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Recensioni | novembre 2015
Max Richter – Sleep (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10
Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.
Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10
Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.
Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10
Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.
Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10
Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.
Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10
Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.
Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10
Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.
Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10
Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.
La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop, Shoegaze, 2015) 6,5/10
Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.
A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10
Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.
Television al Sexto’nplugged di Sesto al Reghena (PN)
MARQUEE MOON – “Full Electric Show”
MARTEDI 5 AGOSTO 2014
SESTO AL REGHENA (PN) – PIAZZA CASTELLO
Ingresso: 20,00 euro + dir prev
Prevendite: www.vivaticket.it – www.mailticket.it
Apertura biglietterie ore 19:30
Apertura porte: 20:00
Inizio concerto: ore 21:30
I Television, una delle band più innovative della scena underground della New York di metà anni 70, tornano in Italia per un unico concerto imperdibile dove riproporranno in versione integrale quello che è considerato il loro indiscusso capolavoro Marquee Moon. Un disco seminale che ha marchiato a fuoco l’epopea New Wave ed ha influenzato moltissimi artisti dai Joy Division agli Echo & The Bunnymen, dai Cure a Siouxsie and the Banshees, fino agli Smiths e Interpol. Un’occasione unica per rivedere dal vivo Tom Verlaine, Billy Ficca e Fred Smith accompagnati dalla leggendaria chitarra di Jimmy Rip, già al fianco di Mick Jagger e Jerry Lee Lewis.
Primavera Sound Festival 2014 | Day3
(Un ripasso dei giorni precedenti? Subito accontentati Day 1 e Day 2)
Quindi, ricapitolando: niente panico, respirate a fondo, non bevete troppo perché tanto per l’occasione l’Heineken sfodera birra analcolica e ve la spaccia per normale (alla sesta 0.5 ero perfettamente sobria) e portatevi tanto cibo quanto ve ne metteva la mamma nello zaino per mandarvi in gita alle medie, altrimenti in quei tre giorni nutrirvi vi costerà più dell’abbonamento vip. Ah, e considerate la possibilità di prendervi almeno una giornata tutta per voi. Se non siete inclini a soffrire la solitudine avrete modo di seguire ogni inconfessabile istinto, che vi porterà da artisti che in principio non avevate considerato o che i vostri compagni di festival boccerebbero categoricamente. Dico addio alla mia crew sabato pomeriggio, quando dopo un quarto d’ora di performance dei Television gli altri se ne vanno in blocco dalle Dum Dum Girls. Avrò il diritto di incazzarmi se a un tratto mi bussano su una spalla ridestandomi da una specie di goduriosa trance per dirmi “oh, noi andiamo al Pitchfork, che ci sta la figa”? Dell’articolo in questione non me ne intendo, e in ogni caso niente mi porterà via da quest’atmosfera, che se chiudo gli occhi sparisce tutto il grigio, quello dell’asfalto del Forum e anche quello che con una punta di tenerezza osservo sulla testa di Tom Verlaine, e in un attimo mi ritrovo catapultata nel verde di anni su cui posso solo fantasticare, quelli dei festival a piedi nudi sull’erba e giovane New Wave tonificante nelle orecchie. Ho detto proprio tenerezza? Sì, l’ho detto. È che queste reunion, per quanto eccitanti, rischiano di risultare anche un po’ dissacranti. Ad esserne testimoni si corre il pericolo di intaccare irrimediabilmente quell’alone di mito che circonda le formazioni storiche. Forse dovreste starne alla larga se siete come me e vi assale l’ansia di fronte all’evidenza del fatto che il tempo passa anche per le cose che ci sembrano eterne.
Un artista intimista e profondo come Caetano Veloso mi sembra così fuori contesto che non posso fare a meno di andare a dare un’occhiata. Dal Sony al Raybanè una traversata infernale di un paio di chilometri in mezzo a una folla multietnica e barcollante. Arrivo sulle note di “Parabéns”, mentre Veloso accenna movenze di danze tropicali d’oltreoceano e riempie l’etere della sua personalissima reinterpretazione Pop delle sonorità della Bossa Nova. Attorno a lui, quattro tele su altrettanti cavalletti, dipinte con semplici tratti geometrici, e virtuosismi Classic Rock che si conformano alla tradizione musicale brasiliana e la rinnovano stando bene attenti a non tradirla. Nota per gli scettici che hanno letto il nome di Veloso in cartellone storcendo il naso: è l’ennesima conferma del fatto che chi stila la line up di questa rassegna non sbaglia un colpo, consentendo nella stessa giornata un assaggio di moltissimi degli infiniti sapori che la musica sa assumere. Nonostante sia gremito, il Rayban è la location più gradevole e accogliente tra i palchi del Primavera. Spezzo il ritmo serrato da festival e prendo fiato seduta sulla gradonata, assorta tra migliaia di sconosciuti che hanno il mio stesso sorriso. La maggior parte di loro non capisce una mazza delle splendide liriche in portoghese ma questo non sembra affatto ostacolare l’empatia tra loro e gli altri, quelli che ondeggiano a ritmo in modi che la natura consente solo ai popoli di sangue latino.
