The Who Tag Archive

Ty Segall – Manipulator

Written by Recensioni

In questo calderone di produzioni vintage (che tanto piacciono da fine anni 2000 in avanti) potrebbe entrare di diritto anche il ragazzo prodigio Ty Segall. Nato a Laguna Beach e classe 1987. Per chi non lo conoscesse vanta già una vasta produzione discografica con una ottima media di un disco all’anno. Penso che tutti siamo d’accordo nel sostenere che quando si fa revival il rischio di inciampare su un terreno arido di idee è molto elevato. Ma il giovanotto sa che questo e ben altri rischi sono la supposta quotidiana da mandare su per chi vuole vivere di passioni. E allora, senza guardarsi nè troppo avanti, nè troppo indietro, prende il meglio del sound più marcio di fine anni 60 inizio 70 e lo strapazza dentro un vortice di frenesia moderna che già scalpita in “Manipulator”, brano che apre e da il nome al disco. La title track è un viaggio distorto e psichedelico, guidato da un organo strafatto fino al midollo. “Tall Man Skinny Lady” fa intendere che la produzione a sto giro è stata curata sicuramente meglio degli altri suoi lavori. Non disperiamo, il grezzo viene fuori sempre, come la mano di uno zombie che rompe la tomba pronto ad azzannare gole nel più trash dei B-Movie. La chitarra di Ty Segall è un uragano, un fiume in piena pronto a spazzare tutti i fighetti e i loro occhiali con le montature grosse. Altro che facile revival! Attenzione, i compromessi ci sono. E forse sono gli episodi più caratteristici e portano (sempre con spiazzante naturalezza) il disco ad un altro livello. “It’s Over” si avvicina al confine del Brit Pop e pare giocare con un groove che ha il sapore dei tempi splendenti e combattenti dei The Who. La gioiosa “The Clock” riporta il suond acustico che ci aspettavamo. Ad accompagnarlo ci sono archi tanto inattesi quanto magistralmente incastonati in questa perla di melodia antica. La melodia come non mai. Melodia straziata e presa in giro, sia in “The Singer” con i falsetti autoironici che in “Don’t You Want to Know? (Sue)”, ballata scanzonata da pomeriggio londinese di timido sole. “The Connection Man” invece riporta il suono di Ty alle origini, con un bel pezzo Garage fino al midollo e che non rinuncia ad un buon gioco di stile vocale, tanto per non rendere neanche un istante di questo lungo lavoro (sono comunque 17 brani!) banale e ripetitivo. L’assolo in questo pezzo è uno di quei momenti in cui sorridi e capisci quanto sia sincero a volte il Rock’N’Roll. La parte finale di archi in “Stick Around” non ha mezze misure e mi convince ancora di più a sostenere che l’album sia il lavoro più riuscito e completo di Ty. Nonostante si possa pensare ad un gran pastone citando le influenze, che passano da Oasis a T-Rex, da Black Sabbath a Nirvana, dalla psichedelia dei Love alle scorribande degli MC5, tutto con una disarmante armonia. No niente The White Stripes o Black Keys, per loro ormai c’è l’olimpo. Qui si preferisce marcire in questo sporco mondo, ancora pieno di odori sgradevoli, luci offuscate e vecchi fantasmi. Tutto narrato con la facilità e l’onestà di chi corre volentieri un altro gran rischio, bruciandosi ancora con il suono bollente delle sue valvole.

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THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Written by Live Report

