Si chiama Islands il comeback dei toscani Verily So, band Shoegaze, Slowcore in uscita il 3 giugno per V4V-Records e W//M a distanza di tre anni dal loro esordio self titled che riscontrò un grandissimo successo di pubblico e critica.
Dalle sonorità più compatte e Shoegaze, Islands arriva al termine di un periodo che ha visto i singoli membri della band dedicarsi a progetti paralleli (Luca ha dato vita a Barrens, Simone a Small Giant e Marialaura ha scritto canzoni per un progetto di prossima pubblicazione) e l’ingresso nella formazione di Antonio Laudazi (Orhorho) alla batteria. Il concept, non cercato, è quello dell’incomunicabilità: da qui Islands, sinonimo lampante di lembi di terra alla deriva, ognuno per sè. Islands è il primo disco dei Verily So scritto ed arrangiato interamente dalla band al completo ed il suono è il frutto delle lunghe sessioni in sala prove: più distorto, Wave, Shoegaze, un panorama che sacrifica all’altare del feedback l’aspetto più Folk del progetto.
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Islands, il nuovo album dei Verily So
I Quartieri – Zeno
C’è una teoria abbastanza strampalata sull’evoluzione della cultura giovanile che lega le ondate e i riflussi di alcune modalità d’espressione, non solo artistiche, ai cicli solari. Formulata da Iain Spence nell’ormai lontano 1995 e poi più volte modificata e ritrattata, viene esposta anche dal grande Grant Morrison nel suo libro semi-autobiografico Supergods.
Per farvela breve, una versione di questa teoria collega i cicli solari, di 11 anni, a come nascono e si sviluppano le youth cultures. In particolare, si possono (o potrebbero) notare due poli: uno hippie, che si porta dietro la passione per capelli lunghi, vestiti larghi, musica popolare in forme dalla durata mediamente più lunga, droghe psichedeliche, pace, e un interesse maggiore verso la spiritualità; l’altro punk, che implica il contrario, ossia capelli corti, vestiti stretti, musica più corta e immediata, droghe eccitanti, aggressività, materialismo. Secondo questa teoria, nel 2010 dovremmo essere tornati alla fase hippie, ed effettivamente (per quanto l’ipotesi Sekhmet, questo il nome, non sia basata, ovviamente, su nulla di scientifico) noto uno svilupparsi sempre crescente di situazioni collegate a questo “polo”.
Per esempio, se fossimo in un periodo punk, questo bell’album de I Quartieri sarebbe forse di un pop più acustico, più folkeggiante/cantautorale, un po’ più ruffiano, un po’ più paraculo. E invece, per nostra fortuna, siamo nel 2013: la band romana ci regala Zeno, un album denso di Pop Rock sognante e, per l’appunto, psichedelico. Pop Rock perché il Pop sta nella leggerezza e nell’immediatezza catchy di alcuni “ganci” incredibilmente efficaci, nella messa in scena più che accessibile, nelle voci morbide, distanti, e dal timbro assai caratteristico; ma la forma, espansa e avvolgente, dei loro morbidi soundscapes è molto Rock, nell’accezione più ampia del termine. Capiamoci, niente chitarre distorte e batterie fucilate, ma piuttosto uno spirito Rock, molto sixties, per l’appunto: psichedelico, “psiconautico”, pacifico, spirituale, in senso lato; poco materialista, se preferite. Zeno è una carrellata di visioni spiraleggianti, circolari. Dall’apertura “9002”, una processione lenta, vicina a certi Arcade Fire, fino alla title track, che parte più classica ma poi si apre su movimenti imprevedibili, e ti entra sottopelle con lenta facilità (o facile lentezza, fate voi). Da “Organo”, traccia conclusiva che richiama i Low più ariosi e sintetici, alla mia preferita, “Argonauti”, con quel giro armonico e quella melodia che si fissano là, tra la gola e le orecchie, e lì rimangono, per ore, a ruotare, lente.
Nel complesso, un’ottima prova quella de I Quartieri, che riescono ad accompagnarci con tranquillità su e giù per tutto il nostro spettro emotivo, anche se, bisogna ammetterlo, Zeno funziona al suo massimo quando si tratta di immergersi nei fondali oceanici: quando naviga a vista, sotto costa, ci rapisce un po’ di meno e si confonde un po’ di più. Ma questa è senz’altro colpa del ciclo solare hippie, che ci condannerà a psicanalizzarci in musica per almeno altri sette anni…
Ard – NeurodeliRoom26
La Campania, si sa, è un territorio difficile come lo è la Sicilia, la Puglia ma infondo tutta l’Italia (e tutto il mondo) mangiata dalla mafia. La mafia, detta in parole povere, è un potere più forte che schiaccia quello più debole, infiltrandosi dappertutto e anche nella musica che diventa veicolo pulito attraverso il quale far passare i messaggi del clan. Questo ce lo dice Roberto Saviano in alcuni suoi racconti ma anche il rapper Lucariello che, fortunatamente, fa parte di quella schiera di musicisti davvero puliti, cui fa parte anche il salernitano Ard, protagonista di due altre autoproduzioni e varie collaborazioni.
