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Faber Nostrum, ascolta Motta in “Verranno a chiederti del nostro amore”
La versione di Motta è contenuta nel disco tributo a De Andrè in uscita il 26 aprile.
Continue ReadingPinguini Tattici Nucleari – Fuori dall’Hype
Un album che si presenta da sé: non solo fuori, ma dentro l’hype.
Continue ReadingStelle & Dischi – l’oroscopo di Aprile 2019
Rockambula ti guida tra i presagi astrali e le nuove uscite discografiche.
Continue ReadingIl nuovo disco di Andrea Appino si chiama Grande Raccordo Animale
Andrea Appino annuncia su Facebook il nome e la data di uscita del prossimo disco Grande Raccordo Animale che uscirà il 26 Maggio 2015 per Picicca, La Tempesta, Sony. Ecco cosa scrive l’artista a proposito del disco: “Il mio secondo disco si chiama GRANDE RACCORDO ANIMALE ed uscirà il 26 MAGGIO 2015 per Picicca / Tempesta / Sony. La produzione artistica e stata curata dal sottoscritto insieme a Paolo Baldini (già a lavoro con Mellow Mood, Africa Unite e Tre Allegri Ragazzi Morti). Si tratta sicuramente della cosa più libera e senza barriere che abbia mai fatto in vita mia, un disco scritto in viaggio e dedicato ai viaggiatori. La foto è di Niko Coniglio e NON è la copertina del disco. Ci vediamo presto, sarà diverso, sarà bellissimo e non vedo l’ora.”
Fabi Silvestri Gazzè – Il Padrone della Festa
Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè insieme per un album corale, in parte scritto a sei mani e in parte fatto di apporti personali dei tre cantautori della scuola romana. Apprendo la notizia sul web ad aprile dello scorso anno, a ridosso dell’uscita del primo singolo estratto, “Life is Sweet”. Un banner pubblicitario lampeggia sulla pagina web, sono mio malgrado alla ricerca di una macchina nuova e non c’è modo di sfuggire agli algoritmi della rete, e accanto all’articolo l’ironia della sorte ha appiccicato un annuncio che recita “usato garantito”. Sono in molti a dire che l’arrivo di un lavoro corale fosse prevedibile e alcuni lo auspicavano da tempo. A metà settembre, la release ufficiale de Il Padrone della Festa. È inequivocabile sin dal primissimo ascolto che il succitato padrone qui è Fabi. Tra le dodici tracce individuo i brani di Max Gazzè con un pizzico di fatica in più di quella che avevo preventivato. Il suo sound ironico fa capolino solo in “Arsenico”, giustapposizione di fiati e liriche sottili, dopo tre brani sufficienti a sancire il ruolo di deus ex machina di Niccolò. Non si discute l’eccelsa fattura del prodotto finale. Esecuzione raffinata e cura puntuale nelle registrazioni sono garantite da un esercito scelto di musicisti, tra cui Roberto Angelini e Adriano Viterbini solo per citarne un paio, oltre che ovviamente dall’esperienza dei tre generali. Ciò nonostante resto perplessa sulle dichiarazioni del trio sulla natura ludica e spontanea dell’esperimento. Il Padrone della Festa ha piuttosto l’aspetto di un’esca da lanciare nei palasport, non di un divertente e sperimentale mescolarsi. Eppure in passato li avevamo visti collaborare fruttuosamente (indimenticabile “Vento d’Estate” di Fabi e Gazzè, raro caso di pop contagioso e al contempo raffinato) o guidarsi vicendevolmente l’uno nelle fatiche dell’altro senza contaminarne la natura. Li ritroviamo ora miscelati in un modo che finisce per appiattire le peculiarità di ognuno, quei dettagli che pur gravitando nello stesso circuito li avevano sempre piacevolmente contraddistinti. Inevitabile è perciò che questo “usato garantito” che i tre propongono oggi suoni meno potente se paragonato agli episodi del passato di ognuno dei tre. Sì, insomma, sono un po’ incazzata, perché penso che con qualche sforzo in più e qualche sold out in meno ora io avrei tre ottimi dischi da ascoltare mentre invece me ne ritrovo uno soltanto con cui devo anche in qualche modo tentare di far pace, ed anche che dopo il successo del tour in Italia e in Europa la situazione appaia ormai consolidata e dovrò probabilmente accontentarmi di metter su “Lo Spigolo Tondo” quando avrò voglia della vocazione gitana di Silvestri, di “Canzone di Anna” come condensato degli arrangiamenti orchestrali di cui Fabi è capace, e accenderò un cero a “Il Dio delle Piccole Cose” pregandolo di concedermi a breve un Max nella sua forma migliore, tutto intero.
