Nero è il colore giusto. Perfetto per lo sporco suono New Wave che produce, con tanto di chitarre insistenti e una voce cupa, sensuale e viscida come la pelle di un serpente. Il suo disco d’esordio Lust Soul è il perfetto connubio tra vintage e modernità. Nero di certo non è un novellino, ma annovera un passato con band del calibro dei The Detonators e The Doggs (per altro recensiti dal sottoscritto qui su Rockambula qualche anno fa). Il suo background è dunque fissato su solide basi di sporco Rock’N’Roll, tra Black Sabbath e Stooges per intenderci. Indubbiamente in questo lavoro solita la sua rotta vira verso sonorità più lente e scure, più ossessive e più schizofreniche. Come la stupenda “I’m The Sin”, un vortice di passione dentro la frenesia dei Joy Division senza perdere il senno, grazie a una melodia trascinante. Il suono dietro è perfetto, curato in ogni minimo dettaglio: rullante che martella il nostro cervello, basso cadenzato e ben definito che scombussola il nostro bacino. “In my Town” è un piccolo capolavoro minimal, quello che sarebbero i Depeche Mode senza una mega produzione e senza dimenticare le tenebre di Ozzy e dei suoi Black Sabbath. Guardando ad una città più grande, scappa anche la vicinanza alla New York decadente di Lou Reed. La canzone è un viaggio psichedelico in una grotta completamente buia, umida senza via d’uscita, ma con la consapevolezza che nessuno ci farà del male. Sicurezza che viene meno nella terrificante “Bleeding”, ritmica quasi Doom immersa in chitarre ululanti e un piano che compare ogni tanto come uno spaventoso fantasma. I ritmi si innalzano in “Over my Dead Body”, riff Punk venuto dallo spazio, basso incalzante e synth svarionanti dominano l’atmosfera e ci introducono in un crescendo interminabile. Come se Marc Bolan e i suoi T-Rex incontrassero in studio i Daft Punk. Nero riesce con grande naturalezza a mischiare sensazioni, suoni, spazi e periodi storici. Il tutto grazie ad un’improbabile macchina del tempo, scassata, ma terribilmente efficace. “Old Demons” è superba, sembra uscita in due minuti di prove e ha l’efficacia di essere vera e nostra. Ci togliere dal tunnel buio per portarci a braccetto negli inferi, dove rimaniamo bloccati fino a “Spirit”. Battiamo il cranio contro un muro rovente. Si questa elettronica è calda, è vera come un Les Paul collegato al suo Marshall JCM 800. Nero poi ci saluta con le schitarrate distese di “Tomorrow Never Comes”, riporta tutto alla semplicità, ad un triste epilogo, a un dolore viscerale. “Vedrai un grave dolore e in quel dolore sarai felice”, scriveva Dostoevskij.
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The Doggs – Red Session
Immaginate la cosa più sporca e meschina che avete in testa. Quella che vi vergognereste anche al solo pensiero. Chiudete gli occhi e vi sale un brivido caldo: furente come il peccato più insulso. Immaginate New York e il suo più infame “wild side”. E poi lo smog di Detroit, che in fondo non sarà tanto più terso e denso di quello di Milano.
Con queste infami e decadenti immagini infilate nel vostro lettore “Red Session” dei The Doggs e ditemi che non vi strapperà un ghigno storto.
La band milanese, al suo primo LP, sfodera un album al dir poco old school. Chitarre garage (che più che un genere qui è uno stile di vita) che ricordano il furore del compianto Ron Asheton, ritmiche lente e sensuali, tra l’oscuro incalzare dei Back Sabbath e le luci rosse delle vetrine di Amsterdam. Per bruciare infine tutti i vostri sensi di colpa c’è una voce al limite della saturazione, che pare registrata durante un agonizzante elettroshock e come un lurido verme esce dal suolo per darti una scossa elettrica nel culo.
Il riff di “Midnight Eyes” apre le infernali danze, si rispolvera la lametta dal 1973. The Stooges di “Raw Power” tornano taglienti. Le ritmiche sono lente, ossessive, oscure, il punk è ben lontano ma sta a guardare con la malizia di chi è pronto a prendersi il merito senza tribolare tanto. Niente fronzoli, solo tanto groove e tanto blues da marciapiede.
Il disco pare essere un vero e proprio tributo alla Motorcity americana e alle sue band sporche di smog e sudore. E sappiamo benissimo che suonare questa musica 40 anni dopo e nel “paese che sembra una scarpa” potrebbe essere un azzardo, per non dire anacronistico. Ma The Doggs ringhiano e sembrano proprio sbattersene di tutto ciò che ronza intorno, ignorano critiche e ritornelli da classifica e suonano semplicemente il fottutissimo rock’n’roll che gli martella in testa come la più pulsante ossessione. E non ci sono compromessi: i ragazzi non strizzano mai l’occhio al pop, anzi lo guardano in cagnesco e gli abbaiano dietro anche in brani come “Wild Boy” o “Ride My Bomb”, dove molti altri luridi randagi si sarebbero tirati a lucido e ci avrebbero firmato dignitosi armistizi.
Questi non sono di certo “I Cani” elettro-cool, freschi di stagione. Ma nonostante questo non serve nessuna macchina del tempo, in questo revival la lametta è arrugginita ma sporca di sangue freschissimo.