Songwriting Tag Archive
Fast Listening | Settembre 2016
Sophia – As We Make Our Way (Unknown Harbours) (Alt Rock, Songwriting) 6,5/10
Dopo sette anni di silenzio i Sophia ritornano con un disco che miscela piuttosto sapientemente suoni elettrici ed acustici ma che paragonato al passato perde qualcosina a livello lirico (ma non pensate manchi di emozionare) e si appoggia spesso ad un sintetismo che non sempre convince. Nonostante questo il disco scorre via piacevolmente (parliamo di Sheppard dunque pesate bene il termine) tra Pop di elevata fattura (“Blame”) ed aperture più facili e solari (“California”, per quanto da quelle parti nel testo il sole non sia tutto passando per quei brani dalla classica intimità che da sempre contraddistingono questo valido progetto(“The Drifter”, “Baby, Hold On”), fino a giungere alla conclusiva “It’s Easy To Be Lonely”, tra i momenti migliori del disco con la sua ottima coralità, senza però far mancare lungo il percorso qualche piccolo passo falso (il Rock leggermente sintetico di “St.Tropez / The Hustle” proprio non convince). Per quanto qualcosa di meglio si potesse sicuramente aspettare il disco non delude e non possiamo dimenticare che è sul palco che Robin Proper-Sheppard (in solitudine come coi suoi compagni) aumenta a dismisura la sua travolgente intensità.
[ ascolta “Resisting” ]
uKanDanZ – Awo (Jazz-Rock, Ethio Jazz, Free Jazz, Noise ) 7,5/10
Terzo lavoro sulla lunga distanza per questo combo che fonde al suo interno un quartetto di ottimi musicsti Jazz di Lione (chitarra, basso, sax, batteria) e la voce di Asnake Guebreyes, bravissimo e carismatico cantante proveniente da Addis Abeba. Il disco sprigiona un’energia Punk Rock ispirandosi a canti della tradizione etiope. Il lavoro dei 4 musicisti ed il canto appassionato di Guebreyes si fondono in una miscela insana, enrgica e dalla grande e mai invadente dinamicità che rimane ardente anche durante “Gela Gela” il brano più tranquillo del lotto, con l’ottimo ed ipnotico lavoro della sezione ritmica, il sax e la chitarra sempre puntuali ed all’altezza della situazione durante i loro interventi ed una voce in questo caso più che mai evocativa. Il sound della band fonde perfettamente vari stili (non mancano neanche momenti che potremmo classificare come Rock Progressivo) creando una simbiosi perfetta dei due continenti che fanno da casa al quintetto, senza farcene mancare un terzo, parliamo ovviamente dell’America, patria del Free Jazz. Ascolto piacevole, ricco, pulsante, suggestivo, ed ovviamente consigliato.
[ ascolta “Tchuhetén Betsèmu” ]
Ramachandran – Marshmallow (Heavy Psych, Stoner ) 5,5/10
Il power trio toscano formato dalla voce di Sara Corso, dalla chitarra di Andrea Ricci e dalla batteria di Andrea Torrini sforna un concept che citando psicologi e neuroscienziati cerca, in modo anche ironico, di spiegarci come funziona il cervello. La voce della Corso può in alcuni casi far pensare ad una versione femminile di Ozzy Osbourne, chitarra e batteria sono sempre lanciatissime e infuocate eppure non sventrano mai. Non c’è molto da dire, il disco è composto da 6 brani che scorrono via in 22 minuti, ma che, gira e rigira la frittata, si somigliano forse un po’ troppo e cercano soluzioni (leggermente) diverse giusto in un paio di occasioni. Le capacità sicuramente non mancano, ma è indubbio che a questi ragazzi serva anche un pizzico di fantasia e di coraggio in più, e magari anche una registrazione meno sporca e, perchè no, l’aggiunta di un basso.
[ ascolta “Vilayanur” ]
Ben Harper & The Innocent Criminals – Call It What It is
Questo ritorno di Ben Harper con gli Innocent Criminals, gruppo col quale ha scritto le migliori pagine della sua carriera, è stato per me (ed immagino di non essere il solo) come un regalo ricevuto da un gruppo di vecchi amici ed una delle uscite, nel suo ambito, che più ho atteso in questo primo terzo di 2016. L’ultimo lavoro di Ben coi Criminals, risalente ad 8 anni fa, fu indubbiamente l’episodio meno riuscito del loro sodalizio ma le meravigliose pagine precedentemente pubblicate rimangono per il sottoscritto tra le più belle che una band ci abbia regalato negli ultimi vent’anni.
