The Strokes Tag Archive
The Smashing Pumpkins – Cyr
Come se bastasse abbuffarsi di synth per suonare moderni.
Continue ReadingThe Strokes – The New Abnormal
Fate finta che non sia un disco firmato The Strokes e vi piacerà.
Continue Reading[ non è mai troppo tardi per il ] Primavera Sound 2015 – parte II (e per i rumors sull’edizione 2016)
Sì, abbiamo un conto in sospeso con il festival dei festival, quello che inaugura la stagione e a cui tutti gli altri si ispirano, e non ce ne siamo dimenticati (trovate qui un resoconto dettagliato dei primi due giorni dell’edizione 2015).
Che tu faccia parte degli scettici o dei frequentatori seriali che hanno già in tasca l’Abono 2016, ti raccontiamo quello per cui è valsa la pena di trascorrere la tre-giorni più massacrante dell’anno in Catalogna, ma anche tutti gli imprevisti che mai ci saremmo aspettati dalla mastodontica macchina organizzativa dietro a un evento come il Primavera Sound Festival.
Nel frattempo le prime info sulla line-up 2016 si fanno attendere fino a gennaio inoltrato, e il web si sbizzarrisce a suon di pronostici scientifici e speranze infondate. Quel razzo in locandina riaccende la consueta chimera della presenza di David Bowie, ancor più dopo l’annuncio della release ufficiale di Blackstar prevista per l’8 di questo mese, giusto il giorno dopo quello in cui il prezzo dell’abbonamento al Prima subirà l’ennesimo aumento. Sí, il Primavera Sound riesce a vendersi (a caro prezzo) anche a scatola chiusa, ma d’altronde i grandi nomi del momento passano tutti per la kermesse spagnola, e la cifra da sborsare per poter presenziare a una tale quantità di live, all’apparenza esorbitante, è a conti fatti un’occasione irripetibile e convenientissima. Ok, resta il fatto che nella pratica ci vorrebbe il dono dell’ubiquità per poter stare sotto a una decina di palchi in contemporanea, ma questo lo avevamo già mestamente constatato lo scorso anno. In ogni caso, si può star certi che davanti al programma completo sarà impossibile restare delusi: se Bowie sembra un miraggio, i protagonisti più quotati dietro all’hashtag #PrimaveraAllStars sono del calibro di Beach House, Pj Harvey, M83, Deerhunter, Grimes, Animal Collective e Tame Impala.
Uno sguardo alle recenti reunion suggerisce inoltre alcuni nomi altisonanti, quali Guns’n’Roses e LCD Soundsystem, ancor più in quanto entrambi confermati in cartellone al Coachella 2016. I più attenti hanno presto depennato gli Stone Roses, che per il 2 giugno sembra abbiano già preso impegni in Giappone.
Di occasioni per assistere alle performance di formazioni storiche il Primavera Sound ne offre sempre in abbondanza, ma per evitare di incorrere in grosse delusioni (per non dire in anacronismi deprimenti) sarebbe bene fare alcune distinzioni tra le proposte. Lo scorso anno sullo stage Heineken sono salite le Sleater-Kinney, con un validissimo disco di inediti uscito a inizio anno, a sprigionare un’energia fuori dal comune, rock duro e puro distillato in brani eseguiti senza soluzione di continuità, e con un’eleganza da copertina patinata a demolire ogni stereotipo sull’androginia delle donne devote al genere. Tra gli show migliori della passata edizione, sono queste le reunion da non lasciarsi sfuggire. Molto spesso però, al di là delle indubbie qualità dei progetti musicali, i ritorni rischiano di ridursi ad autocelebrazioni nostalgiche. Nei casi peggiori finiscono anche per rivelare la loro vera natura di operazione meramente commerciale: è quello che è accaduto agli Strokes, probabilmente i più attesi dell’edizione 2015, con un Julian Casablancas che definire fuori forma sarebbe stato un eufemismo, per una performance durante cui, forti di un repertorio collaudatissimo, nessuno sul palco si è preoccupato di nascondere un’innegabile carenza di entusiasmo.
Sleater-Kinney
Paradossalmente, non è stata questa la cosa peggiore verificatasi durante l’ora abbondante in cui gli Strokes si sono esibiti, perchè quel che nel mentre stava accadendo sotto al palco é stato al limite dell’incredibile: gli stand stavano per terminare le scorte di alcolici. L’imprevisto da sagra di paese avveniva all’interno di una manifestazione sponsorizzata in maniera massiccia da un colosso della birra scadente che risponde al nome di Heineken.
