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VIAGGI MUSICALI | Intervista ai Maledetta Dopamina

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Roipnol Witch – Starlight

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Non è sempre facile scrivere delle recensioni. A voi probabilmente sembra una figata sputare sentenze nel bene o nel male su un progetto per cui qualcuno ha speso soldi, tempo, energie e sul quale, soprattutto ha messo la faccia. A parlar bene di un disco che entusiasma si rischia che poi quell’album faccia in realtà parecchio cagare ai più e si venga tacciati per venduti, per amici di amici di amici e qualsiasi altra porcata sotterranea possa giustificare un errore di valutazione così grossolano. Se se ne parla male, di media, l'”apriti cielo” è istantaneo e parte dalla band, dagli amici-fan della band e si conclude poi quasi subito lì da dove era partito dopo due o tre giorni di battibecchi e insulti social. Con il risultato che molte più persone ascoltano il lavoro in questione, per capire dove stia la ragione. Ammesso che di ragione si tratti. Perché è impossibile essere oggettivi nello scrivere una recensione. O meglio, per chi legge, è difficile essere ritenuti oggettivi quando si recensisce un disco.
Questo preambolo mi serve per mettere le mani avanti. Sì, ormai lo sapete già, suono in una band di sole donne. No, noi non l’abbiamo fatto un tour di presentazione dell’album. Perché no, in effetti non ce l’abbiamo un album. Viene da sé che no, non abbiamo un’etichetta discografica neanche piccola piccola. E sì, sarà impossibile per me farvi capire che quello che scrivo non è frutto di rosicamento, perciò se volete leggere fate pure, altrimenti fermatevi qui.
Le Roipnol Witch vengono da Carpi, in provincia di Modena. Sono tre donne più un maschio in realtà, una roba più alle Hole che non alle Savages. Ma su di loro si legge di movimento Riot, di all-female band, di rock in gonnella, di Rock With Mascara (che è un’idea meravigliosa che le ragazze hanno avuto – e non sono ironica – di unire tutte le band al femminile italiane e organizzare dei live itineranti per tutta la penisola, con scambio di contatti, di competenze, di passioni). Il movimento Riot Grrrl, lasciatemelo dire, era già morto quando Corin Tucker e Carrie Brownstein decisero di suonare insieme e fondare le Sleater Kinney. Ne avevano già le palle piene di essere intervistate in merito alla difficoltà di suonare in un panorama prettamente maschile o alla difficoltà di non contendersi il ruolo di prima donna con la compagna di band. Mamma mia. È difficile accogliere questo disco come una novità nel panorama musicale nostrano solo perché ci sono tre donne che suonano insieme in una stessa formazione (ma noi abbiamo già avuto i Prozac+, per citare solo una band antecedente con un organico simile). Non sarà (ancora!) discriminatorio concentrarsi sul genere nella promozione di qualcosa?
Dal punto di vista musicale, poi, Starlight non è la novità che aspettiamo (da un po’ e non certo e non solo dalle Roipnol Witch), ma è piuttosto un mix di influenze e di debiti artistici. Si va dalle sonorità New Wave della title-track “Starligt” al Pop-Punk degli anni Duemila di “Disagio” e “Oliver Tweet”; tra distorsioni contenute e registrazioni patinate (per un gran disco dal punto di vista tecnico ma ben poco sul piano artistico), si strizza l’occhio alla Berté in “Femme Fatale” e alle Plasticines di “Bitch” in “Be My Love”.
I testi sono alternatamente redatti in inglese o in italiano. Certo, nel 2016 è difficile trovare chi ancora non sa l’inglese e non riesce a capire un testo (per altro scritto da chi non è madrelingua e quindi non cede a slang e citazioni inafferrabili dagli stranieri), ma è evidentemente altrettanto difficile trovare nell’Alternative Rock un’attenzione per le liriche che non riduca il testo a mero espediente fonico (sempre che non si cada nella canzone di protesta dei soliti Zen Circus, Teatro degli Orrori, Ministri e compagnia). L’uso della rima, poi, come in “Non è un Paese per Artisti”, che poteva essere un pezzo davvero ben riuscito, diventa quasi un’irritante soluzione frivola per destreggiarsi nella grande difficoltà dell’accentazione piana della stragrande maggioranza delle parole della nostra lingua, un trattamento più alla Las Ketchup (o alle connazioni Lollipop!) che alla Au Revoir Simone. Per intenderci.
Il Rock femminile italiano continua, secondo me, ad essere debitore di un Rock al femminile d’oltreoceano che era già anacronistico quando è nato. Finché i coretti saranno di sexy Uh uh piuttosto che di contenuti, finché la leggerezza verrà scambiata per frivolezza anche da chi è parte attiva della composizione, finché mascara, minigonne e una rabbia senza agganci storici, senza il sostegno di testi di spessore continueranno a spadroneggiare in quella produzione che viene definita all female anche quanto la definizione non è proprio vera, si continueranno ad avere più Spice Girls che Carmen Consoli, in una dicotomia costante, per altro, tra suore e puttane. Si continuerà a notare più come si vestono queste ragazze per i live che ascoltare cosa vogliono dire. Ci si continuerà a stupire di vedere una donna suonare un basso e maliziosamente pensare anche magari alla bravura nel gestire un manico tanto lungo. Che pena.
C’è di che essere incazzate, come donne, senza doversi nascondere dietro al femminismo. C’è di che essere donne anche senza dover sculettare, di che farsi rispettare senza atteggiarsi necessariamente da streghe. E comunque, perdonatemi, se si vuole fare le suffragette, sarebbe bene avere, prima, qualcosa per cui combattere.

