The Beatles Tag Archive
La Scimmia intervista Alan Parsons
Qualche giorno prima del live di lunedì scorso 11 luglio al Laghetto di Villa Ada. Siamo sulla terrazza del 47 Hotel a Roma, a destra la Bocca della Verità, a sinistra l’anagrafe. Io e il mio manager diamo da bere alla smania con due peroncini pagato 8.50 euro l’uno mentre Parsons ritarda.
Nation of Giants – Double the Dose
I Nation of Giants nacquero dalle ceneri dei Goodwines, gruppo di cui facevano parte anche altri tre elementi assieme ai quali Max Castellani, Tia Galbiati e Denny Bucella hanno registrato e pubblicato due album in studio (Just A Little Shaboo nel 2010 e In Mojo nel 2011) e due live (Dirty Enough? nel 2011 e Live Session @ LogicStudios nel 2012). Con essi riuscirono anche ad aprire per artisti noti tra i quali Steve Angarthal (Pino Scotto), No More Speech (Alteria), The Fire, Lost Alone, Eric McFadden, The Traveller e Rustless. Dopo lo scioglimento della band i tre autoproclamati “soul-brothers” non si sono certo demoralizzati ed ora hanno dato alle stampe nell’estate 2014 un ep di soli tre brani a tratti Southern Rock, a tratti Heavy Blues, a tratti Soul&Roll. Il mix è quindi difficilmente catalogabile in un solo genere, ma di certo quella che ascolterete è solo tanta fottuta buona musica fatta da tre musicisti che danno anche l’anima mentre suonano. Che si ricordino delle leggende attorno a Robert Johnson, padre (o forse persino nonno) putativo del Blues che si dice che la vendette al diavolo? Forse però parlando di lui si va troppo indietro, perché se è vero che c’è tanto del genere appena menzionato in questi sedici minuti di tempo, bisogna ammettere che ci sono anche reminiscenze di gruppi degli anni sessanta quali Canned Heat e tutti quelli del filone Woodstock. Le prove? Basta ascoltare “Petrichor Blues”, secondo pezzo in scaletta in cui vi sembrerà di ascoltare anche i migliori Rolling Stones (eh sì, sembra uscita proprio dalla penna di Keith Richards e di Mick Jagger) o persino gli Aerosmith (quelli però un po’ più recenti e smielati). “Lucky #7” è denominata come bonus track (era necessario chiamarla così con soli due brani alle spalle?), ma di certo tutto è tranne un riempitivo. Per quanto mi riguarda supera nettamente in qualità anche la opening “Soldier of love”, che non va certo confusa con le omonime tracce di Sade, The Beatles o Pearl Jam. Queste tre canzoni mancheranno forse di originalità (forse), ma come si dice… Chi se ne frega! Quello che ne scaturisce sin dal primo ascolto è un ottimo prodotto, piacevole e rilassante da gustare a pieno mentre vi immaginate di percorrere in auto le highway americane.
U2 – Songs of Innocence
Martedì nove settembre è arrivata in mondovisione una fucilata. Uno apre iTunes e si trova davanti il nuovo disco della band più polare al mondo (sì, non sono The Beatles perché non fanno più dischi dal 1970 e non voglio credere che siano gli One Direction!). Io, tolto lo stupore iniziale, me ne sbatto della markettata soprattutto perchè non ci ho capito mai una mazza delle manovre di marketing. Quindi, che me ne frega se la Apple ha sborsato cento milioni di dollari? E allo stesso modo non mi tocca se ora gli U2 sono in vetta alle classifiche con le vecchie glorie mentre la gente punta il dito contro la mossa eccessivamente mainstream.
