Quando: un qualsiasi giorno invernale lavorativo (nota: fuori fa un freddo cane).
Dove: il bagno di casa mia, con la vasca piena.
Perché: è la fine di una giornata stressante (nota: di quelle che ti fanno incazzare).
La pratica del bagno serve a distendere i nervi e lavar via dal proprio corpo impurità e tossine varie e la eseguo con estrema dovizia, con acqua calda ma non bollente e con fare lento, ma non da bradipo. Mi immergo quindi con misurata soddisfazione, conscio che questa sarà la parte migliore della mia giornata.
Per completare il quadro serve solo un’adeguata colonna sonora, così metto su Operation Light/Universe dell’omonimo duo livornese, e subito penso che mai scelta fu più azzeccata. Quando partono le note di Signal sento i muscoli distendersi nell’acqua piena di bagnoschiuma, mentre assieme ai fumi del vapore l’arpeggio iniziale mi rapisce e mi solleva. Chiudendo gli occhi ho una sensazione di benessere che mi trasporta altrove, in alto, oltre la stratosfera, sono nell’Universe…
Ma dopo un po’ riapro gli occhi. La dose di benessere che mi faceva trasmigrare si è stemperata fino a sparire. Altrove ma a poca distanza le casse del mio stereo continuano a suonare la stessa melodia da parecchio. Ma è proprio la stessa? Esco dalla vasca. Sgocciolo. Fuori un freddo boia mi fa ritrarre tutto il retrattile, ma me ne frego. Voglio soltanto scoprire se ho mandato il disco in loop. Invece no. Il disco va come dovrebbe. Torno allora dubbioso in bagno e mi ripropongo di ascoltarlo accuratamente. L’acqua però ora è tiepida, i muscoli di nuovo in tensione: così mi asciugo rimirando la pozza che ho creato uscendo, e sono conscio che dovrò asciugarla prima di scivolarci sù e spaccarmi qualcosa (nota: effettivamente ho rischiato di farlo, solo grazie ad un colpo di reni straordinario ed alla posizione felice del portasciugamani sono ancora qui fra voi). Ora non mi resta che ascoltare di nuovo.
Operation Light/Universe è un lavoro a quattro mani di Alessio Carli (guitar, bass, keyboards, programming, synth) e Alessandro Sebastian Morandi (guitar, soundscape, textures, loops) che esce per Inconsapevole Records, interessante etichetta livornese (anch’essa) di Ian MacKayeiana ispirazione. Il disco contiene otto brani strumentali dalle atmosfere rarefatte, dove la chitarra la fa da padrona e basi e tastiere seguono dimesse ma con stile. Il duo toscano si rifà esplicitamente a gruppi come Boards of Canada e Mogwai, reinterpretandone le direttive con sufficienti gusto e personalità, attraverso una discreta scelta dei suoni e delle architetture, pronti talvolta anche a sorprendere con delle brusche ed inattese sterzate. Purtroppo gli Operation Light/Universe cadono nella per me troppo pretenziosa idea di trasmettere un’unica “immagine” attraverso il filo conduttore di una melodia che assomiglia troppo a se stessa in ogni brano. L’opera nella sua completezza ne risente al primo ascolto così come nei successivi, seppur l’impressione di ripetitività va progressivamente attenuandosi. Succede così che anche brani ben studiati, come il singolo Iridium Flare o la buona 88 Constellations, funzionano da soli ma non se accorpati nell’insieme dell’album che non trova la varietà in un’esposizione episodica, ma mostra per lo più la continua reinterpretazione dello stesso tema dalla prima all’ultima nota. Un peccato considerando che gli Operation Light/Universe avrebbero potuto dare ulteriore prova delle loro indiscutibili doti architettonico-sonore, ma siamo solo agli inizi (la band si è formata nel 2011) e, come si suol dire, le basi ci sono. Attendiamo speranzosi.