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Valentina Dorme – La Estinzione Naturale di Tutte le Cose

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Dai piccoli dettagli si può capire già quanto questo gruppo sia curato e affamato, elegante e spietato. L’articolo “La” dona al sostantivo “Estinzione” autorità e antico fascino, per un titolo che è un macigno scaraventato dall’alto verso il basso. Il sonno di Valentina è pesante proprio come questo macigno ma senza esprimere la crudezza, la ruvidità (e forse pure un po’ di volgarità) del Rock di alcuni loro colleghi di suono come Massimo Volume o Teatro degli Orrori. Rimane sempre ben pettinato, e forse proprio per questo riesce ad essere ancora più efficace, arrivando alle viscere con leggiadri movimenti. Esaltando una poesia mai retorica e fine a se stessa. La storica band veneta vanta ormai ventitré anni di attività alle spalle e questo è solo il quarto disco in carne ed ossa che pubblicano, sintomo probabilmente del fatto che qui dietro c’è un lavoro apocalittico, di arrangiamenti curati a puntino. Un vestito su misura per parole cucite con attenzione quasi maniacale, senza perdersi troppo però in sfarzi e fredde dimostrazioni di sapere. Niente è buttato al caso in questo piccolo gioiello sempre ben equilibrato sulla voce di Mario Pigozzo Favero, a partire dal cupo e jazzaggiante inizio di “A Colpi d’Ascia”, che sfocia in un’esplosione di Indie Rock da manuale. Tagliente e sinistra come la miglior carrellata di film noir. “Ricordi Cagna?” potrebbe facilmente cadere in banalità, ma la cattiveria è ben vestita questa sera e a suo modo semplicemente Pop. Attenzione, non per questo fa meno male. Quando spunta il sax poi tutto perde senso, come un insano ballo sotto la pioggia.Il sentimento di mortalità e di fine pervade in tutto il disco. Il caso del giovane nuotatore in “Cronaca Sportiva Minore” ricorda la drammaticità de “La Guerra è Finita” dei Baustelle, il fallimento e la disperazione non fanno perdere però l’istinto umano di reagire in un pezzo di rara bellezza come “Una Burla Piccola e Buona”, dove vengono in mente i momenti più curati dei Nobraino. E poi c’è la confusone del “Monsignor Ligresti, Cardinale” innamorato e disperso, storto come la ritmica che accompagna il brano. L’intimità di una fitta analisi di coscienza in “Shanghai” chiude il disco in un sunto perfetto. Un flusso di parole, mai una fuori posto, al limite della correttezza e al limite della poesia: “siamo inevitabili come le suore nelle chiese, con i figli da abortire o da regalare”, “(siamo) la voglia incancrenita di non soffrire”, “siamo irrinunciabili, libri in autogrill”. Questo è un disco di storie per adulti, difficile, ma da ascoltare con somma attenzione dalla prima all’ultima, per non perdersi un pezzo, per ricostruire tutto alla fine. Un minestrone di umanità e delle sue innumerevoli contraddizioni. Una lezione, di musica e di letteratura.

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Marina Rei – Pareidolia

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Ammetto di storcere il naso quando mi viene assegnata la recensione di un’artista più commerciale del solito, anche se spesso Marina Rei è caduta in un velato dimenticatoio. A onor del vero, oggi ciò significa avere qualcosa da dire nel panorama spento della musica italiana, fatta di talent show e gelida apparenza. Da Sanremo a collaborare con Giulio Ragno Favero (OneDimensional Man, Teatro Degli Orrori) è come andare dalle stalle alle stelle. Pareidolia è il manifesto di una donna che ha fatto della musica la sua ragione di vita, talvolta capita appieno, talvolta meno. Sicuramente questo album non le darà il massimo della visibilità, ma non credo sia questo il suo intento. Immagino preferisca di gran lunga rivolgersi a chi può davvero riconoscere le sue doti incontaminate di musicista a tutto tondo, prendendo le distanze dal tormentone “Primavera”, scegliendo una via più underground, tra tenaci riff (“Sole”) e ballate oniriche (“Del Tempo Perso”). “Avessi Artigli”, prima traccia del disco, prende corpo gradualmente partendo dai colpi incessanti di un rullante martellante inframmezzato da una chitarra in cui si scorgono in lontananza i Muse o addirittura i Battles. L’Hip Hop della titletrack, frutto della collaborazione con Zona MC e Off Muziek e i ritmi da dancefloor di “Vorrei Essere” si sommano alle molteplici influenze di Pareidolia, sempre più avvezzo a mutarsi in un mondo a sé stante, dove ogni canzone è diversissima dall’altra. La rivisitazione di “Annarella” dei CCCP è un qualcosa di realmente toccante, la degna conclusione di un’opera che racchiude lo spirito di oltre vent’anni di carriera di un’artista più in salute che mai. Altro che Primavera. Qui siamo in pieno Inverno.