Reduce dal live degli Interpol, proprio allo stage che dello sponsor porta il nome (e da un paio di ore senza liquidi che avevo dovuto affrontare per difendere la mia sudatissima posizione in prima fila), mi facevo strada verso gli stand tra il palco in questione e lo stage Primavera, dove Casablancas e soci erano già di scena.
La mappa del Parc del Forum per l’edizione 2015
Raggiungere gli stand si è rivelata presto un’impresa disperata, perchè il pubblico degli Strokes si era sommato a quello degli Interpol e aveva già invaso ogni centimetro quadrato degli ettari che dividono i due palchi, e se non avessi avuto la sete inverosimile di cui sopra la scelta più saggia sarebbe stata quella di ruotare di 180 gradi e guardare i maxischermi appoggiata di spalle alle stesse transenne a cui ero stata aggrappata fino ad allora. Per giunta, al termine della traversata, lo scenario che si è prospettato ai miei occhi aveva un’aria da emergenza umanitaria, tra le file scomposte di ubriachi impazienti e gli addetti al beveraggio in preda al panico davanti ai fusti vuoti.
Poi però non vi lamentate se di anno in anno continuiamo ad affinare le tattiche per eludere i controlli anti-alcool all’ingresso.
Interpol
In quanto a imprevisti di portata monumentale, la questione alcolici è seconda solo a quanto accaduto al povero Tobias Jesso Jr.: andarsi a gustare il pianoforte di uno degli esordi migliori dell’anno col sole tiepido del tramonto di sabato sembrava la cosa migliore da farsi, ma l’energia incontenibile dei New Pornographers che si esibivano all’ATP nello stesso momento ha sovrastato senza pietà il set acustico di Tobias al Pitchfork, performance definitivamente compromessa poi dalle distorsioni e dalle prorompenti voci femminee di The Julie Ruin levatesi dal Ray-Ban, altro palco attiguo e con impianto di tutt’altra potenza.
Tobias Jesso Jr. @ Pitchfork stage
In generale, il 2015 sembra essere stato all’insegna delle difficoltà nello scheduling. Le sovrapposizioni degli imperdibili sono state moltissime. Il programma del venerdì non solo ci ha costretti a scegliere prima tra Damien Rice, Belle and Sebastian, Sleater-Kinney e Perfume Genius, ma in seconda battuta anche tra Ride, Ariel Pink, Voivod e Run The Jewels. Presi dall’hype, siamo rimasti al Pitchfork per il californiano e i suoi Haunted Graffiti. Dopo gli evidenti problemi tecnici dei primi due pezzi, il live è decollato rapidamente insieme col suo eccentrico protagonista, strizzato in una tutina pastello (che in realtà è forse uno degli outfit più sobri mai sfoggiati on stage da Ariel Rosenberg), davanti a una folla considerevole, esaltata e compatta nell’intonare il refrain di “Black Ballerina”.
Se la lungimiranza del Primavera nel comporre le line-up è ormai un dato di fatto, è pur vero che, come ogni regola, non è esente da eccezioni.
Tra quelli a cui è stato concesso il salto di qualità dal Pitchfork stage all’Heineken quest’anno c’è stato Mac De Marco. Con la stessa salopette e la stessa aria scanzonata (per non dire un po’ beota) che suppongo indossi quando scende in garage a truccare il cinquantino ci ha proposto quasi tutto il suo Salad Days (i due EP datati 2015 sarebbero usciti in estate inoltrata), per poi prendere per culo Chris Martin con una cover di “Yellow” deliberatamente blanda, lanciarsi in uno stage diving a spasso per qualche centinaio di metri su una folla di tardoadolescenti fino a un attimo prima occupati più che altro a drogarsi e venir poi ricondotto sul palco senza una scarpa ma con un’espressione ancor più felicemente idiota di prima, per annunciare infine l’arrivo di Anthony Kiedis, esclamando “Mr Dani California himself!”, mentre sul palco saliva un soggetto raccattato chissá dove (e che a Kiedis non somigliava manco un po’). Se è vero che una delle icone che resteranno del Primavera 2015 è senz’altro quella di Mac sospeso sulla folla, di fatto quella volta a fidarmi della proposta sul main stage ho finito per perdermi tre quarti d’ora di collaudati struggimenti emo con gli American Football al Pitchfork.
stage diving di Mac DeMarco di fronte al palco Heineken
A parte qualche episodio come questo, fortunatamente gli imprevisti in genere sono per lo più piacevoli. Il Primavera Sound è una roba in cui, mentre ad esempio sei a metà strada diretta a vedere gli Shellac, ti può capitare di passare davanti a un’altra performance, che neppure avevi inserito nel tuo piano di attacco, e che finisce per piacerti così tanto da convincerti a cambiare tutti i programmi. È stato così che nella tarda serata di sabato, a intervallare le granate di elettronica di Dan Deacon prima e Caribou in chiusura, ho beccato i Thee Oh Sees a prodursi in una delle performance migliori di questa edizione.
