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Acquaintances – Acquaintances

Written by Recensioni

Non confondete questi cinque gentiluomini che di gentile non hanno proprio nulla con una sconosciuta band svedese anni Settanta dal nome in sostanza identico, se non fosse per quella “s” finale. Nel loro album d’esordio omonimo non c’è niente che richiami i seventies e non c’è niente di delicato nella loro musica. I cinque Acquaintances sono Jared Gummere (chitarra e voce), Patrick Morris (basso), Stephen Schmidt (chitarra e voce), Justin Sinkovich (chitarra, organo e voce) e Chris Wilson (batteria), nomi tutt’altro che ignoti della scena statunitense alternativa che avranno fatto saltare dalla sedia i più devoti fan di Don Caballero, The Ponys, Bare Mutants, Chino Horde, The Poison Arrows, Thumbnail, Avenue Boulevard, Atombombpocketknife, Ted Leo and the Pharmacist e Shake Ray Turbine, le cui vite coincidono, collimano, si mescolano e danzano attorno a quelle dei cinque Acquaintances. Acquaintances è il nuovo album dell’ennesima band nata dal combinarsi di cinque teste, musicisti di band diverse eppure, chi più chi meno, perpetuamente in contatto diretto tra loro. Undici tracce di un Rock nudo e pungente, che mette a frutto le traversie soniche degli specifici esecutori per esplodere in un panegirico di note, forse non eccezionalmente giovane ma evidentemente d’interesse considerevole, vista la prestanza e la gagliardia di cui si fregia e che spesso, troppo frequentemente fa difetto alle band di ultimissima generazione, in eccedenti circostanze incapaci di seguire strade poderose, energiche e vitali senza scadere nel qualunquismo e nel pressappochismo imitativo.

La fortuna dei cinque Acquaintances sta tutta nella possibilità di fondere le esperienze disuguali, di strutturare e di costruire uno scheletro sonoro su ritmiche che alternano precisioni e crescendo strumentali di stampo Math e Post Rock a dinamiche più immediate proprie del Power Pop, tutto in chiave moderna e Indie, se cosi si può definir quel certo modo di percuotere basso e batteria, di talune band di nuovo millennio.  Su queste armonie e sul miscuglio stilistico si dilatano ossature che danno poi corpo a tutta la proposta targata Acquaintances e che si personalizza in primo luogo nel modo atipico di dirigere la vocalità nei brani, che non è ricondotta a un unico “leader”, ma è consegnata di volta in volta ai tre Gummere, Schmidt e Sinkovich. Questo crea delle eufoniche alternanze tra periodi più risoluti, ostinati, ricchi di distorsioni e ripetizioni ritmiche di stampo Post Hardcore (“Paramounts”) ma anche Noise e Neo Gaze (“Skin”, “Got it Covered”) e altri più attenti invece alle melodie, alla musicalità e alla solerzia dei giri di chitarra o dei ritornelli (“Ghosts”, “Lower your Expetations, Increase your Odds”), in chiave se non proprio Pop, comunque neanche eccessivamente noisy, quasi a rammentare un certo Alt Rock stile Yo La Tengo (“This Night Is a Trick”). Questa spaccatura retorica non si fa tuttavia mai intemperante, e, anzi, le tracce si intercalano confondendosi l’una nell’altra specie quando i cinque arrivano a mettere insieme i diversi assetti e le dissimili impostazioni per attuare un sound di forte matrice anni Novanta, quasi a ricordare certi Nirvana (“Learn to Let It Go”), eppure grandiosamente moderno, nel suo essere esempio di associazione fra tradizione Garage e giovane grazia (“She Never Sleep”, “Bachelor’s Groove”, “Say All The Right Things”, “Thinking We Are Done Here”).

Progresso dunque che incontra la tradizione del Rock alternativo statunitense, melodia che danza con il rumore e le distorsioni e undici tracce sorprendenti che hanno il malinconico sapore dell’occasione persa perché sospetti che potevano essere parte di un vero capolavoro; alla fine, nonostante tutto quello che di positivo è nascosto dentro Acquaintances, deponi le cuffie convinto che manchi comunque qualcosa, anche se non sai di preciso cosa. Ti chiedi perché tre voci ma nessuna capace di trascinarti davvero, ti domandi come mai certi feedback soffocati e contenuti quando avrebbero dovuto sfondarti i timpani. Un disco che per quanto eccezionale ti abbandona con quella frase un po’ sempliciotta nella testa: “Ah, se solo avessi potuto parlare con loro”.

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