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Codeina

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Ciao ragazzi. Complimenti per la vostra ultima fatica Allghoi Khorhoi. Partiamo da una domanda banale ma necessaria. Che c’entra il nome di una creatura leggendaria, un enorme verme che vive nel deserto del Gobi con i Codeina e la vostra musica?

Ci piaceva l’idea di un verme, per consuetudine creatura infima, non considerata, disprezzata, che in questa occasione assume una posizione di forza. L’Allghoi Khorhoi è un mostro mitologico che si nasconde in lunghi cunicoli scavati sotto il deserto e attacca l’uomo con scariche elettriche o secernendo acido. Quest’essere è talmente radicato nel folklore di quelle zone che ancora oggi la sua figura è vissuta con grande rispetto mantenendo allo stesso tempo il potere di incutere timore. L’abbiamo interpretato come un simbolo di rivalsa, di ribellione dal basso. Una rivoluzione nascosta e silenziosa, che striscia nelle profondità del terreno ed è pronta a esplodere all’improvviso.

Passiamo a voi. Come nasce una band come la vostra e un album come Allghoi Khorhoi?

I Codeina nascono nel 1998 in uno scantinato di periferia. Da qui passano gli anni accompagnati da tanti cambi di formazione alla ricerca degli elementi più “psico-sociopatici”. I Codeina che vedete oggi suonano insieme da tre anni e, fortunatamente, non si registrano danni a persone o cose. Allghoi Khorhoi non è nient’altro che la naturale evoluzione di Quore. Hidalgo Picaresco, il nostro primo album. Un’“evoluzione” del processo creativo, con un approccio più libero e maturo alla proposta e all’elaborazione del pezzo. Allghoi Khorhoi è la prosecuzione di un’esigenza comune di tradurre in musica disagi e insoddisfazioni quotidiane, da una sfera personale e intima a un’altra più ampia e strutturata, sociale e culturale, che riguarda l’intero nostro paese.

La codeina è un derivato della morfina ma Codeine è anche il nome di un mitico gruppo Slowcore statunitense. A quale di questi due paragoni siete più legati? Conoscevate la band di Stephen Immerwahr al momento di scegliere il nome e c’è qualcosa che vi lega, musicalmente parlando?

Dovendo scegliere a cosa siamo più legati, sicuramente sarebbe il derivato della morfina. Ai tempi non conoscevamo i Codeine e non esiste un legame musicale nonostante sia un gruppo che oggi apprezziamo.

Ascoltando i brani di Allghoi Khorhoi sembrano ritrovarsi diverse chiavi di lettura. C’è qualcosa in particolare che unisce le dodici tracce, sotto l’aspetto delle tematiche trattate più che, ovviamente, sotto quello puramente musicale?

Senza alcun dubbio il nervosismo quotidiano. Ogni singola traccia nasce come un esercizio atto a reprimere, veicolare ed espellere il nervosismo che viviamo quotidianamente in qualcosa che sia legale, lecito e magari anche terapeutico.

La vostra musica rimanda soprattutto al più canonico Alternative Rock in lingua italiana. Gli scomodi paragoni si rifanno a Verdena, Afterhours e Teatro degli Orrori. Quanto c’è di vero in queste similitudini? Quanto sono cercate e quanto sono naturale evoluzione dovuta alla vostra formazione personale?

Afterhours direi forse per i primi dischi, per gli altri due paragoni le fonti “estere” da cui hanno e abbiamo attinto sono prettamente le stesse. Noi non facciamo che suonare ciò che maggiormente ci piace ascoltare.

La scena alternativa (passatemi il termine) italiana si sta spaccando pericolosamente in due tronconi. Da una parte il cosiddetto Indie Pop Cantautorale stile Dente, Luci e Brunori, Lo Stato Sociale e dall’altra chi prova a suonare più Rock, violento, nudo e crudo. Per ora il pubblico sembra apprezzare più i primi ma è veramente una questione di scelte o piuttosto un sapersi “vendere” con più efficacia?

Pensiamo si tratti di scelta della massa: semplicemente il cosiddetto pop cantautorale è parte della storia musicale italiana che tutti conoscono (Battisti, De André, Dalla, De Gregori, Guccini ecc ecc.) mentre non ci vengono in mente gruppi per così dire “violenti nudi e crudi ” che abbiano un seguito di simili proporzioni… Basta chiedersi quale sia ancora oggi il festival musicale più importante in Italia…e la risposta si delinea ancora di più. Poco cambia in ambito “alternativo” perché siamo da terzo mondo in materia di cultura musicale e non solo…

Tornando a questa questione, sembra sempre più raro vedere andare a braccetto la qualità e, conseguentemente, il riconoscimento della critica, con i numeri dati dalle vendite di Cd e merchandising, oltre che di ingressi ai live e chiamate per i concerti. Qual è allora il problema, se esiste un problema?