Date un’occhiata, e se poi vi viene voglia di farvi un regalo eccovi il link giusto.
https://portal.primaverasound.com/?_ga=1.157760122.1796721096.1451657543
GramLines – Coyote
Non è di certo una novità che il Veneto sia culla di sana musica. Abbiamo spesso sentito parlare di One Dimensional Man, progetto idea del geniale Pierpaolo Capovilla, dei Non Voglio che Clara, determinati e scuri, degli Artemoltobuffa, simpatici, indipendenti e dal carattere naif. E quanti locali hanno passato “Warp 1.9” del progetto The Bloody Beetroots o il metallo degli Arthemis. E la Patty Pravo che riecheggia per le strade. La lista è sufficientemente lunga e la conosciamo bene, ma oggi siamo interessati ad un nome soltanto: GramLines. Sono in cinque e sono di Padova. Tutta roba italiana, recitata in inglese, che ben si addice allo stile aggressive Alternative che hanno deciso di abbracciare. Nel 2012 esce il primo EP della band, sotto il titolo di Burning Lights EP e due primavere dopo, in maggio sboccia un nuovo lavoro: Coyote EP, suonato su palchi condivisi con nomi del calibro di Linea 77 e Zen Circus. Non male.
Il disco si presenta caratterizzato da tonalità molto impetuose, perfettamente realizzate nella stesura di “The Bone”, capitolo #2. L’orecchio viene inevitabilmente spiazzato da un basso incredibilmente in linea con quanto proposto dai The Strokes ed il paragone è inevitabile, seppur mancante la vena Indie, sostituita da un perfetto stile Alternative. Il risultato è di gran lunga più orecchiabile, caratterizzato da venature a tratti metalliche e a tratti Blues Rock, nulla togliendo ai mitologici newyorkesi. Nell’episodio successivo si fa spazio a tastiere ed arpeggi maggiormente melodici, accompagnati da lievissimi chorus, ma lo stile si afferma e continua a risaltare quella tendenza Blues di cui poc’anzi. Le estroverse chitarre di Stefano Bejor e la camaleontica voce di Francesco Campaioli ben sanno raccontarsi attraverso gli oltre 6’ di “The Road”. Ma Coyote EP sa farsi ben apprezzare e non ha di certo paura di sfoggiare strutture alternative attraverso l’intro Rock’n’Roll di “The Thrill of a Breakdown”, che cede presto spazio al bit bass di Alberto Pavinato. Strutture non di certo banali accompagnano l’intero brano per tutta la sua durata, donando alla traccia un carattere molto più internazionale. L’ultimo episodio dell’EP continua a manifestare lo spirito animalesco dei cari GramLines ed è soltanto a questo punto che si riesce ad apprezzare pienamente il timbro di Francesco e le doti artistiche di tutti i musicisti protagonisti del progetto. Una splendida credit track per uno splendido lavoro.
Nulla da aggiungere, a questo punto, attraverso Coyote EP la vita diviene una strada. È questo il tempo delle bestie? Amano raccontarsi così. Noi intanto raccontiamo le aspettative attraverso un giudizio dal carattere interessante, in attesa di un vero album studio.