Attenzione, però, che qui la critica ci sta tutta, per altri motivi e non sarò certo io ad esimermi. Veniamo al dunque: questo disco è brutto! O meglio, insipido. Il più piatto e prevedibile di sempre della carriera del quartetto irlandese. Per quanto mi riguarda le aspettative nei confronti di un loro nuovo disco sono sempre esagerate e effettivamente parzialmente deluse da Zooropa in avanti eppure, in ogni caso, sono riuscito a trovare uno spiraglio, un ornamento che donasse nuova linfa a un vestito reso così sempre diverso, nuovo e sgargiante, sebbene con gli anni sia più plastico e meno colorato. Qui però l’abito è sbiadito, sgualcito, appiccicato con pezze sberluccicanti ma raffazzonate. L’inizio promette grandi cose ma il pretenzioso e divertente titolo sfoggiato in “The Miracle (of Joey Ramone)” crolla immediatamente all’arrivo degli inutili coretti “ooooh ooooh”, così inspiegabilmente Coldplay. Non bastano le rare pennate del chitarrone di The Edge a distogliermi dalla rilettura incredula di quel nome immenso: Joey Ramone; e dove sta l’antica anima Post Punk degli U2? La produzione di Dangerous Mouse (che per altro è affiancato da altri supernomi come Paul Epworth, Ryan Tedder, Declan Gaffney e Flood, sembrano messi lì quasi per il gusto di riempire la bocca) è sicuramente forte, presente, massiccia, moderna ma non porta in nessuna direzione, se non a una sterile autocelebrazione e ad un timido tributo alla musica Pop che passa dalle citazioni dei Police in “Every Breaking Wave” (una via di mezzo tra “With or Without You” e proprio “Every Breath You Take”) agli echi di “California”, che rimandano diretti a “Barbara Ann” dei Beach Boys.
Poi dopo aver scomodato senza successo l’eroe del Punk americano, viene chiamato in cattedra pure il Punk anglosassone. Ed ecco “This is Where You Can Reach Me Now” dedicata a Joe Strummer; ritmiche in levare da manuale e tastiere che rimandano ai primi anni 80. Finalmente un pezzo degno di nota nonostante i suoni lontani di una produzione che meno Rock’N’ Roll di così non poteva essere. Anche nei timidi tentativi di “Volcano” e “Raised by Wolves” la vena più elettrica fa fatica ad uscire. The Edge ne soffre, le sue parti alcune volte appaiono spinte a forza dentro i brani. Pure la coppia d’oro Clayton-Muller pare distante, persa nelle atmosfere una volta create dai loro tocchi magici e ora affidate ai guru del suono digitale. L’unico che pare essere a suo agio in questo marasma è Bono. Con grande classe salva un paio di pezzi con la sua voce che ancora fa rizzare tutti i peli che ho in corpo. “Songs for Someone” è spudoratamente ruffiana e già trita e ritrita, ma Bono, sornione, la asseconda regalando una prestazione vocale magica. Poi nel finale del disco intreccia le sue inequivocabili corde vocali con quelle mistiche e misteriose di Lykke Li, ospite azzeccatissima in “The Trouble”, danza Trip Hop ben governata da un pungente giro di basso e concluso da uno sbalorditivo (seppur purtroppo brevissimo!) assolo di The Edge. Mi spiace però, a questo giro non mi farò illudere da trucchetti. Questo album rimane privo di idee e, inutile colpevolizzare scelte di suoni o pompaggi digitali, mancano le canzoni. Manca quel senso di rivoluzione che è passato dalle scorie Punk di “Boy” fino alla Disco Music chitarrosa di “Pop”, ma manca anche una stupida canzonetta canticchiabile alla “Beautiful Day” o le prove Rock’N’ Roll di “Vertigo”, e non scomodiamo i capolavori. Spero davvero che tutto questo non si sia perso in mezzo a palchi 3D e occhiali da sole, perché forse sono troppo romantico, ma credo che il mondo della musica abbia ancora bisogno di questi quattro ragazzi. Sicuramente più di quanto la Apple abbia bisogno di farsi pubblicità con l’uscita di un loro disco.