Pubblicità, interessi, soldi. Una proposta musicale sui mass media è incentrata esclusivamente su questi valori. Incapacità o svogliatezza di giudizio critico dal lato del ricevente.

Dall’ascolto di Allghoi Khorhoi, emerge un lavoro intenso, carico di rabbia eppure non troppo originale nello stile. Quanto conta oggi suonare diversi dagli altri e quanto è utile e importante, in termini di riconoscimento di pubblico e critica, essere diversi in superficie e quindi formalmente o piuttosto nella sostanza?

Credo sia un po’ arduo in questo preciso momento storico avere l’obiettivo, la capacità e la superbia per poter anche solo pensare di fare musica “diversa e originale”. Ci concentriamo più su un lavoro di sostanza.

Recentemente, in occasione del M.E.I., mi è capitato di leggere diverse discussioni circa il ruolo attuale delle etichette. Da una parte chi sosteneva che siano le band a dover fare gran parte del lavoro di “formazione” di una base di fan per rendersi appetibili alle label e dall’altra chi ritiene più opportuno che siano le stesse etichette a fare il lavoro che far crescere le band, in ogni senso. Voi da che parte state? Che rapporto avete con la vostra etichetta?

Noi non abbiamo alcuna etichetta. C’è un po’ di verità in entrambe le affermazioni ma credo che la situazione generale a livello di etichette e fondi sia abbastanza grigia e al limite della sopravvivenza. Per cui fanculo e DIY!

Torniamo al disco, Allghoi Khorhoi. Provate ad essere sinceri. Quali brani sono quelli che più sentite vostri, rappresentativi del vostro stile e del vostro carattere? C’è almeno un pezzo che proprio non vi piace?

Sono tutti lati dello stesso carattere, nessuno escluso. Va bene autodefinirsi “psico-sociopatici” ma non siamo ancora del tutto pazzi da inserire nel disco materiale che non ci piace. Oltretutto non abbiamo imposizioni, pressioni o obblighi contrattuali cui sottostare.

Che rapporto avete con la critica musicale? Su Rockambula avete avuto una sufficienza e parole buone ma tiepide. Ha ancora un valore che vada oltre la mera propaganda, il lavoro del critico/opinionista musicale?

Per il primo album abbiamo contattato direttamente webzine e riviste, ottenendo stranamente un buon riscontro sia in termini di numeri sia oserei dire di critica… per Allghoi Khorhoi siamo solo all’inizio.Tante volte ci può essere mera propaganda dietro al critico. C’è chi si improvvisa critico o chi si trova a recensire qualcosa che detesta o di cui non ha un background conoscitivo. In ogni caso dietro una recensione, positiva o negativa che sia, si capisce subito se chi sta analizzando un disco ha gli strumenti giusti per poterlo fare o meno.

Perché un ipotetico lettore di Rockambula, che si trova davanti a centinaia di consigli e suggerimenti ogni mese, dovrebbe dedicare a voi un’ora della sua vita?

Perché il disco dura 44 minuti e noi gli regaliamo i restanti 16 minuti per fare ciò che più gli piace.

Quando e dove potremo vedervi suonare dal vivo? E che tipo di spettacolo dobbiamo aspettarci?

“Il più grande spettacolo dopo il big bang”. A breve ritorneremo a calcare le scene partendo dalla Brianza e Milano.

Ciao e speriamo di vederci presto.

Grazie, a presto!

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I Giorni dell’Assenzio

Written by Interviste

Intervista a Mattia De Iure, voce e chitarra de I Giorni dell’Assenzio, Power trio abruzzese che si sta facendo spazio nel grande mondo della musica Indie italiana. Un ringraziamento speciale a Mattia e a tutto lo staff della Ridens Records per la disponibilità e la collaborazione.

Partiamo con una domanda inerente il titolo del vostro primo cd: ma la solitudine è davvero così immacolata?
La prima domanda è sempre la più difficile… Comunque risponderei sì, perché volevamo dare appunto l’idea di questa solitudine “immacolata”, nel senso che non è stata violata, che è pura da un certo punto di vista, la più profonda che ci sia; inoltre c’è anche l’assonanza con l’Immacolata Concezione che è un tema che ricorre, come quello della sacralità, della ricerca del divino, che è ricorrente anche nel disco; un po’ velato, ma c’è… Inoltre era anche il filo conduttore di tutti i pezzi per cui ci è venuto spontaneo intitolare così il nostro primo disco. Che poi è una cosa che mi è sempre suonata in testa, anche dalla canzone “Immacolata”, il singolo, in cui volevo raccontare questa storia di profonda solitudine tramite l’amore, che è la cosa più pura che ci sia.