Torno indietro mentre gli Spoon sono ancora sul palco Heineken. Il loro Pop Rock scanzonato e versatile non mi dispiace affatto. Quale occasione migliore di questa per i texani per sfoderare un assaggio di quello che sarà il nuovo disco che uscirà quest’anno? “Rainy Days” viaggia sul ritmo sostenuto che avevano molti brani di GaGaGaGaGa, come l’accattivante “The Way We Get By”. Britt Daniel sfoggia una camicia rosso fuoco e le sue tonalità roche, riempie il palco e intrattiene la bolgia in pieno happy hour (ce l’ho anch’io una birrozza in mano, ci vorrà ancora qualche ora prima che mi accorga della truffa analcolica di cui sopra). Segno un punto a mio favore quando ritrovo i miei amici che mi confermano che saltando le Dum Dum Girls non mi sono persa nulla. A quanto pare non basta, perché non riesco a convincerli a seguirmi al Sony, dove tra poco si esibiranno i Volcano Choir. A causa della pioggia incessante di ieri, la zona centrale della prima fila è invasa da una specie di stagno. Con i miei anfibi a prova di lotta nel fango mi ci piazzo comodamente, in compagnia di tre inglesi scalze e felici che la security non si sia accorta del loro Jagermeister & orange occultato nei contenitori del deodorante. Non so se sentirmi più cretina per non averci pensato o più elevata culturalmente nel ritenere in ogni caso che vaporizzarsi dell’alcool in bocca piuttosto che sorseggiarlo sia l’equivalente dell’accontentarsi di una flebo al posto di un piatto di gnocchi. Fuckingchoosyitalians! I Volcano Choir sono la declinazione di Justin Vernon che meglio si intona ad un sabato inoltrato. Questa faccia del poliedrico artista del Wisconsin è quella che personalmente preferisco, nuova creatura sperimentale e destrutturata che mantiene il mood intimo del lavoro firmato col moniker Bon Iver ma che gli conferisce tutt’altra energia. Justin canta dall’alto di un pulpito di legno da politicante, dietro al quale nasconde vocoder e tutto ciò con cui smembra e riassembla la sua voce, in un risultato corale, scenico e ipnotico. La giustapposizione di campionamenti e chitarra classica regala struggimenti da ballad ed episodi dance con la stessa naturalezza. Un’ora di performance vola via sulle note di Repave e del precedente album e si conclude emblematicamente con “Still”, riarrangiamento di un brano contenuto nell’EP Blood Bank firmato Bon Iver, in cui Vernon aggiunge alla versione originale tutta la ricchezza di suono seminata e raccoltanel suo percorso artistico.
Sono ancora in tempo per i GodspeedYou! Black Emperor, che già da un po’ sono sul palco ATP, il che significa ripetere la traversata di prima in senso opposto e di corsa (è solo la terza delle molte altre volte che verranno). Arrivo convinta di avere ancora mezz’ora di set da gustarmi e invece i GY!BE sono già all’ultimo pezzo. Mi sono persa una roba grossa. Maxi schermi spenti, illuminazione al minimo, è un’atmosfera minimale solenne, davanti a un pubblico composto e senza smartphone in mano. Loro sono seduti in cerchio, in una session intima che ha le sembianze di un rituale piuttosto che quelle di un live, apocalittico tra percussioni dall’incedere lento e fiati dal sapore Folk. Mi ritrovo così un buco nero imprevisto nel bel mezzo del sabato sera, la prima volta negli ultimi tre giorni in cui non so che fare. Mi addentro in quell’area ben circoscritta ai piedi del pannellone solare del Forum in cui finora non ho mai messo piede, quella specie di riserva protetta per esemplari di hipster che è la zona Vice-Pitchfork. Qui i frequentatori assidui si dividono in due categorie. I primi sono quelli che boicottano per partito preso l’area Sony-Heineken, che una legge non scritta ha bollato come mainstream, e si farebbero cavare un occhio piuttosto che assistere alla consacrazione commerciale degli Arcade Fire. I secondi sono qui a cazzeggiare in attesa di qualche reflex che li immortali, perché questo è il luogo in cui la probabilità di incappare nel fotografo di street fashion di turno è più alta (se poi nell’attesa c’è un sottofondo musicale, tanto meglio). Sul palco Vice ci sono i Cloud Nothings. Un quarto d’ora di Indie Pop senza grossi salti mortali scorre via abbastanza trascurabile mentre sono in fila per fare pipì. È un breve attimo di tregua, appena uscita dal cesso chimico mi torna la febbre da festival. Ho un appuntamento importante qui all’ATP