Ben coi Criminals (presenti, seppur non sempre con uguale formazione, anche nei dischi pubblicati a nome del solo Harper fino appunto a Lifeline) ha coniato quello che a tutti gli effetti possiamo considerare il suo linguaggio: una miscela di generi che trovano le proprie radici nel Blues ma che affiorano nelle più svariate forme in modo naturalissimo ma con grandi contaminazioni nonché con uno splendido dialogo tra i vari strumenti e le varie anime di una band che riesce a dare colore come essenzialità alle doti chitarristiche e canore del suo leader andando così a creare un sound che è un vero e proprio marchio di fabbrica.
E dunque, dopo l’inatteso e benvenuto tour di reunion dello scorso anno, ecco arrivare questo nuovo lavoro in studio.
Diciamo subito che i tempi del magico decennio ’94-’04 non sono raggiunti ma che sicuramente questo lavoro suona meglio della loro ultima fatica insieme, cosa non così scontata, e che volendo fare un paragone col passato questo nuovo disco potrebbe essere un Both Sides of the Gun riassunto in un unico disco (il magico decennio si era da poco concluso ma qualche buona cartuccia da sparare ancora c’era), emblematica è la bella ballata “Deeper and Deeper”, che pare uscire dal disco bianco del sopracitato lavoro.
Call It What It Is pur avendo passaggi un po’ scontati (il Blues in odor di Stones di “When Sex Was Dirty”), paraculi (il rock dall’incedere moderno e appiccicoso di “Pink Ballon”) e non del tutto convincenti (la title track che punta il dito contro gli omicidi della polizia sugli uomini di colore senza grande originalità di scrittura ma in modo comunque estremamente diretto e sincero) non manca di momenti assolutamente godibili. Sotto questo punto di vista da citare il Reggae di “Finding Our Way” (bel lavoro di Jason Yates all’Hammond e Juan Nelson al basso), che pur non avendo la struggente profondità della meravigliosa “Jah Work” o il calore (ed il colore) di “With My Own Two Hands”, ci mostra un uomo ed una band che quando toccano questo genere non deludono mai, impossibile dopo un paio di ascolti non immaginarsi a ballare e cantare questo pezzo sotto un sole caraibico con una collana di fiori al collo.
Altro ottimo momento è il Soul di “Bones” (perfetto per casa Strax), brano pulito, profondo, con l’ottima voce di Beniamino accompagnata da una bella sezione ritmica e da un buon lavoro dei Criminals tutti. Oltre alla già citata “Deeper and Deeper” sono presenti altre profonde ballads, meritano una citazione l’Afro Folk ricco di pathos di “How Dark is Gone” (dedicata ad un amico morto in prigione), “All That Has Grown”, malinconico Blues per sola slide che riporta molto indietro nel tempo garantendo un risultato indiscutibile, e la toccante “Goodbye to You” con la quale, nel più classico dei modi, si chiude il disco del ritorno a casa di Ben.
Questo Call it What It Is è dunque un lavoro che tutto sommato non delude ma che sicuramente ci propone una band ancora lontana dai suoi giorni migliori, una band che osa troppo poco pur muovendosi con invidiabile disinvoltura tra i soliti svariati generi. I ragazzi, che live sono una meraviglia, affronteranno insieme un nuovo tour (da noi a Milano il 7 Ottobre) che potrà dirci se questo ritorno di fiamma sia un fuoco di paglia o qualcosa di più grande; sperando nella seconda ipotesi credo che in futuro quella voglia e quella fantasia che in questo disco vengono un po’ meno, ma che i Nostri sicuramente non hanno ancora perso, si potranno ritrovare facendoci così scartare un regalo forse meno inatteso ma più vicino a quel buon sapore dei giorni andati, come ci si confà a buoni amici di vecchia data.
Matt Elliott – The Calm Before
A tre anni dal precedente Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart il cantautore di Bristol naturalizzato francese ritorna con un disco che è la quintessenza del suo inconfondibile stile, profondo ed afflitto fino all’accettazione nelle liriche come nella musica, come sempre contaminata da luoghi e tempi vicini e lontani, come sempre attualissima. Siamo quindi ai livelli delle Songs? Forse leggermente sotto ma poco importa finché il Nostro continuerà a sfornare lavori di questa portata. Matt Elliott non ha cali d’ispirazione, i livelli compositivi sono sempre consoni al suo nome, coinvolgenti, abissali, veri, intimi, il suo linguaggio seppur lontano dal mainstream è universale ma colto, la sua voce e la sua chitarra sono una grotta, scura ma sicura, nella quale è sempre meraviglioso entrare, perdersi e ritrovarsi. Questo signore, un disco ai livelli della trilogia, o persino migliore, potrebbe inciderlo anche domani e comunque con questo lavoro non ci va lontano.
