Traffico Mentale è l’album d’esordio del duo abruzzese I .MURI, duo pysch rock abruzzese energico dall’attitudine lo-fi, uscito in CD e digital store l’11 maggio 2015. Il progetto musicale I .MURI nasce dall’incontro di due musicisti abruzzesi, Lorenzo Castagna (già chitarrista della band impro avant jazz String Theory) (chitarra e voce) e Valerio Pompei (batteria), che in tempi non sospetti lanciano il loro primo disco autoprodotto Traffico Mentale. Il duo, che per questo lavoro si è avvalso della collaborazione di Giulio Di Furia al basso, propone un mix di sonorità noise rock, talvolta psichedeliche con ritmiche trascinanti, e testi in italiano.
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La Band della Settimana: I.MURI
Captain Mantell – BLISS trailer
I Captain Mantell sono al lavoro sul loro quinto album, che si chiamera’ BLISS. Un nuovo disco con sonorita’ decisamente inconsuete per la band, anche grazie all’introduzione del sassofono, nella persona di Sergio Pomante alias Sergeant Zags (gia’ con String Theory, TreTigriContro, Umberto Palazzo…) Il trailer simboleggia chiaramente le nuova rotta: la riscoperta delle origini del Rock come rivincita.
Il Santo Niente – Mare Tranquillitatis
Conobbi Il Santo Niente tanti anni fa, non ricordo bene il giorno, né l’anno ma ricordo bene il luogo. Ero nella stanza della sorella più grande di un mio vecchio compagno di scuola. Avete presente quelle situazioni molto anni novanta, camerette piene di poster e musicassette e musica che scivola lungo i bordi delle pareti? Ricordo benissimo quel giorno in cui ascoltai per la prima volta la voce di Umberto Palazzo, ben prima di conoscere i Massimo Volume che molti vedono come una delle due metà del progetto iniziato dallo stesso Palazzo ma che in realtà rappresenta una linea parallela alla vita artistica de Il Santo Niente. Ricordo esattamente le emozioni che m’ispirò ascoltare le note di quei brani. “Junkie”, “È Aria”, “’sei na ru mo’no wa nai ‘i”, “Angelo Nero” e sul lato A della tape casalinga le tracce dell’opera prima, “Cuore di Puttana (Hardcore)”, “La Vita è Facile” e poi la coppia di cui m’innamorai subito, “Il Pappone” e “L’Aborigeno”. Ricordo con un brivido sulla mia pelle le sensazioni che provai nell’origliare quei brani, portare a casa quella musicassetta, inserirla nel mio mini sound system e iniziare la copia che gelosamente custodisco come un inutile ricordo sbiadito; copia che avrei poi perfezionato inserendo con cura, a mano, a uno a uno i titoli di La Vita è Facile e ‘sei na ru mo’no wa na ‘i. Da quella circostanza iniziò un rinnovamento estremista nel mio modo di discernere e scoperchiare la musica. Non più solo rifrazione dei miei amici infossati nel Punk e non più banale conseguenza di qualche fugace ascolto radiotelevisivo. C’era tutto un mondo in fermento sotto l’asfalto; una realtà underground pronta a esplodere nel suo silenzio, nella sua disperazione. Sono trascorsi ben oltre quindici anni da quel giorno e troppi dall’ultimo album targato Santo Niente, Il Fiore Dell’Agave ed è ovvio che, cosi come ho atteso con trepidazione l’uscita del primo lavoro solista di Umberto Palazzo e seguito il progetto El Santo Nada (viste le ovvie distanze, più per curiosità che per altro, considerando poi che io sono un tipo che lega più con i brani che con i compositori/esecutori), con maggiore partecipazione ho assistito alla genesi lenta di questa quarta fatica della band, Mare Tranquillitatis. L’ho ascoltata ormai una decina di volte in pochi giorni e la prima cosa che mi ha trafitto è che qualcuno tra noi deve essere cambiato perché, nello strato più abissale della mia pelle, c’è una linfa che non sembra scolare e non pare vibrare allo stesso modo di tanti anni fa. Ovviamente non sono io lo stesso; ho il doppio degli anni, diverse idee per la testa, un modo differente di scorgere il mondo, qualche pensiero pratico in più e alcuni falsi problemi in meno, qualche birra di troppo sulle spalle e parecchi acciacchi ma allo stesso modo non sono gli stessi quelli che sento nelle casse. Tutto ciò, per fortuna, aggiungo.
