Il sound dei romani Suntiago è di quelli che quando li ascolti (magari per caso, mentre passano alla radio) non puoi evitare di battere a ritmo il piede destro, che tu sia in ufficio seduto alla scrivania in un piovoso pomeriggio primaverile, o a fine giornata, in fila alla cassa del supermercato. Pop Music come ripieno di giornate vuote di ogni ritmo, che alle ore 19 sei là in coda, assorta in considerazioni metafisiche quali la possibilità che sia finito il detersivo ma il grado di apatia è tale che piuttosto che tornare indietro a prenderlo consideri l’ipotesi di tornare a casa e fare del bucato sporco un bel falò. Se in quel momento la radio passa il pezzo giusto, che scioglie il torpore e ti concede persino un sorriso, collega desperate housewife, lasciatelo dire, hai avuto una gran botta di culo, che magari quel pezzo finisce per spedirti di buon grado a prendere il Dash salvandoti dall’avere l’indomani una giornata anche peggiore, che quelle che iniziano davanti ad un cassetto dei calzini vuoto non hanno possibilità di riscatto alcuna.
Delle tredici tracce che compongono Spop almeno cinque sono dotate di martellanti ritornelli, Pop “sporco” di quello che si insinua in chissà quale piega cerebrale e ci resta senza che tu abbia dato il consenso. Credo sia lo stesso luogo della memoria dove risiedono i testi dei Take That, che del detersivo non ti ricordi affatto ma invece quelli dopo una ventina di anni ce li hai ancora perfettamente limpidi. Non è un caso che io abbia citato i cinque bellocci di Manchester, perché il problema di fondo di un album pieno di ottimi intenti è un timbro vocale che a poco è valso sporcare di effetti per distogliere l’ascoltatore dall’idea che potrebbe trattarsi della voce di un componente di una qualsiasi boy band. Senza nulla togliere alle band per ragazzine, la questione mi appare un limite perché durante l’ascolto mi sembra di capire che gli intenti dei Suntiago fossero altri: “Seguimi” apre il disco con qualche chitarra dalle pretese Rock, “Nausea” e “Linea Sottile” sono piacevolmente Funk. Il ritmo è fresco, tendente al frivolo, ma è accompagnato da un cantautorato non privo di sostanza, con un paio di rimandi colti (come la scelta di intitolare un brano a John Bonham), come a sottolineare in ogni caso l’adesione a un universo sonoro in realtà lontano dagli esiti di Spop (quantomeno perché, se è chiamato in causa il batterista dei Led Zeppelin, uno si aspetta qualche virtuosismo tra le percussioni, ma invece loro al posto di una ricca sezione ritmica scelgono per l’occasione di sfoderare un organo).
L’album è ricco di tentativi di contaminazione da World Music, chitarra flamenca spolverata senza lesinare e un amore per l’Africa che è più nelle parole che nel sound. Poi in “Viola” compare una tromba, è la chiave giusta per uscire dal tracciato Pop e intraprendere la strada del Funk un tantino più audace, che però non ha seguito in altri brani. “Funk Off” è invece il caso più lampante in cui un timbro più caldo (o più semplicemente tonalità meno alte, meno effettate e forse anche un po’ meno ostentate) avrebbe condotto – a dispetto del titolo – verso un buon Rock dal sapore vagamente 70’s. Trattandosi di un esordio, c’è da dire che nel complesso l’album appare un lavoro decisamente organico, anche se per la cura del dettaglio sembra ci voglia ancora un po’ di tempo. Nella track di chiusura, in buona parte strumentale, tornano le chitarre gitane a ritmo sostenuto e pochi versi efficacemente in loop. Torna indietro a prenderti ogni rinuncia. Signorsì. Grazie per la piacevole compagnia. Prendo il resto, imbusto e vado.