The Calm Before, titolo scelto per quest’ultima fatica, non può che far pensare all’espressione la calma prima della tempesta, e ci troveremo ad attenderla questa tempesta che durante l’ascolto verrà più volte sfiorata, accennata, ma senza arrivare mai con quell’impeto che dovrebbe contraddistinguerla se non forse in un caso nel quale non toccherà né a noi né all’autore subirla. Il disco si apre con una breve introduzione musicale per portarci subito alla splendida title track che lungo i suoi 14 minuti ci descriverà l’arrivo imminente di una tempesta sia dal punto di vista meteorologico che metaforico, tra gocce di pioggia, macchie di sole e fogli danzanti, così come tra mostri e fantasmi ben conosciuti che riaffiorano, scopriremo come la tempesta, col suo spazzar lontano la polvere, potrebbe essere il momento opportuno per combattere le nostre ombre interiori e ricominciare se si avrà la forza di non soccombere ad essa. Nel brano, minimale ma ricco ed orchestrato, la voce profonda e la chitarra triste e quieta di Matt saranno accompagnate dal pianoforte e da un contrabbasso distante, archi accennati e rumori di sottofondo a dar voce al vento ne completeranno l’atmosfera. Nella successiva “The Feast of St. Stephen” il Nostro, con la sua nuda interpretazione, renderà trasparente il nero degli abusi sessuali e psicologici di miseri uomini d’ordine religioso su piccoli ragazzini descrivendoci inoltre genitori assenti ed un Dio che preferirebbe non vedere come la sua fede venga corrotta e tradita, ma fortunatamente, come Matt ci ricorda nella suggestiva “Wings & Crown” anche i presunti intoccabili, a qualunque livello, possono cadere e quando ci si schianta da certe altezze l’impatto può essere tremendo. Siamo a contatto col brano più ritmato del disco, la voce è meno grave, la chitarra suona un Flamenco che è un fuoco che soffoca e divampa e che con l’ottimo supporto degli altri strumenti riesce e regalare profumi d’Europa, d’Africa e d’Oriente mentre le linee di basso disegnano la globale instabilità della superbia; in questa densa atmosfera vedremo spezzarsi ali e corone, ad ognuno la propria tempesta. La nostra è tutta dentro, da sempre, sarà la meravigliosa e struggente “I Only Want to Give You Everything” a ricordarcelo, il brano è il più tipicamente ellottiano del disco, un Tango zigano in cui Matt canta il tormento dell’amore non corrisposto e nel quale la tempesta, infine trattenuta, sembra poter esplodere durante quel but you don’t love me che col tempo diventa un coro spettrale che pare chiamare a sé tutte le anime ferite da questa tipologia d’amore, e che più viene ripetuto più guadagna in potenza e pathos (anche musicalmente), per poi però giungere all’ultima ripetizione senza più forze andandosi a spegnere nella drammaticità e nell’accettazione del finale strumentale. Il disco si chiude con la pacificata rassegnazione di “The Allegory of the Cave” piuttosto vicina alla title track per quanto più scarnificata ed evidentemente riferita all’allegoria della caverna di Platone; nel brano la registrazione meno pulita può effettivamente regalare la sensazione di trovarsi all’interno di una caverna, uscendone il viso e gli occhi bruceranno al sole che picchia ma le infinite domande che si agitano dentro continueranno a non trovare risposta costringendoci a vivere comunque nel buio per l’eternità.
Matt Elliott, ancora una volta, riesce a colpire nel segno riuscendo con la sua voce e la sua chitarra a scolpire le nuvole prima della tempesta e con loro tutto il cielo che le circonda, ascoltarlo è rannicchiarsi in sé stessi osservando ed accettando le proprie debolezze ed i propri dolori e sapendo accogliere quelli altrui senza dimenticare di portarci dentro le giuste dosi d’angoscia e perplessità riguardo ad un mondo malato. Se la tempesta dovesse poi arrivare veramente finirebbe col sedarsi incontrando le melodie di Matt. Se la tempesta dovesse poi arrivare veramente non sarebbe che la calma durante, ma non pensate che faccia meno male.
Imprescindibile. L’uomo, ancor più del disco.