Chiunque non abbia ancora ascoltato l’album ma si sia imbattuto volente o nolente nel singolo “Le Ragazze Italiane” non si lasci trarre in inganno da questo pezzo cosi dinamico (anche se molto vicino al classico sound della band), ossessivo e dal testo e dalla melodia un po’ “paraculo”; sia che sia piaciuto che in caso contrario. È quanto di più estraneo si possa trovare nei quaranta minuti di musica di cui è composto Mare Tranquillitatis. È evidente una certa presa di posizione, di distanza, dalla rabbia Garage degli esordi, anche se le sfuriate introspettive Post Hardcore stile Jesus Lizard (“Cristo Nel Cemento”) tengono ancorata la band a quelle che sono le loro radici anni 90. Stessa cosa, sia a livello testuale sia musicale, per quanto riguarda la forma canzone classica che è quasi interamente lasciata alle spalle nel tentativo di sviluppare una strada più predisposta all’Art Rock che tendenzialmente si risolve in Spoken Word impreziositi da chitarre distorte, tutto molto in stile Massimo Volume, per chi ha apprezzato la formula solo da questi “cugini” artistici bolognesi, ma che in realtà era stata già impiegata, anche se con ovvie varianti narrative e musicali, da Palazzo e compagni.
Soprattutto le strutture ritmiche riprendono in un certo modo quella che è la corrente più importante del Rock sperimentale teutonico, il Krautrock di Neu! specialmente ma anche di Faust e Can, sviluppandone le esasperazioni in una formula moderna e più vicina ai gusti del pubblico post Y2K bug e mantenendo la parte avanguardistica a livelli accettabili, in contrapposizioni ad alcune follie pure (vedi The Faust Tapes ad esempio) dei padri fondatori. Una delle immagini più avvincenti del disco è la parte testuale che mette in secondo piano l’elemento autobiografico e si concentra piuttosto su una sorta di analisi sociologica dell’universo che circonda l’uomo che sta dietro alle canzoni. Esempio è proprio il singolo “Le Ragazze Italiane” che riassume in pochi versi tutto quello che significa essere giovani, donne, oggi, in certi ambienti tra cui, immagino, quelli della vita notturna pescarese, acquario in cui s’immergono costantemente gli autori. Non uno spaccato generalista di ciò che può significare essere una sbarazzina ragazza oggi in Italia e nessun subdolo sistema per giudicare tutta una generazione. Nessuna accusa ma solo un atto d’amore nei confronti di alcune donne che hanno nuotato nello stesso acquario di Palazzo e d’odio verso certi atteggiamenti puritani di chi non ama mai bagnarsi. Se nel singolo l’elemento testuale si materializza efficacemente in tutta la sua franchezza, molto più soffuse sono le luci che circondano gli altri brani. Si passa da pezzi ispirati dalla letteratura o dalla storia (“Cristo Nel Cemento” è un brano suggerito dall’omonimo romanzo di Pietro Di Donato, figlio di un muratore abruzzese emigrato in America mentre “Sabato Simon Rodia” è un emigrante in America, creatore delle Watts Towers di Los Angeles) a brani che narrano (quasi letteralmente, visto lo stile usato nei pezzi) storie di violenza, droga, adolescenza e delinquenza (“Un Certo Tipo di Problema”, “Primo Sangue”) e disagio (“Maria Callas”, nome di un anziano travestito).