A chi vi ispirate per scrivere i vostri brani?
Tendenzialmente la nostra ispirazione general un po’ come sound, un po’ anche come scrittura volendo, è un po’ una mediazione tra i gruppi cosiddetti Power trio della scena anni novanta tipo Nirvana ma anche più moderni tipo Placebo, Muse; essendo poi noi italiani ci piace menzionare anche tutti i gruppi della scena indipendente nostrana tipo Teatro degli Orrori, Ministri, Gazebo Penguins e soprattutto Verdena, di cui siamo tutti e tre super fans. E’ quindi una mediazione fra tutte le cose che ci piacciono, che alla fine sono anche un po’ diverse e cerchiamo di tirarne fuori il meglio.

Quindi nel gruppo i gusti sono gli stessi?
C’è il fondo, lo zoccolo comune che è quello che ti ho appena detto, ma poi in realtà tutti ascoltiamo tantissime altre cose, il batterista spazia dal Metal all’Elettronica, la bassista dal Reggae al Dub e io più o meno la stessa cosa.

Domanda provocatoria (riferito a un verso di “Immacolata Solitudine”): ma le borse finanziarie sono davvero morte o c’è speranza per la nostra economia?
Per la nostra economia non credo che ci sia speranza; ho voluto mettere proprio le borse finanziarie perchè secondo me sono l’emblema della decadenza della società; la finanziarizzazione dei mercati secondo me è stata la cosa più stupida che l’uomo abbia mai fatto (ma questo è un mio commento personale).

Le canzoni si dice che siano come figli… voi avete il vostro prediletto?
Non in particolare; diciamo che ci piace tutto il disco; io personalmente sono legato particolarmente a una canzone che è “Rivoluzione”, che la sento un po’ di più anche quando la suoniamo live.

Il Power trio è una formazione abbastanza insolita in Italia… Non vi sentite penalizzati nei live a non avere per esempio un altro chitarrista con voi sul palco (è chiaro che magari sul disco si possono fare anche sovraincisioni, ma live no…)?
Secondo me la cosa che ci è piaciuta di più da quando è iniziato il progetto è stata proprio questa, sperimentare mentre si suona in tre, poi su disco è ovvio che ci sono più chitarre ed arrangiamenti diversi; ci piace molto giocare sugli arrangiamenti nei live che sono tutt’altra cosa pur mantenendo la stessa base sonora.

La dimensione live vi appartiene… ma in studio il disco suona davvero bene… ha degli arrangiamenti davvero ben curati… Voi dove vi vedete meglio sul palco o in studio?
Innanzitutto grazie del complimento! Sinceramente ci vediamo meglio sul palco; fare dischi è bellissimo perché vedi la dimensione finale delle canzoni, forse è pure un po’ più complicato, ma devi solo entrare un attimo nell’ottica, perché è difficile da fare subito ma per fortuna ci hanno aiutato molto i ragazzi dell’etichetta (la Ridens Records), soprattutto il produttore Paolo Paolucci.

In “Radioattività” la voce principale è quella di Tania… Nel futuro potrebbe esserci anche più spazio per lei alla voce? Per quanto mi riguarda ha superato a pieni voti la prova…Tu che dici?
Sì decisamente… Tra l’altro quel testo l’ha scritto anche lei; quindi se lei deve cantare un pezzo è meglio che canti le sue cose perché sono più sentite.

Avete aperto per gruppi importanti quali Meganoidi e Lo Stato Sociale (per menzionarne alcuni)… cosa pensate della musica indie in Italia?
Abbiamo fatto tantissime aperture e con alcuni gruppi si è creato anche un rapporto umano (mi viene da aggiungere a quelli menzionati almeno Gazebo Penguins, Tre Allegri  Ragazzi Morti e Teatro degli Orrori); la cosa che più mi piace dell’Indie italiano è proprio che con la maggior parte di loro riesci anche a legare.

Nel disco ci sono anche ospiti quali Ivo Bucci dei Voina Hen, Luca Di Bucchianico del Management del Dolore Post Operatorio, Monica Ferrante dei Mom Blaster (altro gruppo prodotto da Ridens Records). Come sono nate queste collaborazioni?
Sono tutti amici nostri che conoscevamo anche al di fuori dell’ambito musicale; inoltre volevamo fare un disco che coinvolgesse un po’ tutta la scena locale anche perché suonando da un paio di anni nella scena frentana ci è sembrata una cosa naturale che collaborassero anche loro.

Dove vi vedete fra dieci anni?
Spero a suonare il più possibile.

Sempre con la stessa formazione, con tanti dischi e tanti live alle spalle?
Sicuramente! La stessa formazione? Beh, la base spero rimanga sempre quella ma non escludo l’aggiunta di qualche elemento in futuro… Dipenderà da quello che scriveremo…

Progetti in cantiere?
In primis il secondo singolo , che dovrà tra l’altro uscire fra poco, poi un secondo disco in studio (siamo già in fase di scrittura io e gli altri) ed infine stiamo cercando di continuare a preparare e, perché no, a migliorare i nostri live perché è una cosa a cui teniamo molto.