Edoardo Borghini – Fumare per Noia
“Ci riproviamo, ci ricaschiamo”: così comincia Fumare per Noia secondo (capo)lavoro di Edoardo Borghini, giovane cantautore livornese, che vuol dare un seguito al suo primo omonimo disco. Forse questo titolo perché l’artista vuol subito chiarire che, per una sorta di consecutio temporum, “Fumare Per Noia” è il logico risultato di una maturazione artistica avvenuta in un periodo, neanche troppo grande, che passa attraverso arrangiamenti molto più complessi e persino per imitazioni canine in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente” (proprio come fece John Lennon quando impersonificò un tricheco in “I am The Walrus”, sesta traccia dello storico Magical Mystery Tour, spesso coverizzata ed eseguita live anche da artisti del calibro di Frank Zappa, Oasis, Styx e dai nostri conterranei A Toys Orchestra). In “Perso l’Occasione di te” si ha la sensazione di imbattersi in un gioco musicale che prende spunto a quella “Eleanor Rigby” tanto cara agli stessi The Beatles e all’estro geniale del già citato Frank Zappa. Di quei riferimenti a Neil Young e a Francesco De Gregori che si erano riscontrati nel precedente compact disc invece è rimasto poco, proprio come se si volesse far capire l’ampiezza artistica di Edoardo Borghini che stavolta ha optato per un repertorio tendente più a Lucio Battisti (quello del periodo Mogol) e agli americani Byrds.
La conclusione è affidata a una “Ho Preteso” che è cantata in maniera piuttosto originale ed eseguita strizzando l’occhio al Jazz e allo Swing degli anni cinquanta. Peccato che il nostro viaggio sonoro con Edoardo Borghini duri solo otto canzoni (una mezz’oretta di tempo circa). Ci stavamo prendendo gusto. E come dice lo stesso Borghini in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente”: “No, io non sono quel che si dice un cantautore matto, un canzoniere, un paroliere, ma so solo che a te piaccio così come sono”. E per una volta tanto l’autostima è davvero meritatissima.
The Monkey Weather – The Hodja‘s Hook
Se i The Monkey Weather fossero nati in Gran Bretagna probabilmente li vedremmo in cima a tutte le classifiche scalzando dal podio artisti quali Franz Ferdinand, Arctic Monkeys e Kasabian da cui traggono spesso ispirazione pur mantenendo quella componente Punk n’ Roll che li caratterizza e li distingue dai loro più affermati colleghi. The Hodja‘s Hook è il secondo disco dei The Monkey Weather, che segue a due anni di distanza l’esordio bomba Apple Meaning e che contiene undici canzoni che testimoniano lo stato di grazia di una delle più divertenti Indie Rock band del nostro Paese. Probabilmente non eravamo di fronte a una band così ben assemblata proveniente dal Piemonte sin dai tempi degli esordi dei Marlene Kuntz che con l’album Catartica portarono una ventata di novità all’intero panorama musicale italiano troppo appiattito dai picchi cantautoriali e dalla filodiffusione delle radio “commerciali”.
Che la band si sia formata dopo un viaggio a Liverpool sulle orme dei The Beatles nel 2010 appare evidente sin dalle prime note di “Let’s Stay up Tonight”, dove il batterista Miky The Rooster “dà il La” ai suoi colleghi Jolly Hooker (chitarre e voce), Paul Deckard (basso e voce). Tanta energia e tanto sudore speso nella scrittura di tutti i brani sono evidenti anche in “Sometimes” e “Lies”, brani antitetici per caratteristiche sonore ma dalla qualità eccelsa. Le voci di Jolly Hooker e Paul Deckard sono certamente molto diverse fra loro ma ciò permette loro soluzioni assai varie e gradevoli all’ascolto. Del resto i The Monkey Weather avevano già dimostrato il loro valore durante i live spesso persino accanto a nomi quali The Vaccines, Linea 77, LnRipley, Pan del Diavolo, The Fire e tanti altri. Durante i quasi quaranta minuti dell’album trova persino spazio un’inaspettata ed alquanto insolita cover di “Firestarter”, brano contenuto nel disco The Fat of the Land che spalancò le porte del successo mondiale ai The Prodigy nel lontano 1997. L’unico rimprovero che si possa fare alla band è nei titoli, dai nomi troppo “classici” (“Sometimes” ad esempio era una hit mondiale degli Erasure!) ma i The Monkey Weather, ruvidi quanto gli Stooges di Iggy Pop e raffinati quanto i Blur, hanno fatto della semplicità e dell’immediatezza le loro migliori armi a disposizione. Un’altra (ennesima) grande produzione a nome AmmoniaRecords che certamente non vi deluderà!