RUGHE SPORCHE
THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Una domenica come molte altre, forse addirittura più anonima di tante altre. Con un cielo diviso a metà tra il blu della spensieratezza pre-estiva e orrende nuvole nere incombenti. Per sconfiggere l’apatia di questa modesta giornata cerco come molte altre volte rifugio nel Rock’N’Roll, antica medicina che per fortuna su di me continua a fare un certo effetto benefico. A questo giro di antico non c’è solo l’antidoto. Scorgo infatti con piacere che a Spazio 211 – Torino celebrano i loro 50 anni The Pretty Things, storico gruppo inglese capitanato da Dick Taylor, membro fondatore dei The Rolling Stones. Si parla del 1963, l’anagrafe non può mentire. C’è da dire che ultimamente sono parecchio avverso ai gruppi di ultra sessantenni. Penso che la pensione serva anche nel Rock, a volte la passione non basta ad attenuare gli acciacchi del tempo. E molte band di dinosauri si sono palesate ai miei occhi come lente macchine arrugginite, ancora appese agli esagerati fasti del passato. Esagerati per essere comodamente gestiti col tempo.
Alle ore 22 arrivo al locale e, nonostante delle vere e proprie leggende (negli anni ‘70 Mister David Bowie suonava le loro cover!) siano in città, il locale è semi deserto. Un po’ me lo aspettavo, un po’ forse Torino, che tanti pregi ha musicalmente parlando ma non ha mai avuto lo strato ruvido del Blues marcio sull’asfalto dei suoi viali. Ci si potrebbe aspettare per questo uno show un po’ anemico, apatico come questa domenica. Immagino che arrivare con 50 anni di band alle spalle e trovarsi un locale con sessanta persone dentro, per giunta a 2000 km di distanza da casa tua, potrebbe portarti all’apatia, alla freddezza, all’odio verso la passione che ti ha spaccato la schiena in decenni di furgone. E questo credo capiterebbe qualsiasi sia il tuo passato, figuriamoci cosa capita a chi ha militato in gruppo con Mick Jagger e Keith Richards.
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Alle 22.30 però The Pretty Things attaccano e tutte le cazzate che mi ronzavano per la testa vengono spazzate via dal muro del suono. Chitarre marce suonate da Dick, occhialuto e ricurvo su se stesso, e da Frank Holland, un altro attempato volpone, ricciolone e dallo stile Proto Punk. Basso e batteria da manuale del rock anni ’60, sebbene siano gestite da due pischelli. E poi la voce di Phil May, direttamente presa in prestito dagli inferi. Il diavolo invecchia ma mantiene charm inglese. Stile incredibile, viscerale. La macchina del tempo funziona alla grande, si sente lo sporco, le budella che si agitano, si sentono i tempi in cui la musica era una ragione di vita.
La magia scatta con il viaggio di “S.F. Sorrow is Born” (il disco S.F. Sorrow pare sia la prima opera rock che ispirò The Who a scrivere “Tommy”), psichedelia e aridi deserti, con quella sezione ritmica giovane che rende tutto così attuale e tangibile. L’incantesimo non si interrompe neanche quando sul palco rimangono solo Phil e Dick, come due vecchi amici (lo sono e si vede) jammano su vari standard Blues in duo acustico. Dick Taylor pare muovere goffamente le dita ingiallite e scheletriche ma in realtà con il suo slide riempie la sala di pathos e ci riporta davanti Robert Johson e tutte le sue diavolerie. Questa band è incredibilmente viva nonostante suoni musica vetusta. Ha la passione, la forza e la voglia ancora di stupire. Niente da dire, mi sono convinto. Questo gruppo è molto più gruppo di quanto siano The Rolling Stones degli ultimi 30 anni. Ma la chiudo qua perché il paragone è banale e forse pure fuori luogo.
Il finale dello show, che personalmente è anche una lezione di musica (ma oserei dire pure di vita), è affidato ad un omaggio a Bo Diddley, oltre che a loro classici come “Midnight to Six Man” e la conclusiva “L.S.D.” con tanto di citazione a “Lucy in The Sky With Diamonds”. Concerto corto, un’ora e mezza di pura energia e di sogni. Un’amalgama perfetta e un sorriso stampato sui loro stanchi volti che non si arrendono.
Nel finale esco a fumare una sigaretta con alcuni amici, passa proprio Phil May con una crostata alle ciliege in mano mentre i più giovani caricano lo scassato furgone che pare essere pure lui sudato marcio sebbene sia parcheggiato in una Torino non troppo caliente. Noi ci guardiamo e vediamo li a un metro da noi questo anziano, dall’aspetto rude, con capelli semilunghi ma mezzo calvo, che nonostante il sudore e i segni del tempo tenuti alla luce del sole, conserva la sua estrema eleganza. Guarda fuori, con una crostata in mano. Mi avvicino e gli dico solo: “great”. E’ l’unica parola che mi sento di dire. Lui mi guarda e mi da una pacca sulla spalla, gli scappa un “thanks a lot” e dopo un sorriso vero, umano. Mannaggia mi aspettavo dal Rock’N’Roll solo un po’ di brio per sotterrare questa triste domenica, invece questo infame si è dimostrato di nuovo più grande di quello che potessi immaginare.