Morrissey – World Peace Is None of Your Business (Deluxe edition)
World Peace Is None of Your Business è il decimo attesissimo album solista di Morrissey che mancava dalle scene dal suo Years of Refusal di cinque anni fa. In Inghilterra infatti è un evento di primordine, celebrato da tutti i magazine di settore tanto che l’ultimo numero di Musicweek, per l’occasione, è stato rinominato Morrisseyweek. L’album è stato anticipato da una campagna di quattro video su Youtube in cui lo stesso artista, vestito in completo elegante delle occasioni importanti, presenta altrettante tracce (la title track, “Instanbul”, “Earth Is the Loneliest Planet”, “The Bullfighter Dies”) in spoken word, una scelta non casuale per rimarcare la centralità dei testi e dei messaggi contenuti in questo disco. Si ritrovano infatti i temi che rendono Morrissey, oltre che una delle rockstar più influenti della storia della musica, anche un’icona delle battaglie dei diritti civili e dei diritti degli animali. “The Bullfighter Dies”, come potete ben immaginare dal titolo, ė una sadica filastrocca anti-taurina che va ad aggiungersi alla lunga lista di canzoni animaliste composte sia da solista che con The Smiths. Invece “Neal Cassady Drops Dead”, oltre ad essere un omaggio alla Beat Generation, affronta in maniera più velata la tematica della libertà sessuale.
Nell’album si nota una dicotomia tra pezzi aggressivi che trattano di attualità e di critica socio politica (di cui fanno parte i due pezzi appena citati) ed altri pezzi che sono molto più intimi, oscuri, a tratti decadenti. In questi ultimi l’aspetto compositivo è molto più curato e si nota il pregevole lavoro del produttore Joe Chiccarelli (The Strokes, U2, Beck) nonché l’affiatamento con i suoi fidati storici membri della band Boz Boorer e Alain Whyte. L’album è uscito in due formati, Standard Version con dodici pezzi e Deluxe Version con sei tracce bonus. Sicuramente quest’ultima è la migliore e da un senso di compiutezza che l’altra versione non ha, quasi fosse troncata di netto. Molto probabilmente ci sono dei motivi puramente commerciali e hanno cercato di rendere fruibile il disco ad un pubblico più vasto (e più pigro, abituato a prodotti brevi e di facile consumo) al di fuori della consolidata, venerante schiera di fans. Canzoni intense come “Scandinavia” o “Art-Hounds” (track tredici e diciotto) non possono essere lasciate assolutamente fuori da un album così vitale e onesto. Morrissey in World Peace Is None of Your Business riesce con una facilità disarmante a riproporsi senza cadere nel già sentito, senza stravolgere il proprio stile né tentando stravaganti sperimentazioni, ma con una onestà intellettuale che solo pochi artisti hanno. Mi godo questo album, e attendo il prossimo. Lunga vita a Moz!
Il Video della Settimana: TACDMY – “Somebody Sometimes”
Si chiamano Academy o più semplicemente TACDMY e sono una giovane band friulana danzereccia e promettente che miscela Phoenix, Digitalism, Daft Punk, Franz Ferdinand e The Strokes. Il 3 giugno è uscito il loro album di debutto Maning of Dance in contemporanea con la clip del primo singolo “Somebody Sometimes, realizzato da Ale degli Angioli (M+A) che è anche il video scelto questa settimana da Rockambula e che potrete vedere di seguito ed in homepage fino al prossimo sabato.
Party in a Forest – Ashes
“Party In A Forest nasce una fredda mattina di dicembre, sotto il cielo di Bologna. Uno di quei giorni in cui tutto va fondamentalmente bene, piove ed è una gran noia. […] Party in a Forest è la luce, i colori, le voci di una festa immersi nell’enigma della foresta.”
È un lunedì qualunque, quando mi ritrovo a leggere queste parole, già pronto per l’ascolto del disco pervenutomi: Ashes, primo titolo dei Party in a Forest. La descrizione della band mi ha messo di buon umore e mi aspetto grandi cose da questo disco. Mi metto all’opera. La prima traccia ha un certo non so che di Indie ed ascoltandola mi sovvengono due nomi caratteristici della mia tarda adolescenza: The Strokes e Bloc Party. Mi sa che l’ispirazione è nettamente quella. E la cosa non mi spiace mica! Lo strumentale è ben impegnato, le chitarre strimpellano note lunghe, acute e trascinate in un perfetto Indie Rock, la batteria accompagna con gran stile ed il basso sa il fatto suo. “Tired” s’intitola e merita una citazione bella grossa! Fra descrizione e traccia uno mi sento già appagato. Sana musica, che di tanto in tanto viene alla luce. La seconda traccia apre con un giro di basso piuttosto importante e all’atto del cantare, assurdamente, mi viene alla mente “Wake Me Up When September Ends”, che sparisce un attimo dopo. Qui la voce singhiozza e sfocia in un qualcosa di simil Emo, del tutto contrastante con la melodia allegra e saltellante. Ma d’altra parte il testo è un inno al “non ci pensare” e la componente Emo percepita va via da sé. Sta di fatto che la traccia non mi ha particolarmente colpito. Mettiamoci alla ricerca di qualcosa che ci faccia saltare dalla sedia! “I’ve Been Blind” apre con un arpeggio malinconico degno dei sound di fine anni 90 e può andar bene. La voce singhiozza ancora e stavolta è accompagnata da un testo adeguato. Il resto della traccia è articolato intorno a un basso molto cupo e in prossimità del ritornello lo strumentale cresce, facendoci sperare in un’esplosione, che in realtà si traduce in un lamento. Non è una cattiva traccia, ma stiamo via via discostandoci dai buoni propositi iniziali. Ad un certo punto mi soffermo sui titoli delle tracce e scopro una vena malinconica in buona parte di essi. Devo abituarmi all’idea che l’Indie percepito sia una comparsa da premessa?