Come detto, la musica di Mare Tranquillitatis è una sorta di esperimento che vuole unire elementi propri della tradizione Alt Rock italiana (che va dagli stessi Il Santo Niente fino ai Massimo Volume ma anche ai Csi, rievocati in alcuni passaggi di chitarra di “Un Certo Tipo di Problema” ad esempio) al Post Hardcore dei Jesus Lizard ma anche molto “albiniano” (“Cristo Nel Cemento”); congiungere il Rock aggressivo, banalmente e volutamente diretto tanto da essere subnormale in perfetto stile Stooges (“Le Ragazze Italiane”) alle eccezionali e perfette deformità del Krautrock anni 70; fondere l’Elettronica e le sue ritmiche “danzereccie” (“Primo Sangue”) alle cacofonie soniche estreme (“Sabato Simon Rodia”) passando per cenni di psichedelia. Umberto Palazzo prova a utilizzare come legante di questa indagine sonora il sax di Sergio Pomante (eccezionale la sua opera prima con gli String Theory, mio disco italiano dell’anno nel 2012) ma restano alcuni dubbi sull’opera. Assolutamente da apprezzare la parte testuale (chi critica questo elemento dovrebbe consigliarmi qualche ascolto italiano), che scivola via senza inutili e ridondanti pesantezze, lasciando invece tante preziose oscurità che si lasciano scoprire elegantemente ascolto dopo ascolto (penso al fatto che molti abbiamo letto “Maria Callas” pensando alla diva e che ora, riascolteranno il pezzo scoprendone lati impensati). Certamente è risultato piacevole il distaccarsi dai cliché dei primi album ma, personalmente, mi aspettavo qualche rischio in più da un compositore esperto come Palazzo. Ovviamente è un concetto relativo quello di azzardo perché brani come “Primo Sangue”, quello che ho più ammirato o “Sabato Simon Rodia” sono tra le cose più lontane dalla normalità per l’ascoltatore medio italiano. Resta troppo in primo piano la vocalità mentre avrei preferito che Il Santo Niente avesse dato maggiore possibilità espressiva alle chitarre e soprattutto al sax che poteva veramente elevare Mare Tranquillitatis a uno dei migliori album degli ultimi vent’anni oltre che, magari, dare un’impronta innovativa al lavoro che altrimenti resta ineluttabilmente infangato nei ricordi di passate correnti. Tante influenze che rischiano di incanalarsi nel ricordo di tempi andati e una ricerca di strade Art Rock e sperimentali che appaiono ancora molto lontane. Inoltre crea qualche perplessità un brano come “Le Ragazze Italiane”; molto diverso dal resto dell’album finisce per confondere l’ascoltatore, anche e soprattutto prima ancora di ascoltare il resto. Può avere senso come gancio per il pubblico, dato il tema e le sonorità immediate ma niente di più.
Se proprio vi piace fare un raffronto con i Massimo Volume, mi assumo la responsabilità di dirvi che c’è molto più coraggio in questo disco che nelle loro ultime cose (alcune delle quali fatico a riascoltare, nonostante non ne neghi il valore) e c’è anche di più della pura temerarietà perché Mare Tranquillitatis riesce nella difficoltà di non annoiare pur dislocandosi dalle vie sicure della canzone italiana (chiamatelo pure cantautorato Indie, se preferite). Un disco che non dimenticherò di lasciar partire dalle casse nel breve tempo ma che mi lascerà comunque sempre con un profondo dispiacere per quello che sarebbe potuto essere. Parafrasando L’inizio di “Sabato Simon Rodia”, (“Puoi essere solo ottimo o pessimo. Se sei buono a metà non sei buono”) se la sperimentazione è solo a metà non è sperimentazione. Oppure possiamo fare meno i puntigliosi, vivere la musica per quello che è e goderci semplicemente un disco pregevole.
La Band Della Settimana: TreTigriContro
Power trio da Giulianova (TE) composto da Stefano Minelli (voce e chitarra), Alessandro Marini (basso), Francesco Amadio (batteria) e Sergio Pomante (sax) (già con String Theory, band che con 3Rooms è stata nella top three 2012 di Silvio “Don” Pizzica) con un piede nel Cantautorato schizzato e l’altro nell’Indie-Rock traviato dal Garage dei ’60 e dai riffoni Seventies. Immaginate Ivan Graziani con gli Zen Circus come backing band. Immaginate Rino Gaetano fulminato da “Kick Out The Jams” degli MC5. Immaginate quello che vi pare.
