliore tradizione dylaniana d’oltremanica. Bastano nove tracce per trasportarti in uno splendido viaggio tra deserti assolati, scogliere ventose e montagne innevate. La voce di Stefano però si distacca dall’immaginario a stelle e strisce, incarnata dal padre Bruce, e colpisce risultando molto pulita e limpida, priva del tutto di sporcature e graffi. L’album si narra nato tra live e registrazioni casalinghe, ma non ha nulla di casereccio e approssimativo, le capacità da polistrumentista di Stefano ed in particolare l’uso della chitarra, che predilige, creano tracce strutturate, ritmiche e ricche di suono, ma al tempo stesso dal sapore intimo e personale. Tutto scorre come parole di un unico discorso e nel complesso solamente due tracce stonano come pesci fuor d’acqua all’interno di questo quadretto trompe l’oeil “The Lamb” e “Staring at The Kitchken”, ereditate da un’esperienza musicale precedente e riarrangiate per dar corpo al disco. Eccetto i due estranei, brani come “Profite or Benefice” e “Strong Behavior” sono delle vere ballate di puro Folk americano in versione acustica, “Dance Thru” ti cattura per il sapore caldo e ritmico e “Narceine” ti lascia sul ciglio di una porta con le chiavi in mano.
Stefano Elli e il suo progetto Impression Materials ci consegnano un insieme di tracce che confermano una lezione spesso valida in musica: less is more. Canzoni spogliate di fronzoli e abbellimenti, ma non spoglie di storie da raccontare ed emozioni da suscitare. Letteralmente non dovrebbe essere un problema, infatti, non lo è ascoltare questo album leggero e impalpabile come l’anima che racconta, non invade le orecchie non ti fa scatenare in danze selvagge, ma la sua potenzialità sta proprio nel prenderti per mano e accompagnarti dolcemente nel tuo personale viaggio.
Pills nädal kakskümmend kolm (consigli per gli ascolti)
“Le Pills rappresentano il piacere che la mente umana prova quando gode senza essere conscia di godere.”
Silvio Don Pizzica
Surfer Blood – Pythons (Usa 2013) Power Pop, Alt Rock 3/5
Un disco freschissimo, estivo e con melodie eccezionali. Perfetto per accompagnarvi per i prossimi tre mesi. Pop in salsa Smiths, Vampire Weekend e Strokes ma nessuna idea che possa dirsi minimamente nuova.
Human Thurman – Bye Bye Umani (Ita 2013) Alt Rock 3,5/5
Un disco che può sembrare confusionario per la moltitudine di influenze e diverse scelte stilistiche utilizzate ma che, con gli ascolti, rivelerà essere proprio questa sua diversità di spirito il punto di forza.
Max Sannella
Soul Asylum – Hang Time (Usa 1988) Rock 4/5
La favola di 4 adolescenti di Minneapolis che trovano l’asse personale sulla via degli Husker Du.
Soul Coughing – Ruby Vroom (Usa 1994) Ibrid Rock 4/5
Background dalle forti tinte off, un art rock accattivante quanto sperimentale. Seminali.
The Style Council – Cape Bleu (Usa 1984) Pop Wave 3/5
Spregiudicatezza e nuovi sodalizi stilistici per una band retrospettiva e dal grigio doc.
Maria Petracca
The Muse – Showbiz (Uk/Usa 1999) Alternative Rock 4,5/5
Le origini. Il primo album in studio. Quando le chitarre distorte di Matthew Bellamy arrivavano come lance appuntite al petto, e là rimanevano, immobili. Sospese tra stupore e dolore.
Lorenzo Cetrangolo
Brunori Sas – Vol. Uno (Ita 2009) Cantautorato, Pop 4/5
Vincitore della Targa Tenco come miglior esordio, il Volume Uno (autobiografico, per la maggior parte) del cosentino Dario Brunori ha fissato su disco lo standard cantautorale “vintage” di questi anni: canzoni semplici, arrangiamenti retrò, recording lo-fi. Da suonare sulla spiaggia.
Transplants – Transplants (Usa 2002) Rapcore, Hip Hop 4/5
Piccolo gioiello a metà strada tra punk e hip hop, una creatura ibrida (un “trapianto”) che vede Travis Barker di Blink-iana memoria alle pelli e un caleidoscopico Tim Armstrong (dai Rancid) a quasi tutto il resto. Il disco scivola che è un piacere tra beat californiani, ironia sopra le righe e durezza da ghetto.
AFI – Sing The Sorrow (Usa 2003) Alternative Rock, Post-Hardcore 3,5/5
Gioiellino da quella scena americana di punk preciso, melodico, pettinato, un po’ plastificato. Alcune idee ingolosiscono (“Death of Seasons”), altre ci lasciano un po’ interdetti. Se siete rocker (o punx) duri&puri, girate alla larga.
Marialuisa Ferraro
Foals – Holy Fire (Uk 2013) Alternative 5/5
Praticamente da sola la tripletta Inhaler, My Number e Bad Habit fa la forza di quest’album. Suggestioni diverse per genere, ispirazioni, contenuti letterari, sensazioni.
Queens of The Stone Age – …Like Clockwork (Usa 2013) Stoner Rock 2/5
Ssssse. A me loro non fanno impazzire e ok, sarò partita prevenuta, ma questo disco pretende di essere ruffiano per piacere un po’ a tutti e finisce per non piacere a nessuno, per di più mi trasmette davvero molto poco…
Ulderico Liberatore
Gary Wrong – Knights of Misery (Usa 2013) Total Punk 4/5
Stufi delle solite canzonette Pop Punk?! Ecco una band singolare che potrà resuscitare in voi lo spirito
lo spirito antagonista e anarcoide distrutto dai Green Day.
Diana Marinelli
Genesis – Foxtrot (Uk 1972) Rock Progressivo 5/5
Bellissimo Rock targato Genesis per un album emblema degli anni settanta. Oltre che a consigliarne l’ascolto mi permetto di consigliare anche di ascoltarlo su vinile.
Myranoir – Ely è Leggiera (Ita 2013) Dark Psichedelico, Ambient 3/5
Myranoir nella realtà è Valentina Falcone, musicista che scrive musica dall’età di quattordici anni. Una musica Cantautorale, Psichedelica, con una puntina di Dark e soprattutto coraggiosa nell’affrontare temi importanti come l’anoressia.
Simona Ventrella
Fine Before You Came – Come Fare a Non Tornare (Ita 2013) Post Rock 4/5
Dopo una pausa di circa un anno e mezzo il quintetto milanese ritorna con un mini-album. Cinque brani che svelano una nuova veste del gruppo, più matura, cruda e ricca. Il disco è scaricabile gratuitamente dal loro sito, un motivo in più per ascoltarlo.
Omosumo – Ci Proveremo a Non Farci Male (Ita 2013) Elettro Rock 3,5/5
Progetto b-side per Dimartino, Roberto Cammarata e Angelo Sicurella, che si cimentano in questo EP con attitudini e sonorità distanti dalle forma canzone ai quali siamo abituati. Elettronica , synth, chitarre indiavolate e ritmiche da dancefloor, e un bellissimo video del brano omonimo, tutto direttamente da Palermo.
Marco Lavagno
Goo Goo Dolls – Magnetic (Usa 2013) Pop Rock 2,5/5
Più ottimista e diretto del precedente “Something For The Rest of us”, ma anche più gommoso e molle. La formula spesso vincente questa volta si infrange in uno scontato sorriso. L’onestà per fortuna rimane intatta.
Lucio Dalla – Canzoni (Ita 1996) Pop, Cantautorato 3,5/5
Anche nei momenti meno ispirati Dalla tira fuori interpretazioni come “Ayrton” (pezzo scritto da Paolo Montevecchi). E con estrema naturalezza il pilota ora vola in cielo e persino il suo bolide prende corpo. Una di quelle canzoni per cui vale la pena comprare un album.