Non male la traccia successiva, che ben conserva il mix di Emo (Secondhand Serenade style) e Indie Rock degno dei migliori The Killers. Qualcosa mi fa pensare che la fusione di genere forse forse funziona bene, seppur nuova per le mie orecchie. Paradossale come non stonino la felicità e la malinconia se opportunamente e consapevolmente affiancate. Ecco! Questi Party in a Forest, piacciano o meno, mi trasmettono un’estrema consapevolezza! Nota di stima, più uno sul punteggio e passiamo avanti. Inoltrandoci nel pieno del disco, incontriamo una batteria che sa tanto di “My Chemical Romance”, di quelle che suonano come una marcia diligente ed ordinata. Il sound mantiene un’ottima organicità e la band nel complesso continua a funzionare bene, anche su tracce che non mi smuovono come la numero cinque. Confermo, se Ferdinando urlasse a squarciagola di qua e di là e fosse un po’ più stonato, saremmo innanzi ad una versione moderna dei “My Chemical Romance”, meno sofisticata ed un po’ meno Hardcore, ma certamente più orecchiabile. Vi avessi ascoltato un po’ di anni fa, sarebbe stato amore a prima nota.
Ma i ragazzi sono ottimi musicisti, questo è un dettaglio insindacabile, e attraverso “Ashes”, che dà il titolo all’album, riescono a farmi fare su e giù con la testa. Avanza spedita la traccia, fra arpeggi e batterie prepotenti. Suona molto Yellowcard, non male. Questi Ferdinando, Alessandro e Manuel ne hanno di ispirazioni. O forse son solo pure casualità, sta di fatto che riescono a generare un sound assolutamente pulito ed orecchiabile, forse un po’ troppo battuto, ma che conserva la sua efficiacia e li conduce ad un pubblico ben più vasto di quello raggiungibile attraverso una musica rigida ed inscatolata. La scelta del cantato in lingua inglese, inizialmente, mi aveva lasciato perplesso, in qualità di portabandiera della musica italiana. Tuttavia, devo riconoscere che, visto il genere, l’inglese calza molto meglio, semplifica i testi, migliora la musicalità ed apre porte ben più grandi.
La traccia successiva riesce a fondere insieme un’Indie classico della sua definizione ed un Rock’n’Roll appena appena accennato nelle chitarre. Scorre rapida e non mi stupisce e mi conduce a “Before You Go (Take Me Home)” che apre con un’intro stile Augustana e mi chiedo se me li ricorda proprio tutti o se sono tutti uguali. Il cantato è cupo e conferma le due tonalità percepite nel corso dell’album: o singhiozza o si tiene su un profilo a bassi toni il nostro Ferdinando. Però a poco più di 2’ dall’inizio la traccia apre bene e quasi inaspettatamente, lasciando buono spazio ad uno strumentale ben lavorato, in cui si insinua un guitar solo carino, ma non spettacolare. Torna la voce singhiozzante, accenna un urlo, ma i Chemical non li tocca per davvero neppure stavolta.