Qualche data importante?
Sì, abbiamo suonato di recente a Parma il 31 luglio, ma il calendario è sempre in continua evoluzione per cui seguiteci sul nostro sito ufficiale e sulla nostra pagina Facebook!

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Codeina – Allghoi Khorhoi

Written by Recensioni

L’ultima fatica dei Codeina è Allghoi Khorhoi registrato e mixato da Fabio Intraina al Trai Studio di Inzago (MI). L’Allghoi Khorhoi è  un verme rosso brillante leggendario, che sputa acido, emette scariche elettriche ed è in grado di uccidere un uomo. Più che gli Afterhours sembrano i Verdena dei primi dischi già nell’ascolto di “22 Dicembre”, il singolo di lancio dell’album. Si sgola Mattia Galimberti (“non sei uguale a me”) probabilmente contro la massa, intenta, sotto le feste, a fare regali o a scoppiare botti: “Anche se sei bello ricco e intelligente sappi che sei merda”. Si sentono i Germi degli After nel DNA dei Codeina e la voglia di scatarrare sui giovani d’oggi. Il “Male di Miele”, la melodia e il rumore ritmico controllato di Emanuele Delfanti al basso e Alessandro Cassarà alla batteria. Il sound attufato, per scelta, trova finalmente un po’ d’aria in “Cascando”, canzone intima, sull’ansia di essere amati o no e si fa notare anche qualche similitudine con il Teatro degli Orrori. Sembrano un “Carrarmatorock” in “L’Appeso” ma con le voci più lontane rispetto a quella di Pierpaolo Capovilla mentre mi ricorda “Dea” degli After, il brano “Crepa”. È un derivato dell’oppio la Codeina e non è proprio la musica giusta da ascoltare in estate.

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La Band della Settimana: Laika Vendetta

Written by Novità

Il progetto Laika Vendetta nasce ad Alba Adriatica (TE) nel Luglio 2011 e inizia a farsi strada nel panorama emergente italiano. Con Laika, Silvia, Jeanne e…le Altre, album autoprodotto, raccolgono un buon consenso di critica e pubblico, passaggi radio su emittenti come Radio Delta 1, Radio Onda D’Urto, Virgin Web Radio e molte altre ancora. Date e collaborazioni con artisti come Paolo Benvegnù, Iosonouncane, Aucan, Sick Tamburo, Giorgio Canali, Niccolò Fabi, Rezophonic, Management del Dolore Post-Operatorio, Niccolò Carnesi e altri ancora. Premiati in diversi Festival come MW Festival 2011, Gulliverock 2012, Free Tribe 2012, Sotterranea 2013, i Laika Vendetta sono una band dove la tensione “si crea tra la poesia decadente dei testi da una parte, e il vitalismo e l’ aggressività della musica dall’altra” (cit. Suono). A febbraio 2013 entrano in studio con Manuele “Max Stirner” Fusaroli (produttore di Tre Allegri Ragazzi Morti, Teatro degli Orrori, Zen Circus, Management, Nobraino, Criminal Jokers, etc). Registrano Elefanti in Fuga, pubblicato a Febbraio 2014 per il collettivo artistico LA NOIA, un disco che si pone da una parte come una critica ai valori professati dalla società dei consumatori, dove la felicità è stata sostituita dal possesso, dall’altra come una spinta vitale a ricercare un Sé più profondo.

Freschi vincitori della seconda edizione di Streetambula Music Contest, sono loro la nostra nuova band della settimana

Sito Ufficiale

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Il Nero ti Dona – Aut Aut

Written by Recensioni

Il cupo suono de Il Nero ti Dona arriva da un posto dove il sole è offuscato da scuri nuvoloni densi. Rock spigoloso e viscido, come le mura umide di una stanza in cui sta appesa al soffitto una squallida lampadina. Non me lo sarei mai aspettato, ma questo posto si chiama Napoli. E tutto l’eterno sporco viene dettagliato in un vortice di suoni grigi e tetri, degni della migliore tradizione Alternative. Nulla di grandioso, nessuna pretesa intellettualoide, solo una manciata di canzoni che esprimono un minuzioso disagio la cui forza che sta proprio nei particolari. “Aut Aut”, uscito a maggio 2014, non è di certo il disco in cui troverete il brano Indie per l’estate e tanto meno un pezzo che vi sconvolga lo stomaco o la mente. Ma ogni parola è messa al punto giusto, ogni sillaba è comandata dalla perforante voce di Maurizio Triunfo, che pare riecheggiare tra lastre di lamiera di una fabbrica disabitata. La desolazione e la disillusione riecheggia già nella opener “Deja vu”, grida e chitarre pare si prendano a testate, in una lotta libera senza freni. E siamo solo al primo di dodici pezzi. I ritmi cambiano subito però, ci pensa “Viola” a farci presente che il nero ha miliardi di sfumature cruente. Ballata tra Afterhours e primi Timoria in cui spicca il riff offuscato dai versi epici (“terra che trema e che ingoia, sassi e macerie e fortuna”) e da echi e respiri femminili che in sottofondo appaiono come un fantasma in mezzo alla lamiera. La cura di questi dettagli e l’espressività della band portano le canzoni ad un altro livello.