Se volete saperne di più, su cosa ascoltare e dove vedere TreTigriContro, andate sulla loro pagina facebook.
Questa è “I Lunedì al Sole (Io Non Voglio Lavorare Più)” tratta dallo split (presto la recensione) realizzato con gli Amelie Tritesse, per il Record Store Day.
Starlugs – The Rite And The Technique
C’è un paese, una città meglio, visto che conta cinquantaquattromila novecento otto abitanti ed è capoluogo di provincia, che ha generato in me contemporanee scariche d’intenso odio e amore, nel corso dell’ormai decrepito 2012. Da abruzzese, che per tutti i dodici mesi ha fatto la spola tra Pescara e l’entroterra (molto “entro”) aquilano, Teramo è stata sofferenza e diletto, tormento e soddisfazione. Ho visto una moltitudine di band emergenti nascere sotto le pendici del Gran Sasso mentre io, a Pescara, continuavo a vagabondare per locali danzanti, metallari e Dj Rock (sì, esistono i Dj rock, che cazzo credete?) cercando un gruppo che non c’è, o forse c’è ma ai pescaresi non gliene frega un cazzo. Tante manifestazioni sonore si sono tenute nel teramano, come le esibizioni live di Calibro 35, Bugo, I Cani, gli Offlaga Disco Pax. Cosi, se da un lato vedere l’esplosione di band come gli String Theory (che ho inserito nella mia top three annuale) stava facendo crescere in me l’amore e l’interesse per un territorio fino a ora quasi sconosciuto, dall’altro, vedere la facilità con la quale la gente del posto riesce a ignorare il dilagante fenomeno (il tutto si può notare con la scarsa partecipazione del pubblico ai diversi eventi programmati nella zona) mi fa una rabbia bastarda.
La mia ultima scoperta si chiama Starslugs. Ho il loro disco autoprodotto tra le mani, The Rite And The Technique e guardandolo mi rendo conto che quest’ammasso circolare di policarbonato non mi regalerà certo le dolci note di un pop cantautorale rassicurante e delizioso. Sotto il nome della band sono scritte in inglese le parole “One Straight Line -Do It Yourself” (una sorta di mini manifesto generazionale di una certa cultura punk underground nata negli anni ottanta e che mirava innanzitutto al rifiuto della major per poi diventare un vero modo di vivere) e più in basso, al centro della copertina, mi sembra di vedere un nero che con un ghigno a metà tra dolore e gioia, è intento a trapanarsi le cervella. Ancora più giù, sotto l’indicazione del nome dell’album, un altro sottotitolo nella lingua della regina d’oltremanica recita “una breve storia d’impressioni rubate da un ambiente ostile”. Diciamo che sembrano esserci tutte le premesse per non sperare di rilassarsi tranquilli durante l’ascolto.
Nella parte di dentro del libretto, a rincarare la dose, troviamo di fianco alla tracklist, l’immagine di un fucile smontato, di quelle che si trovano nei libretti d’istruzione, con tutti i numeri sopra ogni pezzo e in basso, ancora una volta in inglese, l’invito a copiare e diffondere l’opera ma non a rubare le idee contenute all’interno. Finalmente mi sento pronto a schiacciare quel pulsante e trasformare la guerra fredda della mia attesa in una pioggia di bombe soniche.