Ora mi tocca davvero asciugare quella pozza…
Soundscape Tag Archive
Operation Light/Universe – Operation Light/Universe
Soundscape – Star Things Up
Ci voleva proprio un disco cosi. Grottesco. Parlare bene di tutti è parlare bene di nessuno, parlare male di tutti è farsi una sega sorridenti davanti allo specchio. Io, ultimamente di seghe me ne stavo facendo ben poche e con le mie palle gonfie che rischiavano di esplodere non facevo altro che sputare miele a destra e a manca, in un tripudio di tre e mezzo e quattro. Cominciavo ad aver paura di essermi un po’ inchecchito. Che cazzo. Dov’ero finito io che non ci pensavo due volte a dirvi se un disco mi faceva cagare? Mi stavo forse facendo fregare dal sistema? Vi dico una cosa, se non vi è mai capitato di fare i “recensori” per qualche webzine o rivista o altro. Esagerate con gli elogi e avrete amici, conoscenze, contatti, visite moltiplicate sul vostro blog, il sito web, la vostra pagina Facebook. Provate a dirne male e avrete la casella di posta piena d’insulti e offese alle vostre conoscenze musicali e alla vostra scrittura, se non alle vostre donne, mamme, nonne, sorelle e via dicendo. Che cazzo. Possibile che si riesca a scrivere bene solo quando la recensione è positiva? Possibile che il nostro cervello sia capace di lavorare meglio quando deve esprimersi positivamente? Forse sì o forse è tutta una cazzata. Ora, se qualcuno mi conosce un po’, dovrebbe sapere che non ritengo mai di avere la verità assoluta tra le mani (o forse sono io che credo di essere cosi? Devo appuntarmi di ricordarmi di chiedere in giro). Io parlo a voi semplicemente come farei a un mio amico meno esperto, consigliando o no l’ascolto di un disco, anzi dicendo la mia nella speranza che lui (lui, lei o il mio amico immaginario, fate voi) s’incuriosisca, ascolti e poi corregga i miei possibili errori di giudizio o viceversa rafforzi le mie critiche. Questo disco mi ha fatto di certo capire che non mi sono rinfrocito ma anzi riesco ancora a dire quando qualcosa mi fa repulsione, senza credermi troppo saputello. Capita, no? Non devo spiegarvi sempre perché non mi è gradito qualcosa. Se vi dico che mi da disgusto il cibo cinese, lo capite il perché anche se c’è chi lo mangia. Diversi palati, probabilmente. Non è un giudizio assoluto il mio ma a volte si ha troppa paura di esprimersi perché chi legge ritiene sempre che il nostro parere sia posto come una realtà suprema. Nessuna offesa verso chi ha sudato per fare un disco ma se non mi conquista che diavolo volete? Pagatemi e vi farò tutta la pubblicità che desiderate. E poi è cosi importante? Potrei dirvi che mi fa schifo la voce di Billy Corgan, la musica di Elton John, i balletti Michal Jackson. Chiedete a loro quanto gliene frega? Non chiedete a Michael. Dovreste suicidarvi per farlo. Quindi state tutti molto calmi. Sto per dirvi una cosa che non vi sembrerà opportuna, forse.
Il promo dei Soundscape ci propone un mix di Alternative Rock, Pop/Rock e Symphonic Rock che solo vagamente può ricordare la musica dei noti Muse ma che in realtà manca della stessa grandezza non solo esecutiva ma anche espositiva. Tutto sembra appena abbozzato, quando la voce cerca acuti che non trova, quando ti aspetti la melodia che non c’è, quando le chitarre dovrebbero spazzarti via e invece, sono risucchiate dalle tue bestemmie a mezza bocca e neanche basso e batteria che provano a pompare un po’, ci riescono mai pienamente. Il disco si apre col brano che dà il titolo all’album. L’inizio ricorda il sound dei Guns N’ Roses ma solo per una ventina di secondi. Appena voce e chitarre cominciano ad andare a braccetto, tutto è già chiaro. Il brevissimo attacco del piano sembra piazzato in quel punto cosi, a caso, mentre la voce propone una melodia assolutamente fastidiosa. Anche il timbro non è proprio memorabile e la voce, nel suo incedere un po’ acidula, sfiancata, senza mai azzardare nulla si limita a seguire lo stesso percorso all’infinito.
Il secondo brano “Under Attack” ha il pregio di promuovere quantomeno una variazione sul tema. Parte con un ritmo Martial Folk interessante, addolcito dalle note del piano. Prima che scadano sessanta secondi però, tutto torna esattamente dove ci aspettiamo e non bramavamo. La musica è sempre la stessa, priva di energia e nello stesso tempo, di melodia, incapace di emozionare cosi come di stupire.
Il terzo brano, “Die For One Day”, è invece una ballatona di quelle che non possono mancare in un disco del genere. Sinfonici arrangiamenti accompagnano le parole, intervallati da momenti più energici.
“Gave Ya All” si ricollega alla precedente per l’atmosfera particolarmente intima che prova a suscitare e forse, anche perché si discosta parecchio da quanto ascoltato fino ad’ora, è il momento migliore dell’album.
L’inizio Neofolk di ”Try Again” fa ben sperare e cosi l’attacco pieno di metallo, ma, come ormai ho imparato, tutto dura davvero troppo poco. Parole cantate e sussurrate si alternano alla ricerca di un’enfasi che neanche il pigiare di tasti riesce a creare.
Con “Girl” arriviamo a metà del promo. Bell’intro pazzoide e vagamente esotico e poi il nulla. Una cosa è chiara. Su di un elemento hanno fatto un discreto lavoro. Sanno come iniziare i pezzi. Poi, ovviamente, non basta ripresentare quegli intro dentro le canzoni per creare belle canzoni, ma questa è un’altra storia. Nelle tracce restanti, in concreto, nulla è aggiunto. Momenti lenti alternati a episodi più energici. Poche idee, poca voce, poche melodie.
Che posso dirvi ancora. Non ho neanche troppa voglia di continuare a parlare in questi termini. Non è una musica che mi piace questa, Pop Rock che finge di travestirsi da Alternative Metal. Puah. Eppure solitamente qualche cosa riesco anche ad apprezzarla, nel genere. Mi dispiace dirlo ma non è questo il caso. Non c’è in sostanza niente che mi piace escluso qualche passaggio nei testi. Non m’interessa la musica, le melodie, l’esecuzione, la voce, ecc.. Io ci ho provato ma…
Sorry, Try Again.