Borghese – L’Educazione delle Rockstar
Parlare di borghesia nel 2013 potrebbe apparire anacronistico, soprattutto in un contesto come quello attuale in cui concetti come mezzi di produzione, ceto e società hanno assunto connotati diversi e difformi da quelli scaturiti dalle ideologie pre o post industriali, eppure un giovanotto abruzzese, un cantautore al suo esordio, decide letteralmente di indossare questa metafora moderna e chiamarsi Borghese e di presentarsi al pubblico con un album dal titolo non poco ossimorico L’Educazione Delle Rockstar. Viene da chiedersi, da quando una rockstar è educata o è sottoposta a un processo educativo?
Anzi per consuetudine la figura della mala educazione e della quinta essenza della sregolatezza è proprio la rockstar. Niente sorprese e occhi sgranati questa è solo una della molteplici provocazioni messe in atto da Borghese. Il disco e le undici tracce che lo compongono ne sono pieni, in pratica una costante provocazione fatta di rovesciamenti e parossismi, che trova probabilmente il culmine nella rilettura in chiave post-moderna, forse troppo, di “Bella Ciao”. L’inno di molte generazioni viene privato del suo valore ideologico per diventare una beffa critica alla politica. Anche l’aspetto vuole la sua parte e Borghese non intende smentire la propria linea scegliendo di mostrare il suo volto attraverso i buchi di un passamontagna e accompagnarsi con una pistola giocattolo e una 24 ore. Vestire i panni dell’antieroe nel mondo dei supereroi, e rappresentare visivamente valori che richiamano un mondo violento potrebbe essere una scelta non del tutto condivisibile e comprensibile, ma per fortuna aldilà della palese volontà di essere plateali e fare rumore si trova un disco ben fatto, ricco di testi ironici a tratti dissacranti conditi da un buon Elettrorock.
Ci sono brani che al primo ascolto richiamano melodie familiari come “Annie”, che nonostante un intro abbondante colpisce. Le tematiche snocciolate sono molteplici e l’amore e la figura della donna spesso rappresentano la chiave di lettura, come in “L’Odore”. Un amore violento, ricco di forti emozioni raccontato attraverso la dolcezza dei suoni. Questa è forse la sorpresa più bella del disco: tutta l’irruenza e la cattiveria visiva si sciolgono in sonorità morbide, non prive di ritmo, a volte sussurrate. La mano da cantautore non manca e lo spessore dei testi è evidente in “Cosa Hai da Guardare”, spaccato di una gioventù allo sbando, e ”Luoghi in Comune”, dove i più banali luoghi comuni verbali diventano l’espediente narrativo di denuncia. Conclude questo album d’esordio “Preghiera di un Uomo Per Bene”, una dedica alla vicenda di Tortora che riconferma e racchiude il senso di critica e dissenso di tutto il progetto . Che dire la musica riesce ad arrivare e sorprendere anche senza identità smascherate, e senza doverla necessariamente condire di manifesti e ideologie. Non dite a Borghese che il suo disco piace anche se il muro di Berlino è caduto nel 1989.
LaCorte – Grande Esposizione Universale
La grande esposizione universale nasceva come termine per indicare le grandi esposizioni tenutesi fin dalla metà del XIX secolo in giro per il mondo. Viene da chiedersi cosa lega LaCorte, gruppo composto da quattro giovanotti brianzoli, al mondo delle EXPO. Senza dubbio il titolo del loro nuovo album, Grande Esposizione Universale ma non solo. Insieme dal 2008, dopo un EP e un album registrati in presa diretta, escono con 10 brani, alcuni nuovi altri tratti dall’album “Percezioni Di Vita Distorte”, dal sound più definito e curato. Genuini, senza troppi fronzoli, Pop nell’accezione più positiva della parola, universali nel senso e nelle sonorità, come le celebri esposizioni. Ecco il legame che cercavo. Se si ascoltano con cura le parole si coglie in prima battuta come i testi lineari, non necessariamente fioriti e ricchi di richiami a mondi iperuranici, sono diretti, immediati, comprensibili e le emozioni di cui parlano sono reali e facilmente percepibili. Essere universali da questo punto di vista spesso richiede doti di sottrazione, piuttosto che di aggiunta e i brani rispecchiano la magica regola anche sul lato musicale: un basso, due chitarre e una batteria sono quello che basta ai LaCorte per confezionare i loro pezzi. Ci sono brani come “Peter Parker e Mary Jane” e “Provinciale Per Il Paradiso”che suonano subito come possibili hit da raccolta e che sicuramente un pubblico ampio apprezzerebbe. La voce di Davide Genco è piena, rotonda, poco spigolosa e senza perdersi in eccessivi virtuosismi, aggiunge il giusto colore ai brani, in “7 Vite” si riesce ad apprezzarla in pieno sotto questi aspetti. Sebbene come già detto i dieci brani svelino l’anima pop del gruppo la scelta di non cadere nel trappolone del lento melanconico alla The Calling li premia. La seconda parte dell’album, invece, svela generose influenze provenienti dal mondo del rock. Ascolti senza dubbio di spessore, come da loro stessi citati sui loro canali web, che si concretizza con l’aggiunta di suoni distorti e una batteria più dinamica come in “Contro Di Te”. Nel complesso tutto suona bene, ma i brani inediti, a discapito di quelli ripresi dal precedente lavoro, hanno maggiore forza e presa, probabilmente perché figli di un percorso di crescita del gruppo stesso, che ci auguriamo continui e li porti a proseguire nel lavoro di perfezionamento. Nel non sarà l’album che li porterà alla ribalta, ma rappresenta senza dubbio un ottimo passo.
Appino e Il Testamento 25 Aprile @Magnolia
25 aprile in un Magnolia non pienissimo sono in attesa di partecipare a un live ricco di aspettative, soprattutto musicali, visto che per il suo primo lavoro da solista Appino si è circondato di musicisti di gran rispetto come Giulio Favero e Franz Valente, militanti nella sezione ritmica del Teatro Degli Orrori, ed Enzo Moretto dei navigati A Toys Orchestra. Il lavoro realizzato dalla voce degli Zen Circus si discosta, e non poco, dalla consueta veste nella quale si è solito ascoltarlo. Niente Pop/Punk irriverente e ironico, tutto è momentaneamente congelato per dar spazio a un mondo oscuro, tetro fatto di demoni e masse alienate, di sentimenti dalle sfumature nere come la pece e rosse, di quelle porpora degne di un horror all’Argento. La gente stasera non è venuta con le scarpette lustre e le maglie lucenti per passare una serata scanzonata, è tutta lì per ascoltare un album che ha rapito per la profondità dei testi e il peso delle parole. Il live purtroppo incomincia con qualche problema acustico, il Magnolia è un posto nato per la musica ma questa volta le pecche sono molteplici sia per la voce sia per il basso. L’inizio è comunque oltremodo irruento, rock duro e puro quello che esce dalle note di “Fiume Padre”, “Fuoco” e “Lo Specchio Dell’Anima”. Tripletta devastante dove l’impronta del duo ritmico del Teatro Degli Orrori si fa sentire di prepotenza, manca solo che Appino si trasformi in Capovilla, ma questo per fortuna non accade. Si accentuano le sincopi e i toni psichedelici con “Passaporto”, nella quale Favero abbandona il basso per dedicarsi ai synth. Fino adesso i suoni sono ricchi di distorsioni e la stessa voce di Andrea si fa decisamente più sporca rispetto al disco. il live rende questo disco, grezzo, accentuandone in maniera decisa la durezza. E’ tempo di ascoltare la title track “Il testamento”, dedica a Mario Monicelli ed intensa come poche. Si prosegue con un omaggio e una dedica ad un giorno come il 25 aprile e “Questioni Di Orario” risuona per tutti quelli che sono figli di nessuno, un po’ come noi italiani verrebbe da pensare. L’esplosività della prima parte lascia il passo a melodie più chiare e delicate nelle quali le chitarre travolgenti si prendono un profondo respiro per lasciare la sola voce di Appino nei “I Giorni Della Merla” a scaldare la platea, tanto che dismessi per un attimo i panni da roker scende a cantare con il pubblico, come se all’improvviso fossimo tutti catapultati ad una festa tra ragazzi che urlano emozioni al cielo. Si continua sul filone ballata con “Godi” e con un marcato accento pisano si fa anche ironia sul tema del carpe diem. Il momento intenso e melanconico si infrange nell’istante in cui si intuiscono le note di “Tre Ponti”, il ritmo riprende e la chitarra di Moretto si incendia, tanto che lo stesso Appino finisce travolto in un duetto all’ultima nota. Segue il primo singolo “Che il lupo cattivo vegli su di te”, una vera ninna nanna di cui però rompe gli schemi tradizionali per trasformarsi in un incubo ad occhi aperti degno dei fratelli Grimm. Pelle d’oca non c’è altro da dire, difficile stare fermi o non cantare un motivetto così pervasivo. Seconda citazione per Monicelli con il brano “Solo Gli Stronzi Muoiono” con annessa invasione di campo o di palco da parte di un troppo esuberante ascoltatore, per fortuna allontanato dal microfono dalla discreta security. Appino si rivolge al pubblico: “Avete paura di morire?” E mentre sale un corale no in sottofondo parte una sommessa marsigliese sulla quale si innesta una paranoica “Schizofrenia” pezzo selvaggio, vero Punk Rock che chiude il concerto. Il gruppo esce ma tutti sanno che manca ancora qualcosa all’appello, e infatti si torna sul palco per i saluti finali e per concludere questo viaggio nell’Ade personale di Appino con due brani: l’attuale “1983”, canzone dedicata al presidente Pertini e al suo discorso di Natale, e con ultima perla: “La festa della Liberazione”. Appino indossa le vesti da cantautore vissuto, imbraccia la chitarra e la fisarmonica e ci incanta con una ballata alla Bob Dylan dal sapore agre come il fiele, che per me vale tutto il concerto. Il super gruppo ci lascia ai synth e alle distorsioni ad libitum che stonano con tutto l’atmosfera creatasi lasciando gli ascoltatori allontanarsi tra rumori e distorsioni. Bel lavoro, bel concerto, un 25 degno di essere ricordato.
Afterhours
@ Factory Milano, live 18 aprile 2013.
Seconda data sold out per gli Afterhours al Factory di Milano ed io da brava fan non posso non presenziare all’ennesimo live della band. Appena varcato l’ingresso la domanda sulla location è d’obbligo: posto piccolo, mal disposto, lontano dal centro, acustica pessima, viste le premesse stasera ne varrà la pena? Perplessità a parte si passa all’occhiata di rito ai presenti e subito ci si rende conto di essere al live giusto. Molti giovanotti sui vent’anni e una folta schiera di persone con qualche capello in meno e la barba brizzolata, ma non c’è da stupirsi sono gli After che richiamano da sempre chi è cresciuto con loro dagli anni 90 e chi invece poco avvezzo a Lady Gaga&Co cerca altro nel mondo “alternativo” italiano.
Il live incomincia in orario rispetto a quanto comunicato dal gruppo sui social e il sestetto di bianco vestito fa il suo ingresso alle 21.50. Il candido vestiario simil boy-band fa rimpiangere il grigio look da rockers, se non fosse per Roberto Dellera che pur di non rinunciare alle sua mise anni ‘70 sfodera occhialoni bianchi e ciondolone dorato e Xabier Iriondo al quale manca solo il pacchetto di Marlboro arrotolato sul braccio per fare il muratore a tempo perso, o il coatto di periferia.