<
Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Sessanta
Anni 60, quanti ricordi. Ad essere sinceri nessuno, perché in quel decennio anche mio padre era, al massimo, solo un adolescente. Eppure ogni cosa che ha riguardato la nostra vita, un disco, un film, un vestito, un pensiero, ha a che vedere con i Sixties. Erano gli anni della guerra fredda di Usa e Urss e di Cuba, del terremoto in Cile, di Martin Luther King e Jurij Gagarin, del muro di Berlino, dell’avvento dei Beatles, dei Rolling Stones e del Papa buono. Gli ultimi anni di Marylin, Malcom X e John Fitzgerald Kennedy. Gli anni di Chruščёv e della minigonna, del Vietnam e della Olivetti, di Mao e del Che, della primavera di Praga e dei Patti di Varsavia, di Reagan e degli hippy, del pacifismo e dell’anarchia felice. Gli anni dei fascisti e dei comunisti, della British Invasion e di Mina, di Kubrick, della Vespa, della 500, di Carosello e di Celentano. Gli anni della contestazione studentesca e dell’uomo sulla luna, gli anni di Woodstock, delle droghe, della psichedelia e gli anni del Rock perché quegli anni sono le fondamenta solide su cui poggia tutta la musica (o quasi) che ascoltate oggi.
A scadenze non prefissate, Rockambula vi proporrà la sua Top Ten di determinate categorie e questa di seguito è proprio la Top Ten stilata dalla redazione in merito agli album più belli, strabilianti, influenti e memorabili usciti nel mondo nei mitici, impareggiabili anni 60. Nei commenti, diteci la vostra Top Ten!
1) The Velvet Underground – The Velvet Underground & Nico
2) Jimy Hendrix – Are You Experienced
3) The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
4) The Doors – The Doors
5) Led Zeppelin – Led Zeppelin II
6) Pink Floyd – The Piper at the Gates of Dawn
7) Bob Dylan – The Freewheelin’ Bob Dylan
8) Led Zeppelin – Led Zeppelin
9) David Bowie – David Bowie (Space Oddity)
10) The Stooges – The Stooges
Vincono Cale, Reed e Nico con la loro banana gialla disegnata da Andy Warhol ma la presenza di Hendrix e The Stooges in Top Ten la dice lunga su quanto, a noi di Rockambula, piacciano le ruvide e sperimentali distorsioni dei mitici Sixties. Ovviamente non potevano mancare The Beatles, i re del Pop di quegli anni, presenti con uno dei loro capolavori assoluti, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, mentre la scena Psych Rock, formidabile nei Sessanta, è rappresentata degnamente grazie all’esordio dei Pink Floyd con Syd Barrett ancora in grado di esserne l’anima e l’omonimo The Doors. Chiudono la lista uno dei più grandi cantautori mai esistiti con The Freewheelin’ Bob Dylan, il re del Glam Rock David Bowie e l’unica band capace di piazzare nei primi dieci posti ben due album, ovvero i Led Zeppelin.
Esclusi eccellenti, anche se citati dai nostri redattori, i Beach Boys con Pet Sounds, Frank Zappa, Captain Beefheart e, udite udite, i Rolling Stones.
Ora potete iniziare a urlare le vostre Top Ten!