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Pertegò – Stations

Written by Recensioni

Credevo che la musica proposta dai Sigur Ròs fosse un prodotto puramente islandese, di quelli inimitabili ed inarrivabili. Credevo che fosse tutto frutto dell’atmosfera e dei paesaggi che lì Madre Natura è solita servire. Dell’aurora boreale, dei ghiacci che si sciolgono e del silenzio che li avvolge. E invece non è solo Reykjavik a fornire il contesto giusto per la nascita di una sonorità tanto idilliaca quanto misteriosa. Viaggiando verso sud, infatti, a circa 2900 km di distanza, è possibile imbattersi in un gruppo di ragazzi che sembra aver tutta l’intenzione e le carte in regola per dir la propria a colpi di Post Rock. Siamo a Piacenza ed è qui che nascono i Pertegò. Sono Khristian, Emanuele, Alessandro e Marco, uniti dalla passione per il northern-ambient sound. Il disco oggetto d’esame è il loro quarto lavoro, preceduto in ordine da Snow Behind the Enemy Lines, Hjarta Rad e Hjarta. Il titolo è Stations ed i nove capitoli che lo compongono sono tutti, senza eccezioni, degni di ripetuti ascolti.

Siamo innanzi ad un lavoro quasi pienamente strumentale. Un lavoro che sin dalle prime note di “Lula” mostra tutto il suo potenziale. La voce si fa sentire a tratti, incomprensibile ed indistinguibile, quasi a volersi dissolvere tra le composizioni e fondersi con la musica. Lo stile è esattamente quello adottato da Jònsi, ma molto più timido ed imbarazzato, introverso. Si staglia su ritmiche lente ed effimere, che un attimo dopo sembrano non esserci più. Le track successive sembrano conservare lo stesso ideale naturalista e la stessa indomabile determinazione. Ogni traccia sembra voler mostrare qualcosa, un paesaggio mozzafiato che dura soltanto un istante e che non si fa in tempo ad immortalare. Tutto intorno al disco un’aura di tristezza, malinconia e voglia di libertà. La title track fa da portavoce a tali considerazioni, ripescando sonorità Ethereal Wave degne di Enya e cori alla Lisa Gerrard e donando in chiusura tonalità più aggressive, riconducibili ad una spiccata vena Mogwai. 11’35’’(che non annoiano di certo) incuriosiscono attraverso sapienti cambi di stile e di personalità, passando in rassegna la scala delle emozioni e facendo vibrare tutte le corde fastidiosamente ed insistentemente. Ma lo stesso si potrebbe dire di episodi quali “A New Horizon”, “Wave Function Collapse”, “The Descendent”… Insomma, siamo innanzi ad un disco che va ascoltato tutto a luci spente e senza pausa, che ha in serbo colpi bassi e frustranti faccia a faccia con sé stessi. Vorrei riuscire a muover critica al lavoro svolto dai Pertegò, qualcosa di costruttivo, qualcosa in grado di spronarli a continuare a far musica. Potrei dire che sono un’emulazione dei Sigur Ròs, che sono un mix di tanta musica già masticata, che sono troppo introspettivi, che sono superati e che sono lenti. E tutte queste considerazioni sarebbero tutte quante sincere. Ma la verità è che sono esattamente ciò che avrei voluto ascoltare, ciò a cui avrei voluto lavorare. Credo che i Pertegò siano di quelle band consapevoli, senza pretese, ricche di difetti, ma che sappiano farsi amare concentrandosi sui loro pregi. Questo è come li descrivo io. Loro amano descriversi così: “Pertegò luogo di rara bellezza sperduto al culmine della valle, aria di altri tempi, luce forte a accecante, acqua di fonti pure, terra e paesaggio a tratti rigoglioso e altre volte crudo e desolato. Questo sono i Pertegò che raccontano storie su una natura ancora libera, raccontano il loro mondo fatto da cose semplici e dalla natura che li hanno creati”.

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