La musica incomincia e tutto va in secondo piano; “Veleno”, “Elymania” e il “Sangue di Giuda” sono i brani della tripletta iniziale che scalda subito la platea, e il peso del sold out si fa immediatamente sentire sulla pelle. La scaletta prosegue con “Spreca Una Vita”e un piccolo dono per i fan di vecchia data, la toccante “Rapace”, pezzo che mancava da tempo nei live degli After. Si prosegue con una sapiente alternanza di pezzi tratti dell’ultimo disco Padania e da album più datati come Hai Paura Del Buio del 1997 e Ballata Per Piccole Iene del 2005. Il gioco con la linea del tempo messo in campo dal gruppo, però, non corrompe la continuità sonora e si passa da “Ci Sarà Una Bella Luce” a “La Sottile Linea Bianca” e “1996” come se fossero capitoli dello stesso libro. La prima parte scorre veloce e si conclude con “Padania”, che inizia silenziosamente in versione acustica con Manuel e Rodrigo per poi esplodere in una vero e proprio tripudio di suoni e chitarre distorte.
Seconda parte. Si rientra in scena e la carica del gruppo si fa sentire: scaletta serrata e cuore in gola per “Varanasi Baby”, l’attualissima “Costruire Per Distruggere” con Rodrigo e Xabier ai fiati, “Tutto Domani” e il cavallo di battaglia “Male di Miele” che scatena anche l’immobile uomo-armadio dalla maglietta troppo aderente al mio fianco.
Piccola pausa, la seconda serata probabilmente si fa sentire, e si ricomincia con “Musicista Contabile” per arrivare alla vera perla della serata “Io so Chi Sono”. Brano di Padania che per me è sicuramente la perfetta rappresentazione di cosa sono gli Afterhours adesso. Lo si vede e lo si sente dall’intensità dei suoni, dalla voce di Manuel e da come la usa, dalle vibrazioni tra di loro, tanto che anche il semper serafico Ciccarelli cede e si butta nella mischia delle chitarre con Manuel e Xabier.
Scivola “Tutti Gli Uomini Del Presidente” con Dellera in veste di cantante e l’irriverente “Sinfonia Dei Topi”. Ci si avvicina al finale e il gruppo si concede a ritmi meno incalzanti con la ballata “Il Mio Ruolo”. Un breve tuffo nel passato con la spettacolare “La Vedova Bianca”, più veloce rispetto alla versionedel 2005, ma che genera sempre grande energia così che le mani alzate, di un pubblico che già sa quale ritmo seguire, battono all’unisono. Si torna ai giorni d’oggi con la struggente “Nostro Anche se ci fa Male” e “La Terra Promessa si Scioglie di Colpo”.
Fine. Respiro profondo, gli Afterhours salutano, si ritirano e sembra tutto terminato, ma nessuno si muove come chi sa inconsciamente di dover aspettare. Infatti, il gruppo riesce per una lauta ricompensa la canzone che non può mancare “Bye Bye Bombay”, dove la pelle d’oca è un dovere e urlare a squarciagola “Io non tremo è solo un po’ di me che se va” assomiglia a un rito collettivo di liberazione. Grandi ovazioni per tutti, noi siamo soddisfatti e felici, tutto concluso, ma questa sera siamo in grazia divina e a sorpresa ci viene regalato un extra bis con “Voglio Una Pelle Splendida” e un’ immensa interpretazione di “Quello Che Non c’è”. Stanchi, un po’ sudaticci e provati, dopo due ora e mezza di concerto non posso che rispondere alla domanda iniziale con un sonoro ne valeva la pena, eccome! Io sono di parte poiché fan, ma ricomprerei il biglietto altre cento volte e la prossima volta mi avranno ancora sotto il palco a urlare. Premio energia a Xabier che spesso ruba la scena al più tranquillo Manuel, nonostante gli Afterhours siano tornati ad essere Manuel centrici, ma a noi questo piace.