Intanto che ascolto, vi racconto chi sono gli Starslugs. Nati poco più di cinque anni fa in Abruzzo, sono semplicemente un duo (che si definisce Punk-Noise) composto da Danilo “Felix” Di Feliciantonio e Pierluigi Cacciatore, ai quali si aggiunge un batterista che viene dal passato chiamato drum machine Roland TR707 (il suo nome preciso sarà strettamente legato alla musica, come poi vedremo). Scrivono i pezzi nella lingua di Poe e Bukowski e la cosa è un bene (anche se i puristi, fascisti, nazionalisti magari, non la penseranno cosi) perché è il modo migliore di applicare la voce a questo tipo di suono in frantumi. La voce è come la tecnica e la bravura applicate a un qualsiasi strumento. Un chitarrista nel suonare mette insieme le sue capacità con la chitarra che preferisce per il tipo di suono che emette. Cosi chi canta, mette insieme le sue doti con lo strumento, rappresentato nel qual caso, dalla lingua scelta. Ogni lingua come ogni chitarra può essere più o meno adatta a un certo tipo di musica.
Ho finito di ascoltare il disco e lo riascolto ancora e ancora. Nel brano iniziale “Body Hammer” entra subito in scena la Drum Machine e lo fa in un modo che adoro. Martellate ossessive, ripetitive, lineari, quasi marziali preparano l’ingresso alle chitarre che sferragliano come motoseghe impazzite e alla voce che, per quanto possa essere lontana dal concetto platonico di bello assoluto, è perfetta nel suo trascinarsi contorta nello stile del grande Steve Albini. Ci siamo, ecco svelato il trucco. La presenza non della drum machine ma proprio di quella drum machine era un indizio troppo grande. Sull’opera degli Starslugs si staglia imponente l’ombra dei Big Black, la creatura Noise Rock, Post-Hardcore nata negli anni ottanta proprio dalla mente genialmente contorta di Steve. La sua creatura che più ho amato e apprezzato nel corso della mia vita. Aspettate, però, a giungere a conclusione. Non pensate di essere di fronte a una band di “copioni” che volevano provare a fregare un pubblico magari ignorante in materia. La storia è un’altra.
Il secondo brano “Nuke”, il mio preferito, è uno di quei pezzi che ti mette voglia di ascoltarlo ogni fottuto giorno che avresti voglia di spaccare il culo al mondo; inizia con echi vocali di stile industriale e il solito ritmo tormentato, ma quando entrano in scena le corde, ti rendi conto che questi ragazzi hanno capito come pugnalare le orecchie in modo masochisticamente piacevole. Mentre la voce si limita a urlare lamentosa, chitarra e basso creano melodie strepitose che ti entrano nel cervello come un cancro.
Se “Sad Sundays “ accelera il ritmo mantenendo intatta la natura Post-Hardcore degli Starslugs, con le successive “Sense Of Tragic” e ancor più “Betamax” e “Justice”, un sospetto diventa certezza. Dentro il tormento delle ritmiche di questo The Rite And The Technique c’è un’altra band che probabilmente, rispetto ai Big Black, saremo in meno a conoscere. Le atmosfere tribali rievocate nel disco sono le stesse già raccontate dai Savage Republic, band Post-Punk californiana contemporanea dei Big Black, autrice di uno dei migliori lavori nel suo genere chiamato Tragic Figures (la formazione è ancora in attività e lo scorso anno ha prodotto Βαρβάκειος). La cosa che fa piacere è che, dopo aver ascoltato il disco e aver notato i chiari riferimenti ad Albini e i più nascosti alla band di Bruce Licher e Jackson Del Rey, sono andato a leggere la biografia della band teramana e questi due nomi sono gli unici inseriti nei loro riferimenti. Ciò significa due cose. Che, innanzitutto, gli Starslugs dimostrano una notevole onestà intellettuale citando in maniera schietta i loro riferimenti (calcolando che probabilmente il grande e ottuso pubblico non li avrebbe neanche riconosciuti, potevano fare i furbi e sottintendere i riferimenti). Infine, che, se volevano rifarsi a due grandi nomi del passato, l’hanno fatto in maniera egregia, riconoscibile. Il loro sound sembra la degna prosecuzione dell’operato dei due grandi gruppi degli anni ottanta e non una loro pessima copia e tutto questo è dovuto non solo alla loro bravura puramente tecnica e compositiva ma anche a tutto il lavoro di ricerca della strumentazione vintage fatta dai due. Il risultato è perfetto.