“Aria” parte con un chitarrone che rimanda ai gloriosi anni del Grunge. Non si perde il grezzume anche nell’altalenante ballata “Senza Fine”, comandata da un lento arpeggio che scandisce inesorabile il tempo come un pendolo che non perde un colpo, in attesa che accada qualcosa. Ma purtroppo in questo frangente anche la noia vuole la sua parte e dobbiamo attendere gli arrangiamenti di “Kaled Saeed” che smorza qualche sbadiglio di troppo. La canzone è violenta e becera come l’uccisione del ragazzo egiziano che da il titolo al brano. Il suono è verace e rabbioso, il nero si mischia al rosso sangue. La descrizione del barbarico atto da parte di due poliziotti è precisa e attenta, quasi ad indicare che non c’è nessuna poesia davanti ad uno scempio del genere: “Sfinge di fuoco stasera, a Tahrir muore il silenzio”. Anche se usciamo dai confini napoletani questo brano sembra un simbolo, un lampo nel cielo che congiunge mondi distanti e così vicini nel nero colore che ricopre l’ingiustizia e la disperazione. Le mura si sgretolano al suono confuso di “Ketamina” e poi crollano con la title track “Aut Aut”, molto Teatro degli Orrori. In chiusura la più bella ballata del disco, potevano mancare le acque? “Mare Libico” è il suono della speranza che si infrange sugli scogli. E anche lei diventa nera, nel finale contorto del disco si incastra e rimane li a guardare l’orizzonte. Persa, senza più fiato. Non riesce proprio a tenere lontano questi nuvoloni densi.

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Nadàr Solo (Theater Quinto Festival)

Written by Live Report

Nuovo appuntamento per il Theater Quinto Festival, e nuovo report per noi di Rockambula. Dopo l’entusiasmante serata che ha visto come protagonista Dargen D’Amico e il suo rap anomalo, si cambia registro e genere, per un live all’insegna dell’Alternative Rock nostrano. Gli headliner della serata sono i Nadàr Solo, il trio torinese, che dall’uscita dell’album Diversamente Come? sta girando lo stivale in lungo e in largo riscuotendo sempre maggiore successo e notorietà, grazie a un sound coinvolgente e immediato; ma facciamo un passo indietro. Parlavamo di serata improntata all’Alternative Rock e infatti il menù proposto dal The Theater ci offre la possibilità di ascoltare, come opening act, ben tre band del panorama milanese. Non è mai facile aprire un concerto e scaldare il pubblico, ma diamo atto che tutte e tre le band, che si sono avvicendate sul palco, hanno trasmesso la loro passione, con diverse perfomance ricche di energia. Primi fra tutti i Jana’s; al quintetto milanese spetta aprire le danze, facendosi apprezzare subito dal pubblico. La formula proposta sul palco è quella di un rock deciso e intenso, con una batteria incisiva, molto presente, a volte troppo, e una buona dose di attenzione nei confronti della melodia e delle liriche. Un mix tra brani inediti e cover, nello specifico “Sangue di Giuda” degli Afterhours e un’inconsueta e coraggiosa “Anna” di Battisti. Dopo un inizio a tutto gas si cambia formazione, è il turno dei Tales of Unexpected. Il quartetto ci piace, siamo sempre all’interno del territorio del Rock, ma con un passo diverso, le forti influenze Grunge si fanno sentire decise e il sound generale è più armonioso. Musicalmente il gruppo è interessante e propone brani ben impostati con un giusto equilibrio tra momenti più melodici e momenti più duri; unica pecca il cantato non sempre pulito all’ascolto.

Che dire, al The Theater si suona e anche bene. La terza band già dal nome dimostra il suo lato aggressivo e infatti i Killer Sanchez ci propongono un live d’impatto, con tante carne al fuoco e picchi vicini allo Stoner, che spesso però creano confusione nell’ascolto e il risultato live non è perfetto. Ci siamo, è arrivato il momento di fare una pausa per un veloce cambio palco. Tre band in apertura non sono poche da gestire sia per i tecnici, che si prodigano per fare in modo che tutto funzioni bene nei cambi e sia per gli ascoltatori un po’ impazienti. Nonostante un aperitivo musicale decisamente lungo nessuno ha mostrato segni di scoraggiamento e al momento opportuno si sono tutti radunati sotto al palco pronti per i Nadàr Solo. Si parte con un inizio strumentale, una sorta d’ intro, di quelle che mettono subito in chiaro le cose, e che portano un messaggio preciso: qui si fa Rock, siete pronti? Le canzoni scorrono veloci e il trio per tutta la durata dell’esibizione dimostra un grande affiatamento e un carattere deciso e ben definito, nonostante composto da tre personalità ben distinte, soprattutto nel modo di suonare, e di vivere il live. Cosi che Filippo, il batterista, finisce scatenato e senza maglietta, il chitarrista, Federico, rimane per tutto il tempo perfettamente concentrato e statuario nell’esecuzione, per arrivare fino all’irrequieto Matteo, che si contorce attorno al basso e al microfono. Un mix inaspettato che riesce a creare un live intenso e a dare anche al disco la giusta dose di forza e spessore. Semplicità e passione sono senza dubbio le qualità migliori che emergono al primo impatto, così come la voce di Matteo De Simone, dal timbro quasi acidulo, che ben si mescola con i suoni, senza però perdervisi dentro. D’altronde la qualità dei testi rappresenta un punto di forza di tutto l’album e non poterne cogliere il senso sarebbe un peccato.