tra circa mezz’ora e farei bene a trovarmi un angolino adeguato tra una folla che già si addensa ai piedi del palco, ma con quale faccia potrei tornare a casa e confessare che per mettermi comoda ho rinunciato completamente ad assistere alla performance dei Nine Inch Nails? Tra andata e ritorno saranno altri 5 km a piedi, ma tanto oggi s’è capito che bisogna trottare quindi amen, colleziono altri dieci punti-gioventù e torno al Sony. Tra una folla già compatta mi ritaglio uno spazietto ad almeno un centinaio di metri dallo stage, ma quando Trent Reznor e soci salgono sul palco e partono i bassi il suono mi vibra nel petto come se fossi accanto alle casse. Un animale da palcoscenico oscuro e sensuale monopolizza le migliaia di occhi al suo cospetto, sovrastato da un impianto luci mastodontico. Il sound ibrido e spasmodico dei NIN dal vivo è qualcosa di cui ubriacarsi almeno una volta nella vita. La setlist è dalla mia parte. I quattro brani che ascolto prima di correre via sono un’ottima sintesi di tutto quello che sono i NIN. Reznor appare dal nulla, tra una nube di luce blu, sui ruggiti sintetici di “Me I’m Not”. Poi l’Industrial tribale di “Sanctified”, e la tiratissima “Copy of A” del nuovo Hesitation Marks. Vibro insieme alla scarica di chitarre di “The Day the World Went Away” per poi correre via di nuovo. Rovinarsi il karma così, a metà, lo so, è una merda, ma lo show che mi aspetta ora non avrà nulla da invidiare a questo in quanto a potenza, fisica ed evocativa, di quella che ti imprime ogni dettaglio nella mente e rende un’esibizione indimenticabile. È la mia prima volta coi Mogwai.I tipi in questione non li assimili finché non assisti in prima persona ad un live. Ciò che i Mogwai sono in grado di sprigionare dal vivo è qualcosa che nessun supporto fisico inciso è in grado di contenere. Sul palco, in bella vista, la bandiera della Catalogna. Luci soffuse accompagnano la pioggerella di synth di “Heard About You Last Night”, nel lento e cadenzato incedere delle percussioni. Sono già senza fiato. Non è solo una questione di volume esagerato, l’aria graffiata dalle chitarre di “I’m Jim Morrison, I’m Dead” ti scava il petto. Le note sussurrate di “Ithica27ø9” ammaliano con grazia per poi stringerti in una morsa, in un gioco che accelera e decelera per poi esplodere. Melodiose catarsi generate dal violino di Luke Sutherland mutano in barriere di suono dense che investono, tanto che ti viene da puntare bene i piedi a terra per non correre il rischio di essere spazzato via dai poderosi riff. C’è spazio anche per i primissimi Mogwai di “Mogwai Fear Satan”, groviglio di suono elettrificato ed elettrizzante. L’oscura “Deesh Rave” è viscosa ed enfatica con Sutherland alle percussioni, di spalle, con la solennità di un rito tribale. “Remurdered” è una bomba sintetica, su quella linea che lega tutto Rave Tapes, il synth che a un tratto parte in loop è gia inconfondibile. Con poche parole i Mogwai ringraziano il pubblico e il Primavera per la gentile concessione di poter suonare in presenza dei GY!BE. Poi chiudono con “We’re No Here”, terrificante nell’incedere del suono che si tramuta in totale delirante distorsione che dura svariati minuti e ci lascia storditi ed estasiati.
Ancora un grazie al Primavera che bilancia set epici con rigeneranti performance di decompressione. Dopo aver saltato tutti gli altri appuntamenti coi connazionali presenti alla rassegna, mi concedo una sosta all’Adidas per un paio di brani dei Junkfood, che dopo la turbolenza che mi ha appena investita sono esattamente quello di cui ho bisogno. È un piccolo stage accogliente di fronte al mare, sul quale il quartetto italiano espone tutta la propria ardimentosa impresa compositiva, un Alt Jazz destrutturato che è uno dei frutti migliori del panorama nostrano degli ultimi due anni. Big Jeff sembra essere d’accordo con me, accennando col suo testolone riccio un headbanging da metallaro improprio quanto coinvolgente (Big Jeff chi?). Recupero i miei amici al set dei Foals all’Heineken, dove il pubblico sembra avere ancora tutte le forze per scatenarsi su questo raffinato Math Rock mentre io sono ormai all’ultimo stadio delle mie capacità motorie. L’ultima traversata del recinto del Forum è verso l’uscita. Di passaggio di nuovo all’ATP, l’Indietronica dei Cut Copy non riesce a convincerci a restare oltre un paio di pezzi.