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Bologna Violenta – Uno Bianca

Written by Recensioni

Con l’uscita, nel 2012, di Utopie e Piccole Soddisfazioni, Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, ha fissato per sempre i paletti della sua espressione stilistica, permettendoci di distinguerlo al primo ascolto, anche in assenza quasi totale della voce, sua o di chi altri. Con quel terzo disco, il polistrumentista già collaboratore di Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle, sembrava gridare all’Italia la sua ingombrante presenza, divenendo poi uno dei punti fermi (grazie anche alla sua etichetta, Dischi Bervisti) di tutta la scena (ultra) alternativa che non si nasconde ma si offre in pasto a ogni sorta di ascoltatore, dai più incalliti cantautorofili, fino agli inguaribili metallari. Nicola Manzan non colloca alcuna transenna tra la sua arte e i possibili beneficiari e allo stesso modo non pone freno alla sua creatività, fosse anche spinto dal solo gusto per il gioco e l’esperimento divertente magari senza pensare troppo al valore per la cultura musicale propriamente detta. Arriva perfino a costruire una specie di storia della musica, riletta attraverso quaranta brani che sono rispettivamente somma di tutti i pezzi composti da quaranta differenti musicisti. Dagli Abba ad Alice in Chains passando per Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer, Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the Banshees, T. Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The Police, The Velvet Underground, The Who, Thin Lizzy e Whitney Houston. Ogni traccia è il suono di tutti i frammenti che compongono la cronaca musicale di quell’artista. Poco più di una divertente sperimentazione che però racconta bene il soggetto che c’è dietro.

Dopo questo esperimento sonico per Bologna Violenta è giunta finalmente l’ora di far capire a tutti che non è il caso di scherzare troppo con la sua musica e quindi ecco edito per Woodworm, Wallace Records e Dischi Bervisti ovviamente, il suo quarto lavoro, Uno Bianca.  Se già nelle prime cose, Manzan ci aveva aperto le porte della esclusiva visione cinematografica delle sue note caricando l’opera di storicità, grazie a liriche minimali, ambientazioni e grafiche ad hoc, con quest’album si palesa ancora più la valenza fortemente storico/evocativa della sua musica, in contrapposizione ai cliché del genere Grind che lo vedono stile violento e aggressivo anche se concretamente legato a temi pertinenti politica e società. La grandezza di Uno Bianca sta proprio nella sua attitudine a evocare un periodo storico e le vicende drammatiche che l’hanno caratterizzato, attraverso uno stile che non appartiene realmente all’Italia “televisiva” di fine Ottanta e inizio Novanta. Il quarto album di Manzan è proprio un concept sulle vicende della famigerata banda emiliana guidata dai fratelli Roberto e Fabio Savi in attività tra 1987 e 1994, che ha lasciato in eredità ventiquattro morti, centinaia di feriti e strascichi polemici sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti nelle operazioni criminali. Un concept che vuole commemorare e omaggiare la città di Bologna attraverso il racconto di una delle sue pagine più oscure, inquietante sia perché i membri erano appartenenti alla polizia e sia perché proferisce di una ferocia inaudita. Il disco ha una struttura categorica che non lascia spazio a possibili errori interpretativi e suggerisce la lettura già con i titoli dei brani i quali riportano fedelmente data e luogo dei vari accadimenti. Per tale motivo, il modo migliore di centellinare questo lavoro è non solo di rivivere con la memoria quei giorni ma di sviscerare a fondo le sue straordinarie sfaccettature, magari ripassando con cura le pagine dei quotidiani nei giorni prossimi a quelli individuati dalla tracklist, perché ogni momento del disco aumenterà o diminuirà d’intensità e avrà un’enigmaticità più o meno marcata secondo il lasso di tempo narrato o altrimenti attraverso la guida all’ascolto contenuta nel libretto.