Tindersticks – The Waiting Room
Nei quattro anni che separano questo nuovo lavoro da The Something Rain, i Tindersticks non si sono mai fermati avendo prodotto la sonorizzazione per Ypres, mostra sulla prima guerra mondiale dell’omonima città belga, la colonna sonora Les Salauds per il film Bastards dell’amica Claire Denis, ed il gradito dono Across Six Leap Years, a dimostrazione di una vena creativa che forse supera persino quella di inizio carriera. The Waiting Room è un lavoro ancora più cinematografico di quanto un disco del francofilo gruppo di Nottingham possa già essere di per sé, infatti ogni canzone presente è accompagnata da un cortometraggio che propone un contro punto di vista più aperto rispetto a quanto proposto su disco dalla band, gli undici lavori raggruppati insieme (faccio comunque notare che non si tratta di un concept album e che di conseguenza i video non hanno nessuna connessione tra loro) formano The Waiting Room Film Project, progetto prodotto in collaborazione con il festival del cortometraggio di Clermont-Ferrand sul quale al lavoro troviamo diversi registi indipendenti tra i quali, ovviamente, Claire Denis, oltre che il vincitore del César, Pierre Vinour, il fotografo Richard Dumas (sua la malinconica immagine in copertina), e lo stesso leader del gruppo Stuart Staples. Dopo tale premessa l’apertura con l’ottimo strumentale “Follow Me”, rilettura di uno dei temi del film Gli Ammutinati del Bounty del 1962, può risultare pressoché perfetta, anche perché il brano che segue, “Second Chance Man”, parte subito con la voce di Staples senza un’introduzione musicale, il che forse sarebbe stato troppo d’impatto in apertura di disco, in questo brano il cantato è accompagnato da una batteria spazzolata e da note d’organo che per quanto appena accennate sono capaci di scaldare molto, ad accrescerne ancora il sapore l’ottimo lavoro degli ottoni del collaboratore Julian Siegel che si comporta anche meglio in “Help Yourself”, un fosco Funk Swing in cui troviamo anche una splendida linea di basso oltre che uno Staples in gran spolvero. Tra questi due brani dimora il terzo singolo fin qui estratto, “Were We Once Lovers?”, che ha preceduto di pochi giorni l’uscita del disco, brano tra i più trascinanti del lotto, anche qui troviamo un gran lavoro di Dan McKinna al basso, una chitarra ben più vistosa che altrove, e, tanto per cambiare, un’altra ottima orchestrazione, drammatica e claustrofobica. Come spesso capita nei lavori della band non mancano ospiti, in questa occasione ne troveremo due, la prima che incontreremo sarà Lhasa de Sala (già ospitata per “Sometimes it Hurts” in Waiting for the Moon) in una registrazione del 2009, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa, con un brano fin qui segretamente custodito, “Hey Lucinda”, dove da un invito ad uscire per bere qualcosa da parte della voce maschile nasce una riflessione che va ben oltre il rapporto uomo-donna, and these dirty little cigarettes we smoke/and the liquor it just throws/a plug where the feelings we should show dichiara la voce femminile, per poi offrirci un I only dance to remember how dancing used to feel nel momento, a livello strumentale, più spensierato. A questa piccola perla resa pubblica dopo sette anni segue un altro ottimo strumentale (gran lavoro del tastierista Dave Boulter, sempre, ma soprattutto in queste occasioni) , “Fear of Emptiness” col suo abbraccio ovattato ed avvolgente; e spetta ad un altro strumentale, il quasi meditativo “Planting Holes”, il compito di separare due dei momenti più tesi del disco: la title-track e “We Are Dreamers!”, il primo è un brano quasi a cappella dove il corposo baritono di Staples è accompagnato solo dalle poche note funeree di un organo che vanno a creare un’atmosfera decadente e dall’altissima emotività, nel secondo troviamo l’altra ospite del disco, Jehnny Beth delle Savages presta infatti la sua potenza e le sue sfumature alla feroce “We Are Dreamers!”, brano dall’altissima intensità, scuro, angosciante, minaccioso, che rappresenta indubbiamente un altro punto di altissimo livello di questo nuovo lavoro della band. Il disco va a terminare con la successiva “Like Only Lovers Can”, ballata romantica nel più classico stile del gruppo. The Waiting Room è un disco che cresce ascolto dopo ascolto e seppur meno audace del suo predecessore è un disco dei Tindersticks in tutto e per tutto, anzi, di più, forse siamo di fronte al perfetto autoritratto di una band che per l’ennesima volta si conferma, con un lavoro che trasuda dolore e romanticismo (come d’abitudine siamo dalle parti di Nick Cave e Leonard Cohen), ed è capace di trasmettere impeccabilmente e con forza e raffinatezza passionali tutto quel che ha da dire e da dare, incertezze (esistenziali) comprese.