È stata una gran bella storia. ¡Adiós, Barcelona, hasta el próximo año!
Rockambula al Primavera Sound, Day 3 (giovani e soddisfatti)
Ultimo intensissimo giorno (guarda Day 0, Day 1, Day 2). Dal CBGB al Forum di Barça, una pietra miliare del Rock, Marquee Moon dei Television.
Doveroso presenziare alla performance di Caetano Veloso sullo stage Rayban, per tornare poi all’Heineken dagli Spoon.
Justin Vernon in versione sperimentale e destrutturata, i Volcano Choir.
Giusto in tempo per ascoltare l’ultimo pezzo dei Godspeed You! Black Emperor. Poi allo stage Vice per i Cloud Nothings.
Una scelta difficile dopo l’altra. Dopo un paio di brani sono costretta ad abbandonare lo stage Sony e i Nine Inch Nails.
Scelgo il live dei Mogwai, dall’inizio alla fine, e non me ne pento affatto.
Dopo aver dovuto rinunciare ai C+C=Maxigross, un moto di campanilismo mi porta dagli italiani Junkfood, e i ragazzi non se la cavano affatto male.
Il Math Rock dei Foals all’Heineken stage.
Giusto il tempo di saltellare un po’ sull’Indietronica dei Cut Copy ed é ora di andare. Hasta luego Primavera!
Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Settanta
Nella mente di ogni buon italiano medio, poveretto, gli anni 70 sono stati quelli che per i paesi occidentali anglosassoni erano i sessanta. Si sa che da noi le mode, le tendenze e gli stili musicali sono inclini ad attecchire con un certo ritardo e figuriamoci cosa poteva essere avere vent’anni nel decennio di cui stiamo parlando. Poca la stampa italiana che chiacchierava decentemente di musica estera. Non c’erano certo canali televisivi come Mtv (quella degli esordi, intendo) e, ovviamente, non c’era Internet. C’era solo da sperare in qualche perla regalata dal cinema e dalle sue colonne sonore, dalla radio, oppure aspettare che il fratello maggiore emigrato qualche anno prima facesse ritorno con un disco sconvolgente.
Gran parte delle cose straordinarie accadute in musica nei 70 finirono quindi per entrare nell’immaginario collettivo degli italiani solo qualche anno dopo. Pensate ai Beatles, ai Led Zeppelin oppure a Hendrix o Janis Joplin (entrambi morti nel 1970, mentre Jim Morrison morirà l’anno seguente).
Sarà il tempo a restituirci una straordinaria foto dei seventies, gli anni delle sit-com, del Pop e del Rhythm & Blues, della Disco-Music e delle discoteche, dell’Elettronica e del Punk. Dei polizziotteschi e della commedia sexy; de Lo Squalo, Rocky e Il Padrino. Anni fantastici, pur nelle sue ambiguità,per chi li ha vissuti e malinconici per chi ne ha solo subito il colpo di coda, come me del resto.
Di seguito la classifica stilata dalla redazione di Rockambula dei migliori album dal 1970 al 1979. Grande assente la Disco Music e l’Elettronica, presente con i Kraftwerk ma ben oltre la decima posizione e un primo posto che conferma una certa ruvidezza di gusti da parte nostra, già mostrata nella classifica dei sixties.
1) The Clash – London Calling
2) Pink Floyd – The Dark Side of the Moon
3) David Bowie – The Rise And Fall of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars
4) Black Sabbath – Paranoid
5) Sex Pistols – Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols
6) Joy Division – Unknown Pleasures
7) Bob Marley – Exodus
8) The Rolling Stones – Sticky Fingers
9) Queen – A Night at The Opera
10) Television – Marquee Moon
CBGB The movie: pronta la colonna sonora
Uscirà negli USA il prossimo ottobre, il film CBGB – The Movie, pellicola che racconta le vicende che portarono il newyorkese CBGB, Country, BlueGrass and Blues, da locale anonimo di Manhattan a culla del punk e della new wave. Scritto e diretto da Randall Miller, il film ripercorre le carriere di Talking Heads, Ramones, Television, Patti Smith, Iggy Pop (interpretato da un insospettabile quanto azzeccatissimo Taylor Hawkins), ecc.
