Ci voleva proprio un disco cosi. Grottesco. Parlare bene di tutti è parlare bene di nessuno, parlare male di tutti è farsi una sega sorridenti davanti allo specchio. Io, ultimamente di seghe me ne stavo facendo ben poche e con le mie palle gonfie che rischiavano di esplodere non facevo altro che sputare miele a destra e a manca, in un tripudio di tre e mezzo e quattro. Cominciavo ad aver paura di essermi un po’ inchecchito. Che cazzo. Dov’ero finito io che non ci pensavo due volte a dirvi se un disco mi faceva cagare? Mi stavo forse facendo fregare dal sistema? Vi dico una cosa, se non vi è mai capitato di fare i “recensori” per qualche webzine o rivista o altro. Esagerate con gli elogi e avrete amici, conoscenze, contatti, visite moltiplicate sul vostro blog, il sito web, la vostra pagina Facebook. Provate a dirne male e avrete la casella di posta piena d’insulti e offese alle vostre conoscenze musicali e alla vostra scrittura, se non alle vostre donne, mamme, nonne, sorelle e via dicendo. Che cazzo. Possibile che si riesca a scrivere bene solo quando la recensione è positiva? Possibile che il nostro cervello sia capace di lavorare meglio quando deve esprimersi positivamente? Forse sì o forse è tutta una cazzata. Ora, se qualcuno mi conosce un po’, dovrebbe sapere che non ritengo mai di avere la verità assoluta tra le mani (o forse sono io che credo di essere cosi? Devo appuntarmi di ricordarmi di chiedere in giro). Io parlo a voi semplicemente come farei a un mio amico meno esperto, consigliando o no l’ascolto di un disco, anzi dicendo la mia nella speranza che lui (lui, lei o il mio amico immaginario, fate voi) s’incuriosisca, ascolti e poi corregga i miei possibili errori di giudizio o viceversa rafforzi le mie critiche. Questo disco mi ha fatto di certo capire che non mi sono rinfrocito ma anzi riesco ancora a dire quando qualcosa mi fa repulsione, senza credermi troppo saputello. Capita, no? Non devo spiegarvi sempre perché non mi è gradito qualcosa. Se vi dico che mi da disgusto il cibo cinese, lo capite il perché anche se c’è chi lo mangia. Diversi palati, probabilmente. Non è un giudizio assoluto il mio ma a volte si ha troppa paura di esprimersi perché chi legge ritiene sempre che il nostro parere sia posto come una realtà suprema. Nessuna offesa verso chi ha sudato per fare un disco ma se non mi conquista che diavolo volete? Pagatemi e vi farò tutta la pubblicità che desiderate. E poi è cosi importante? Potrei dirvi che mi fa schifo la voce di Billy Corgan, la musica di Elton John, i balletti Michal Jackson. Chiedete a loro quanto gliene frega? Non chiedete a Michael. Dovreste suicidarvi per farlo. Quindi state tutti molto calmi. Sto per dirvi una cosa che non vi sembrerà opportuna, forse.
Il promo dei Soundscape ci propone un mix di Alternative Rock, Pop/Rock e Symphonic Rock che solo vagamente può ricordare la musica dei noti Muse ma che in realtà manca della stessa grandezza non solo esecutiva ma anche espositiva. Tutto sembra appena abbozzato, quando la voce cerca acuti che non trova, quando ti aspetti la melodia che non c’è, quando le chitarre dovrebbero spazzarti via e invece, sono risucchiate dalle tue bestemmie a mezza bocca e neanche basso e batteria che provano a pompare un po’, ci riescono mai pienamente. Il disco si apre col brano che dà il titolo all’album. L’inizio ricorda il sound dei Guns N’ Roses ma solo per una ventina di secondi. Appena voce e chitarre cominciano ad andare a braccetto, tutto è già chiaro. Il brevissimo attacco del piano sembra piazzato in quel punto cosi, a caso, mentre la voce propone una melodia assolutamente fastidiosa. Anche il timbro non è proprio memorabile e la voce, nel suo incedere un po’ acidula, sfiancata, senza mai azzardare nulla si limita a seguire lo stesso percorso all’infinito.
Il secondo brano “Under Attack” ha il pregio di promuovere quantomeno una variazione sul tema. Parte con un ritmo Martial Folk interessante, addolcito dalle note del piano. Prima che scadano sessanta secondi però, tutto torna esattamente dove ci aspettiamo e non bramavamo. La musica è sempre la stessa, priva di energia e nello stesso tempo, di melodia, incapace di emozionare cosi come di stupire.
Il terzo brano, “Die For One Day”, è invece una ballatona di quelle che non possono mancare in un disco del genere. Sinfonici arrangiamenti accompagnano le parole, intervallati da momenti più energici.
“Gave Ya All” si ricollega alla precedente per l’atmosfera particolarmente intima che prova a suscitare e forse, anche perché si discosta parecchio da quanto ascoltato fino ad’ora, è il momento migliore dell’album.
L’inizio Neofolk di ”Try Again” fa ben sperare e cosi l’attacco pieno di metallo, ma, come ormai ho imparato, tutto dura davvero troppo poco. Parole cantate e sussurrate si alternano alla ricerca di un’enfasi che neanche il pigiare di tasti riesce a creare.
Con “Girl” arriviamo a metà del promo. Bell’intro pazzoide e vagamente esotico e poi il nulla. Una cosa è chiara. Su di un elemento hanno fatto un discreto lavoro. Sanno come iniziare i pezzi. Poi, ovviamente, non basta ripresentare quegli intro dentro le canzoni per creare belle canzoni, ma questa è un’altra storia. Nelle tracce restanti, in concreto, nulla è aggiunto. Momenti lenti alternati a episodi più energici. Poche idee, poca voce, poche melodie.
Che posso dirvi ancora. Non ho neanche troppa voglia di continuare a parlare in questi termini. Non è una musica che mi piace questa, Pop Rock che finge di travestirsi da Alternative Metal. Puah. Eppure solitamente qualche cosa riesco anche ad apprezzarla, nel genere. Mi dispiace dirlo ma non è questo il caso. Non c’è in sostanza niente che mi piace escluso qualche passaggio nei testi. Non m’interessa la musica, le melodie, l’esecuzione, la voce, ecc.. Io ci ho provato ma…
Sorry, Try Again.