Ci avviciniamo alla fine del concerto e in maniera inaspettata abbiamo la possibilità di ascoltare un nuovo brano inedito e a seguire il singolone “Il vento”, corredato dall’immancabile coro del pubblico, e che grazie al featuring con il Teatro degli Orrori ha dato una buona spinta in termini di visibilità a tutto il lavoro. Dopo un’abbondante ora di piacere, arriviamo alla conclusione, anche in questo casa lasciata ad una coda puramente strumentale, quasi liberatoria, una concessione artistica che mostra anche il lato genuino del gruppo. Che dire anche questa sera il The Theater e tutto il suo staff, sono riusciti a creare quella magia che solo i live possono dare, che ci sia poca o molta gente, che l’acustica non sia proprio quella della Royal Albert Hall, che sia venerdì 13 e il meteo non promette niente di buono. Niente di tutto ciò può fermare la voglia di portare avanti dei progetti musicali che contribuiscono a rivitalizzare anche una zona più periferica, come Rozzano. Non ci resta che aspettare la prossima puntata del Theater Quinto Festival, alla quale non mancheremo.

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Capovilla annuncia il suo primo album solista

Written by Senza categoria

Cantante, bassista, leader e fondatore di due dei gruppi che più hanno segnato la storia della musica indipendente degli ultimi 10 anni, Pierpaolo Capovilla è stato protagonista, oltre che con One Dimensional Man e Il Teatro degli Orrori (l’ultimo disco Il Mondo Nuovo è del 2012), anche nel recente ciclo di letture tratte dal romanzo di Matteo De Simone “Denti guasti”, e nel reading “La Religione del Mio Tempo”, interamente dedicato a Pier Paolo Pasolini. Un lungo percorso che oggi vede Pierpaolo per la prima volta impegnato in un progetto solista che uscirà nei negozi entro l’estate su etichetta Virgin / La Tempesta / Universal Music.

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Rainska – Media Stalking

Written by Recensioni

Ci sono voluti ben cinque anni per sfornare il primo disco dei Rainska, Lo Specchio delle Vanità ed altrettanti per la loro seconda fatica discografica, Media Stalking. Prodotto con l’etichetta discografica Udedi, registrato presso gli studi de La Baia dei Porci di Nereto, e mixato e masterizzato presso l’Indie Box MusicHall di Brescia, il disco vede la partecipazione di Totonno DUFF nell’opening “Le Bocconiane”, Maury RFC ne “Il ‘93” e Clode LAZULI in “500 Lire”. Oggi lo Ska (o Bluebeat, chiamatelo come volete) non è certamente più di moda come quando nacque nei primi anni Sessanta quando da esso derivarono altri generi che poi divennero persino più famosi quali il Reggae e il Rocksteady. Lorenzo Reale (voce), Angelo Di Nicola (chitarra e voce), Giulio Di Furia (basso e voce), Lorenzo Mazzaufo (batteria), Pierpaolo Candeloro (sax), Eliana Blasi (tromba) e Martina D’Alessandro (sax) ce la mettono tutta quindi per emozionare l’ascoltatore sin dall’incipit della già citata “Le Bocconiane”.

Il risultato è certamente egregio, ma forse da un gruppo che ha festeggiato il decennale della carriera (pochi vi riescono) ci si aspettava anche qualcosa di più. Gli spiriti di Madness e The (English) Beat per fortuna rimangono costanti con i sette teramani sino alla fine garantendo loro un buon fine. Un ulteriore sforzo poteva essere fatto inoltre anche a livello di testi, talvolta troppo semplici ma certamente di sicuro effetto ed il sospetto è che si sia badato più agli arrangiamenti dei fiati che a tutto il resto. Del resto di esperienza ormai ne hanno accumulata talmente tanta da garantire loro la presenza su prestigiosi palchi al fianco di artisti famosi quali Shandon, Punkreas, Velvet, Piero Pelù, Teatro degli Orrori, Giuliano Palma & The Bluebeaters, Paolo Benvegnù, Linea 77, Vallanzaska, Africa Unite e Bandabardò. Dopo tanti e ripetuti ascolti ci si abitua anche al sound che a tratti ricorda persino quello della premiata ditta Sting / Summers / Copeland, ovvero dei Police, e talvolta persino quello del Punk anni Novanta dei Green Day e degli Offspring. Consigliato a chi vuol passare quaranta minuti circa in allegria, da evitare per chi non sa apprezzare Ska e Reggae.

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