NeurodeliRoom26 di Ard è l’album d’esordio ma anche, come descritto dall’artista stesso, “un viaggio onirico, tra le paure e i deliri della stanza 26 (stanza ispirata al film “Eraserhead” di D.Lynch)” a cui si accede attraverso una breve intro di poco più di due minuti denominata “Deja Vu pt.1” che ha il compito di aprire la strada a “Deja Vu pt.2” che parte con un rap sparato ben strutturato nelle liriche e nelle basi sonore. “P’ cena” rinforza quanto detto prima, evidenziando le qualità di rapper di Ard, anche se ha un outro che si discosta molto dal resto del brano e soprattutto dalla successiva “StendhArd” che comincia simulando i Portishead per poi allontanarsi e in pochi secondi dirigendosi verso spazi musicali totalmente opposti. Il gioco di parole sul titolo fa capire che forse il brano in questione vuol essere quasi il manifesto sonoro di Ard ma forse la successiva “Passpartout” (complice l’uso della lingua italiana) secondo me lo identifica maggiormente grazie anche a un uso massiccio di scratch ed elettronica. “Ndr26” presenta rime interessanti e mai troppo banali invece “Hotline dei Suicidi” è un insieme di campionamenti ben incastonati tra loro ma in maniera forse un po’ troppo ardita che difficilmente potrà essere recepita da un ascoltatore in Italia ma probabilmente troverebbe apprezzamenti di critica e di pubblico soprattutto in Inghilterra e negli Usa. “Krmstr” inizia con l’intro di “Lullaby” dei Low, brano contenuto nel capolavoro Slowcore I Could Live in Hope ma poi “Ruorm’ ca è Meglio” attenua le atmosfere conducendo alla fine del disco.
Un lavoro che in linea di massima presenta molti buoni spunti e idee soprattutto nell’impasto musicale e nei testi che sembrano ben studiati ma la struttura dei brani rimane sempre statica con effetti e campionature sia all’inizio che alla fine di ognuno e per quanto riguarda le cifre stilistiche non sembrano esserci riferimenti alla scena rap italiana, quanto più che altro a quella americana, che tuttavia presenta testi più incisivi e violenti. Infine, forse con un mastering migliore e con un produttore, questo lavoro avrebbe guadagnato anche qualcosa in più in suono, stile e volume che se alzato al massimo distorce i suoni.
Live Footage – Doyers
Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.
“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.
La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.
Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.
Low – The Invisible Way
Per i Signori Sparhawk, detentori da dieci dischi del logos Low, con queste ambientazioni fatte girare tra le pareti sonore del nuovo The Invisible Way molto probabilmente – ma lo è di sicuro – è arrivato l’attimo, il tempo giusto per abbandonarsi a setacciare tutti i risvolti dell’anima fino alle più fitte intercapedini che vi ci si possano annidare; un pò di stacco vitale per ripulirsi dentro fa sempre bene, rischiarare il buio con la luce della tranquillità è l’input di un canzoniere, di un manifesto sonoro che si affina e addolcisce come un avvicinamento alla forma canzone in punta di piedi e nervi riposati.
Acustiche, liricamenti Folk, ispirazioni field e poesia nuda si fanno spazio tra ballate e Slowcore che attraversano la tracklist come aria dopo un violento temporale, una sensibilità introspettiva che diventa materia e aliante vitalità per un ascolto cameristico da dieci e lode, e quando poi la positività si riprende i tempi andati dei loro chiaroscuri, i Low cominciano a brillare talmente forte che diventano immediatamente fruibili per sognare dal profondo; il trio di Duluth (Minnesota) rinasce – se la vogliamo dire tutta – in un cambiamento lineare che disegna trame e scansioni melodiche eccezionali, undici tracce che hanno il taglio appunto del profumo Folk, quella dose di malinconia tra ricordi e presenti che non diminuisce mai, una costante che tocca i momenti più cool – e ce ne sono tanti – dell’intera list. Vogliamo magari parlare di un disco elegiaco? Ebbene si, i Low sono raffinati a tal punto che crescono con l’intonsa espansione di un’alba d’autunno, si allargano tra acide ispirazioni e ieratiche atmosfere che è inutile provare a trovarci un neo che sia un neo, sarebbe come cercare pelo in un covone.
Il pianoforte liquido che trema “Amethyst”, la spennata indolente sulle orme di Young “Holy Ghost “, “Clarence White”, l’epos peculiare che abita “Just Make it Stop” o la forte ispirazione che sta dietro le reiterazioni di “To Our Knees” saranno certamente le rivelazioni d’ascolto che più vi prenderanno, niente di pre-condizionato intendiamoci, col tocco dell’intensità toccante.
Low – Nuovo album in uscita e tour (e uno splendido regalo)
I Re dello Slowcore (insieme a Red House Painters), in occasione del loro ventennale, annunciano l’uscita, il prossimo 18 Marzo per Sub Pop, di The Invisible Way (ecco il trailer http://www.youtube.com/watch?v=2swv0SQI_C4&feature=youtu.be), realizzato in collaborazione con Jeff Tweedy (leader storico dei Wilco), che riveste anche il ruolo di produttore. Se questo non dovesse bastare a migliorare la vostra giornata, la band di Duluth vi regala un live set di sei pezzi dal titolo Plays Nice Places (lo travate al link http://app.topspin.net/store/artist/3205?highlightColor=0xFFFFFF&playMedia=true&wId=176507&w=620&h=345&theme=black&awesm=t.opsp.in_l0S3E&src=tw) realizzato in occasione dello scorso tour con Death Cab For Cutie. Infine, preparate i soldoni e prendetevi le ferie per il prossimo 11 Maggio. I Low saranno a Bologna al Teatro Antoniano di Bologna per una data da non perdere.
Intanto, per scaldarci le orecchie, un pezzo del loro capolavoro datato 1994: