Un dovuto atto di coerenza e onestà intellettuale. Non una bocciatura ma un incoraggiamento.
Probabilmente era poco meno di un mese fa quando ho infornato per la prima volta questo Ep dei Sister In The Closet. Non fu propriamente un colpo di fulmine e quindi decisi di passare oltre, in attesa, magari, di un giorno migliore. Capita a tutti, credo, quando si ascolta a scatola chiusa, di incappare in periodi particolari nei quali un certo stato d’animo t’impedisce di apprezzare talune sonorità. È per questo che ieri ho scelto di rimettere le orecchie in Omnia Mutantur. E, cazzo, devo dirvi che non è cambiato niente. Come diavolo è possibile? Sono io il problema, anche se sono diverso da quel giorno? È forse questa casa e la sua pessima acustica o forse lo stereo e la posizione delle casse? È quello che ho mangiato a pranzo o l’aria putrida di questo paesino di morti, pazzi, alcolisti, falliti e bravi ragazzi? Forse è “l’emergenza caldo” (cit. Studio Aperto) che mi frigge le sinapsi? Ho deciso. Prendo il disco, mi faccio sessanta chilometri e cambio casa e città, stereo e aria. Cerco la situazione ideale per capire. Una bottiglia d’acqua gelata, un bottiglione di Galasso, due pacchi di Pall Mall lunghe come il cielo d’estate e ventiquattro latte di Spokenbeer (from Todis) in frigo. Cellulare spento e Omnia Mutantur in loop per tre ore. Questo è tutto quello che ho da dire.
Il primo pugno in faccia l’ho ricevuto dalla qualità audio, assolutamente non degna. Non voglio fare della cosa una colpa eccessiva per la band. Io stesso ricordo le difficoltà di registrare nei miei primi anni da bassista senza una lira (sì, c’era ancora la vecchia), senza grandi mezzi, con in sostanza nessuno a credere davvero in te, con registrazioni in presa diretta fatte con stereo a cassetta ante era Cd Rom. Capisco cosa significa e quindi cerco di dare, quando possibile, meno importanza alla cosa di quella che dovrebbe avere.
In linea con la qualità audio mediocre, anche la copertina dell’Ep dei bellunesi avrebbe meritato maggiore cura. So che quello che conta è la musica, oltre tutto, ma fino a quando i dischi non avranno tutte identiche copertine monocromatiche numerate in serie (un mio cruccio!?), l’immagine stampata sarà comunque uno dei primi biglietti da visita. Andiamo oltre l’estetica visiva. Passiamo alla musica di Eugenio Tonus, Carlo Bolzan, Martino Fregona e Adriano Losso. Alternative Rock in lingua italiana, con voce registrata a tratti troppo alta e imperante sulla strumentazione tanto da richiamare i più classici cliché del Pop-Punk da Mtv tipo Finley (non conosco molto questi gruppacci da adolescenti in calore quindi ho fatto il primo nome che mi è venuto in mente). L’Ep si apre proprio con “Omnia Mutantur”. L’intro è assolutamente promettente, con le note che echeggiano impalpabili ed eteree dietro la voce narrante. Poi parte la parte vera del pezzo con le martellate della batteria che purtroppo non riescono in maniera credibile a fare da legante tra primo e secondo tratto. Il brano si presenta traboccante d’idrofobia soffocata nelle parti urlate tendenti al Crossover, con diversi cambi di ritmo che fanno oscillare il sound dal Pop più melodico all’Alternative più veemente.
“Odissea” parte invece con un convincente intro di chitarra (anche se nella prima parte mi sembra di ascoltare una piccola sbavatura) che anticipa, con l’aiuto dei sempre puntuali coretti, musica dal vago sapore di musicassetta Flower Punk, con i disegnini fatti a mano. La melodia non è però abbastanza accattivante e gli attacchi nelle diverse variazioni che si susseguono, suonano forzati e poco efficaci.
In “Acido Lattico” è la volta del basso a fare da apripista per il brano più interessante del quintetto. Nella sua semplicità, con una maggiore carica e un mixaggio più accurato, sarebbe stato assolutamente un ottimo pezzo. “Fantasma” propone un giro di basso, una melodia vocale e assoli di chitarra particolarmente interessanti salvo però perdersi in un’inutile pesantezza nella seconda parte. L’Ep si chiude con “Il Bersaglio”, altro pezzo ricco di potenzialità cosi come di punti deboli. A tratti richiama alla mente i primi Verdena ma il suono non è mai abbastanza robusto. Troppi margini vuoti nello spazio contenitivo del brano ne minano l’equilibrio. Per riempire al meglio un’area con poche cose, quelle cose devono essere grandi e speculari. È questo che non accade.
Il mio tempo è finito. Il vino, la birra e le sigarette no. Il giudizio è cambiato, almeno un po’. Bisogna migliorare non solo la qualità di registrazione e sotto l’aspetto estetico. I Sister In The Closet devono suonare, suonare, farsi il deretano e suonare tanto e basta. Poche parole. L’unico modo per riuscire al meglio nella parte esecutiva, negli stacchi (a volte indigesti) e soprattutto per dare fluidità e corposità al loro suono (ed evitare che gli strumenti vaghino ognuno per la sua strada per poi ritrovarsi, nei momenti di assolo, in pericolosi e bui vicoli ciechi), è suonare e farsi il culo. E magari osare, tentare vie originali, alla ricerca dell’unicità (per ora ci riesce in parte solo la voce che, per quanto non oggettivamente eccelsa, presenta un timbro bugattiano accattivante). Poi se avanza del tempo, si potrebbero curare con meno vaghezza i testi, giacché sono in italiano.
La carica c’è, le melodie sì e no, ma di potenzialità ce n’è tanta da venderne alla domenica.
Omnia Mutantur, nihil interit. Tutto muta, nulla perisce. Mai parole furono più azzeccate. Speriamo che i Sister In The Closet cambino qualcosa al loro sound prima di perire nell’anonimato.