I titoli di coda sono accompagnati da una traccia ad ottimo contenuto strumentale, con tanto di effetti e pedaliere. Molto lenta, ma altrettanto lavorata. La batteria si articola in un semplicissimo cassa, cassacassa, rullante per tutta la durata del brano. Un giro banalissimo che il più delle volte funziona bene; stavolta compresa. Un po’ statica come traccia, ma si adagia bene sul numero che porta. Abbiamo scrutinato tutti i brani e ne abbiamo valutato la compostezza. È giunta ora di tirare le somme. I Party in a Forest sono senza dubbio un gruppo che lavora bene, che non si preclude alcuna tipologia di pubblico. Il genere trattato è un genere piuttosto semplice, orecchiabile e facilmente arrivabile dal più degli apparati auditivi. Non posso negare che siano tutti e tre ragazzi capaci, ma è altrettanto vero che l’aprirsi a pubblici troppo vasti si paga con la qualità dell’opera. Non si fraintendano le mie parole, per carità! È un buon gruppo, nulla da togliere, ma nulla che valga la pena di consigliare, se non ad un amico in crisi di prendiamoci una pausa o di devo capire cosa voglio dalla vita, cose così. Mancano in esercizi di stile ed in articolate esposizioni di doti artistiche. Fossi l’ascoltatore medio gli darei il massimo dei voti, essendo che i ragazzi si fanno ascoltare senza troppe pretese. Tuttavia io sono quello fissato che cerca sempre la vena artistica, quello che sente la musica e se ne sbatte della canzone, quello che la musica come sottofondo è da sfigati. Al massimo è il resto a far da sottofondo alla musica. Non riesco a negargli la sufficienza e ammetto che, senza dubbio, i Party in a Forest valgono molto di più, ma forse in altra sede. In questa sede, mi riservo il diritto di essere strettamente selettivo e voglio vestire i panni del redattore cattivo che formula i voti miscelando tutte le componenti necessarie. Il miglior sunto che mi riesce è una cosa del tipo “sono come gli Augustana: compri il disco, lo metti nello stereo e intanto fai i cazzi tuoi”. Però il disco lo comperi.
Cosmic Box – Last Broadcasting Station
Un motto è una frase che descrive le intenzioni o le motivazioni di un gruppo; per i Ferraresi Cosmic Box le magiche parole sono anche il titolo del loro primo EP uscito nel 2010, Not Better, Simply Different. Dopo quattro anni da questa dichiarazione d’intenti è arrivato il momento per loro di ributtarsi nella mischia con un nuovo lavoro L.B.S., Last Broadcasting Station. La domanda spontanea è: “saranno ancora i fieri rappresentanti di quelle quattro parole?”. Discograficamente parlando quattro anni non sono pochi e L.B.S. è un album più maturo e ricercato. Non spaventatevi, non ascolterete una versione ammuffita e decrepita dei Cosmic Box ma dieci brani sanguigni e d’impatto, che scorrono velocemente. Al primo ascolto si percepisce subito la distanza rispetto al lavoro precedente. Le novità che il quintetto ferrarese ha adottato sono varie e molteplici sia a livello tecnico sia di songwriting: la presenza di assoli musicali che danno corposità e spessore a brani come “Trough Skin & Bones”e “The Daily Work”, ritmi rallentati che esaltano le suggestioni come in “All the Things You Cannot Hide”, e una vera e propria ballad, nell’accezione più classica del termine, dalle atmosfere rarefatte e dal titolo criptico “66”.
Tutte queste innovazioni sul lato della composizione confluiscono in un generale cambiamento di fuso orario, che da un sound marcatamente ispirato all’immaginario British si sposta verso influenze a stelle e strisce, Incubus, Pearl Jam, The Strokes, Foo Fighters solo per citarne alcuni. La stessa voce del cantante Andrea Gnani ricorda molto nel timbro e nell’uso quella del poliedrico Brandon Boyd, in memoria, forse, del loro passato da cover band. Nonostante i cambiamenti i Cosmic Box non rinnegano completamente le proprie radici e includono nell’album anche brani come “New Way Home” e “Don’t Move”, in stretta sintonia col passato, dove chitarre distorte e batteria decisa ed essenziale dettano le regole del gioco, creando quell’allure rock anni 90 che, sebbene semplice nella melodia, garantisce una certa resa d’impatto. Tirando le somme, L.B.S. è un disco che musicalmente rende bene e ha quel gusto internazionale che consente al quintetto di rompere gli argini della bassa pianura emiliana. La stessa operazione viene replicata anche sul piano testuale, esulando dagli standard produttivi di molti artisti italiani, che si ostinano a scrivere in una lingua che non gli appartiene. Insomma un disco da ascoltare e magari consigliare per una serata tra amici, che in queste righe ha ricevuto molti punti , ma che però è colpevole di un solo grande peccato: la mancanza di originalità e distanza rispetto ai propri modelli musicali. Andrea a compagni, probabilmente, in questo nuovo capitolo dovrebbero cambiare il loro motto in better, not so different.