Marlene Kuntz – Nella Tua Luce
Tornano i Marlene Kuntz. Torna Godano con i suoi sottili testi di estetica conflittualità. Torna Tesio con le sue curate distorsioni e ritmiche seducenti. Torna Ma-Ma-Marlene, quindi, con la sua figa per cercare di accecarci con la sua luce. Ormai veterani del Alt Rock del bel paese, passati, a mio malgrado, lo scorso anno al Festival della Canzone Italiana a San Remo che li vede eliminati nella seconda serata ma vincitori di un premio sfigato con la stralunata Patti Smith. Maturi dunque, d’un suono proprio, subito riconoscibile, e per me, riconducibile alla fucina che è stato il Consorzio Produttori Indipendenti (con, Il Vile e Ho Ucciso Paranoia) negli anni novanta. “Bei tempi” direbbe Godano, a sentirlo nelle ultime interviste rilasciate, dove denuncia la decadenza della musica (per quella che era l’accezione pre-digitale) nell’era del file sharing. Cosa che era già stata decantata nel precedente lavoro Ricoveri Virtuali e Sexy Solitudini (2010). Ma questa è un’altra storia.
Oggi sto ascoltando Nella Tua Luce, ultimo cantico della tormentata band cuneese che tra scena indipendente e musica italiana cerca di trovare un estasi alle proprie composizioni, cercando di raggiungere la vetta gettandosi le briciole per tornare indietro, agli albori. Suoni puliti, immersi nel candore della narrazione per cercare la luce che li riappacifichi con se stessi. “Nella Tua Luce” è anche la traccia che apre l’album che senza troppi peli sulla lingua e giri di parole recita: “…ci sono cose brutte in giro e a volte non mi basto più.. tu sei la mia Beatrice ispirami l’anima”. Un’ode sulla strada della rinascita, una riaffermazione della propria identità. Un atto di fede alla propria musica. “Solstizio”, altra traccia e primo singolo estratto, è un altro esempio di come la maturità giunga alla consapevolezza di essere Marlene. “E non c’è, Onta non c’è, Mistero che, Si intoni con quel che accade a me. E pure io non sono un’isola completa in sé Sono anch’io nel continente”. L’album è una narrazione continua, ogni canzone è legata in qualche modo all’altra, e, ovviamente è pieno di riferimenti letterari nel pieno stile MK. Potrei farvi un elenco di tutte le tracce ma lascio a voi l’ascolto, so per certo tanto che Godano & co piacciono o non piacciono affatto e quindi cari fan datevi da fare!!!
Il tempo passa per tutti, sono cresciuto con i primi Marlene ed è ovvio che li prediligo, questo non vuol dire che i “nuovi” più attenti al contesto e alle nuove esigenze non siano degni di nota. Hanno trovato la loro forma e le parole incastonate nella melodia rimangono sempre un’impronta indelebile del loro essere.
L’Orage – L’Età Dell’Oro
Da assiduo ascoltatore dei Modena City Ramblers (dei tempi d’oro) e da estimatore profondo e convinto di Francesco De Gregori, questo disco non poteva risultarmi indifferente. La band valdostana L’Orage, cui solamente le biografie dei membri raggiungono la lunghezza di un piccolo pamphlet o di un lungo racconto minimalista, me li riporta alla mente per motivi più che ovvi: come i primi, i sette musicanti della Valle si cimentano nella canzone d’autore in forma popolare, recuperandone stili, timbri e strumenti (ghironde, cornamuse, organetti, mandolini); il secondo, invece, pare apprezzarli parecchio, tanto da condividere con loro un intero concerto, tenutosi ad inizio 2013 a Saint-Vincent, andato sold out in pochi giorni.
Mi butto quindi alla ricerca del disco dei L’Orage, e scopro che i sette hanno da poco firmato con la Sony per pubblicare il loro primo disco “ufficiale” (i loro primi due dischi, Come Una Festa e La Bella Estate, autoprodotti e senza nessuna distribuzione, sono arrivati a vendere, negli anni, svariate migliaia di copie). Il nuovo disco, che contiene i brani migliori delle due produzioni precedenti oltre a tre inediti, titola L’Età Dell’Oro, e riesce anche, grazie a tre brani registrati dal vivo, a darci un senso delle loro esibizioni live.