Non si sa ancora quando la pellicola verrà proiettata in Italia, ma nel frattempo, godetevi trailer e soundtrack:
“Life During Wartime” – Talking Heads
“Kick Out the Jams (versione non censurata)” – MC5
“Chatterbox” – New York Dolls
“Careful” – Television
“Blank Generation” – Richard Hell & Voidoids
“Slow Death” – Flamin’ Groovies
“I Can’t Stand It” – Velvet Underground
“Out of Control” – Wayne County & Electric Chairs
“Psychotic Reaction” – Count Five
“All For the Love of Rock ’n’ Roll (Live)” – Tuff Darts
“All By Myself” – Johnny Thunders & Heartbreakers
“California Sun (Original Demo)” – Dictators
“Caught With the Meat in Your Mouth” – Dead Boys
“I Got Knocked Down (But I’ll Get Up)” – Joey Ramone
“Get Outta My Way” – Laughing Dogs
“Sunday Girl (2013 Version)” – Blondie
“I Wanna Be Your Dog” – Stooges
“Sonic Reducer” – Dead Boys
“Roxanne” – Police
“Birds and the Bees” – Hilly Kristal
Cut/Julie’s Haircut – Downtown Love Tragedies (Part I & II)
I progetti che includono solamente cover sono spesso visti con occhio critico, si pensa subito alla perdita di ispirazione, ad un facile appiglio per acquietare un poco gli stomaci voraci degli ascoltatori.
Personalmente non la vedo proprio così e rompo una lancia a favore di chi ancora oggi crede nella cover. Chi la violenta, la rivolta, dandogli un proprio significato, oppure chi la conserva, magari la rende meravigliosamente scarna (pensate ai brividi provati da Trent Reznor nell’ascoltare “Hurt” rivista da Johnny Cash!) mantenendo lo spirito e la naturalezza delle vibrazioni “originali”. In entrambi i casi la cover ha il suo sporco perché e la band registrando una cover si mette in gioco più che mai.
Questo che abbiamo davanti è un progetto indubbiamente ambizioso. C’è da dire che si parla di due nomi che a mettersi in gioco sicuramente non hanno paura. Un 7’’ splittato con due cover soul interpretate da due formidabili band del nostro paese molto legate tra loro. I brani in questione sono “Emma” degli Hot Chocolate (versione originale) interpretata dai garaggioni bolognesi Cut e “Who is he and who is he for you” di Bill Withers (versione originale) stravolta dalla psichedelia dei Julie’s Haircut. Potete capire come la scelta di queste due canzoni sia ambiziosa quanto singolare per due gruppi che nel panorama nostrano ci hanno abituati a ben altri sound.
Partiamo dai Cut, che per altro di questi esperimenti sono pratici (per esempio la rivisitazione del classicone di Prince “Sign O’ the times”). “Emma” gioca sulla dinamica: prima intima, lontana migliaia di pianeti dalla Terra, poi il chitarrone che ci risbatte sul pavimento, ma nonostante la botta non ci svegliamo. Rimane tutto onirico e confuso. Il sogno però non è per nulla piacevole, è straziante, agonizzante. La voce, l’hammond e le chitarre di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu marciano indisturbate in questa odissea spaziale accompagnata dal semplice e dinamico groove di batteria. La versione degli Hot Chocolate viene conservata, certo meno black, ma altrettanto intensa e forse addirittura più straziante. In questo episodio la “tragedia d’amore” fa male. Bella pugnalata inaspettata, una lenta agonia.
I Julie’s Haircut si sa, sperimentano a tutto andare senza mai trovare un punto fermo. In continuo movimento e mutamento (e sia chiaro ci piacciono così!). Qui rubano il riff di “Little Johnny Jewel” dei Television e sparano una versione tastierosa, vetrosa, tetra e anche qui distante e spaziale. Si rimane in aria, appesi. Forse questa cover risulta snaturata della semplicità della soul music e sarei curioso di sapere cosa ne penserebbe il buon vecchio Bill Withers in mezzo a tutti questa elettronica e questi accenni post punk. Si perde il ritmo ballabile ma non la tensione, che viene addirittura amplificata dalla band di Sassuolo in un crescendo sintetico, piccola salita che arriva dritta allo strapiombo.
Questo split funziona, è “genuino” (lo dicono gli stessi Julie’s Haircut!), arricchisce e scarnifica le perle “originali”. Le gratta a mani nude per riappiccicarci sopra vestiti nuovi, conservando li da parte i vecchi pezzi, pronti ad essere rincollati da un momento all’altro.