In “Uranus” sembrano riaffacciarsi (vedi “Nuke”) delle reminiscenze industriali, dark ambient proprie del movimento nato dalla mente di Genesis P-Orridge e i suoi Throbbing Gristle. Circa cinque minuti di note lente e ripetitive, quasi come una messa funebre in una chiesa sconsacrata. Non c’è nessuna parola ad accompagnare la voce. Solo corde acide e stridenti che pesano come il peccato originale nel cuore del nostro spirito.
Una voce meccanicamente in loop apre “Willie”, altro brano in classico stile Big Black che presenta una melodia nascosta tra il rumore, di quelle che non si scordano facilmente, mentre chiude l’album “Mishima”, l’ultima esplosione atomica, l’ultimo tassello della mia guerra fredda interiore, la bomba H che ha distrutto l’umanità nella mia anima.
Gli Starslugs non hanno sono preso Big Black e Savage Republic per rielaborarli e proporli con fredda imitazione. Hanno invece continuato un percorso tribale e rumoristico iniziato con Atomizer e che non poteva evidentemente concludersi nel 1992. Hanno ripreso la strada di un sound cosi semplicemente straordinario da essere fuori dal tempo, da essere talmente immediato e identificabile anche nel suo essere elementare. Sono stati capaci di creare melodie da materia tagliente e sanguinante come il Noise-Rock. È per questo che gli Starslugs mi sono piaciuti cosi tanto pur essendo probabilmente la band meno originale ascoltata negli ultimi dodici mesi. Perché la loro è una sorta di opera di recupero di sonorità che altrimenti sarebbero andate perdute nell’oblio dell’ignoranza.
Gli Starslugs hanno deciso di continuare la strada ideale di chi al mondo ha risposto con un beato vaffanculo.
String Theory – 3 Rooms
Quando le cose non vanno esattamente come dovrebbero andare, quando la luce è troppo lontana per lasciarsi arrivare improvviso improbabili soluzioni che non fanno altro che gettare merda sulle mie situazioni mentali, la confusione totale. Improvvisano molto bene il loro debutto discografico gli abruzzesi String Theory , registrano 3 Rooms con l’intenzione di sperimentare ossessivamente tutto quello che chitarra, batteria e sax riescono a tirare fuori all’idea del momento, niente voce e d’altronde chi se ne frega visti i risultati. Vogliamo a tutti i costi rompere le considerazioni monotone e maledettamente ripetitive della musica attuale per scavare una nicchia sempre più profonda dove ficcarsi prepotentemente, bruciamo tutte le convinzioni e guardiamo oltre l’immaginabile. Perché gli String Theory ti prendono per mano e ti fanno viaggiare con loro, tutta musica improvvisata, suoni sonici e le sovraincisioni la prendono nel culo. Improvvisare significa comporre istantaneamente, 3 Rooms suona talmente bene da sembrare studiato nei dettagli, troppo laceranti le cavalcate del sax elettronico, i pedali indiavolati e la batteria padrona della ritmica mancante di basso. Adoro pezzi come “I can’t see the horizon”, mi lascio sballottare da “a.f.a.”, non trovo mai una situazione di pace interiore sul quale appoggiare le mie frustrazioni. Post rock o semplicemente post è il termine per definire 3 Rooms, un disco che potrebbe benissimo essere il “dopo” di qualsiasi genere musicale, innovazione sonora e continua ricerca del suono nella sua migliore espressione. Una sorta di ricerca della felicità musicale. Per questo siamo d’accordo sul fatto che gli String Theory sono una grande realtà musicale abruzzese alla conquista dell’Italia sofisticata, povera e ingenuamente bacchettona. Ovvio che parliamo di musica molto spessa da approcciare a muso duro e con la voglia di sorprendersi ad ogni riff sempre molto singolare e innovativo.
Un grande album che rende omaggio a una grande band, gli String Theory fanno uscire chiunque lo voglia da imbarazzi penetranti, il viaggio è gratis, perderlo sarebbe una grande cazzata.