Il disco è, senza dubbio, un gran disco. È suonato bene (anzi, benissimo), e davvero ci si ri-lancia nel paragone con i Modena City Ramblers, che, almeno secondo il sottoscritto, sono il gruppo Folk tecnicamente più riuscito che il Bel Paese abbia partorito da parecchio tempo a questa parte. Inoltre, L’Età Dell’Oro rischia anche di avere una vena cantautorale più approfondita, più studiata: la testa che Alberto Visconti presta alle liriche del gruppo è una gran bella testa, a quanto pare (la sua voce, invece, pare quella di un Max Gazzè meno folle, più cantastorie – non che sia un male).
Le canzoni dei L’Orage sono un misto di Folk, musica popolare europea e cantautorato uptempo, e risentono del meticciato etno-geografico della band. Ci si diverte e si sogna, con L’Età Dell’Oro, tra riferimenti a Rimbaud (“Queste Ferite Sono Verdi”, testo dello scrittore Dario Voltolini)e omaggi ad Apollinaire (“A Loreley”), una cover de “Il Panorama di Betlemme” (sempre di De Gregori), inni al “mondo della nuova musica acustica europea” (“La Canzone Dell’Orecchino”); o, ancora, si danza un lento levare con “Come Una Festa”, si viaggia con ballate di violini verso “La Bella Estate”, si cantano tradizionali francesi, come “La Voltigeur”, e si rimane stupiti nello scoprire una delle perle del disco, la bella “La Teoria Del Veggente” in versione live con in prestito la voce (sempre più ricca col passare degli anni, bisogna ammetterlo) di Francesco De Gregori.
Come sempre per i dischi che s’accostano al cantautorato, il consiglio è di approcciarlo senza cinismo, e farsi trascinare dalle storie e dalle suggestioni di questo stupendo melting pot di musicisti sospesi tra le Alpi e Torino. Il resto, credo, verrà da sé.
Mario Venuti – L’ultimo romantico
“L’ultimo romantico” del cantautorato dei tagli differenti potrebbe veramente essere il siracusano Mario Venuti, non solo perché l’amore inteso come liberazione o più che altro fondamento apparentemente inconsistente potrebbe rientrare tra la stesura di questo nuovo album, ma piuttosto perché le canzoni dell’artista di questo amore ne esaltano le funzioni emotive, fuori dalle consuete simbologie appiccicose, bensì strette come fosse roba di tutti i giorni da conquistare, arraffare o alla fine barattare per un pugno di libertà individuale.
In più Venuti considera gli ultimi romantici – titolo tratto da una felice riesumazione di un successo di quarant’anni orsono di un duo che funzionò come una trappola per hit e classifiche da juke box ovvero Pallavicini/Donaggio – anche tutti i personaggi dell’umanità dietro l’angolo che reagiscono a tanti status quo con un sorriso, una pacca sulle spalle, fantasia e colore, ed è allora che perlomeno se la vita poi rimane la stessa però viene maneggiata con più leggerezza, più divertimento; dodici canzoni d cui dieci scritte con Kaballà che non hanno una unica direzione, girano, impazziscono e a loro modo incantano il ritorno di questo poeta storto a tre anni da quel fortunato Recidivo, album fradicio di amarezze settembrine e marrone come colorito di pelle, un ritorno di tutt’altro graffio, felice ed inquieto come una emozione alle quattro della mattina al centro di un sogno scuro.
In questo disco il senso di rinascita e di contrattacco è forte, solido e friabile insieme, si guarda al futuro con speranza e curiosità allegrotta, e reagisce con infinitesimali rivoluzioni – intime e a fior di pelle – che azzardano, trasgrediscono e sciorinano poetami e dance sopra un piatto d’argento di ottimo eclettismo; punteggiando qua e la lungo lo scheletro dell’album troviamo il pathos etnico che scorre in “Rosa porporina”, il ritmo in levare che ondeggia in “Con qualsiasi cosa”, l’azzardo appunto che stuzzica e disturba il Sir. Mozart di “Là ci darem la mano”, il pastiches borioso eseguito con il coro Doulce Mamoire e diretto da Bruna D’Amico “Gaudeamus Igitur” o più in la il Battiato che fa capolino in “Quello che mi manca”. E sì, e questo l’amore che intende Venuti. gli piacciono tutte quelle quadrature giocose ed eccitanti che va a ritrovare pure nel fondo di bottiglia della dance Settantiana di “Fammi il piacere”, in cui …”…fammi il piacere prova a mettere da un’altra parte il tuo bel sedere, fammi il piacere forse è meglio che torni a fare l’antico mestiere…” è il lascito di una presa di coscienza o la presa d’atto per preservare un posto di lavoro in questi tempi di magra e depressione.
Da ascoltare tra una pausa e una voglia di ristoro.