Sotto l’aspetto musicale, Manzan non concede nessuna voluminosa novità, salvo mollare definitivamente ogni legame con la forma canzone che nel precedente lavoro era ancora udibile in minima parte ad esempio nella cover dei Cccp; i brani sono ridotti all’osso e vanno dai ventuno secondi fino al minuto e trentuno, con soli due casi in cui si toccano gli oltre quattro minuti. Il primo è “4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri” che racconta l’episodio più feroce e drammatico di tutta la storia dell’ organizzazione criminale; la vicenda delle vittime, tre carabinieri, del quartiere Pilastro. La banda era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare un’auto. In via Casini, la loro macchina fu sorpassata dalla pattuglia e i banditi pensarono che stessero prendendo il loro numero di targa. Li affiancarono e aprirono il fuoco. Alla fine tutti e tre i carabinieri furono trucidati e finiti con un colpo alla nuca. L’assassinio fu rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata” e nonostante l’attestata inattendibilità della cosa, per circa quattro anni non ci furono responsabili. Il secondo brano che supera i quattro minuti è “29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi”, certamente il più profondo, il più tragico, il più emotivamente violento, nel quale è abbandonata la musica Grind per una Neoclassica più adatta a rendere l’idea di una fine disperata, remissiva e da brividi. L’episodio che chiude l’opera è, infatti, il suicidio del padre dei fratelli Savi, avvenuto dentro una Uno Bianca, grazie a forti dosi di tranquillanti e lasciando numerose righe confuse e struggenti.

Come ormai abitudine di Manzan, alla parte musicale Grind si aggiunge quella orchestrale e a questa diversi inserti sonori (a metà di “18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi” sembra di ascoltare l’inizio di “You’ve Got the Love” di Frankie Knuckles ma io non sono l’uomo gatto) che possono essere campane funebri, esplosioni, stralci radiotelevisivi, rumori di sottofondo, e quant’altro. Tutto serve a Bologna Violenta per ricreare artificialmente quel clima di tensione che si respirava nell’aria, quella paura di una inafferrabile violenza. Ora che ho più volte ascoltato i trentuno minuti di Uno Bianca, ora che ho riletto alcune pagine rosso sangue di quei giorni, comincio anche a ricordare meglio. Avevo circa dieci anni quando cominciai ad avere percezione della banda della Uno bianca e ricordo nitidamente nascere in me una paura che mai avevo avuto fino a quel momento. Il terrore che potesse succedere proprio a me, anche a me, inquietudine di non essere immortale, ansia di poter incontrare qualcuno che, invece di difendermi giacché poliziotto, senza pensarci troppo, avrebbe potuto uccidere me e la mia famiglia non perché folle ma perché uccidermi sarebbe servito loro a raggiungere lo scopo con più efficacia e minor tempo. Ricordo che in quei tempi, anche solo andare in autostrada per raggiungere il mare era un’esperienza terrificante, perché l’autostrada è dove tutto cominciò. “19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14”, qui tutto ha inizio; una delle storie più scioccanti d’Italia e uno degli album più lancinanti che ascolteremo quest’anno.

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BOLOGNA VIOLENTA E DISCHI BERVISTI PRESENTANO: THE SOUND OF…

Written by Senza categoria

Qual è  il vero suono di una band? Ma soprattutto, avete mai pensato  di poter ascoltare contemporaneamente tutta la discografia della  vostra band preferita?
Ora è possibile grazie a THE  SOUND OF…, una raccolta di quaranta discografie delle band più amate del pianeta, curata da BOLOGNA VIOLENTA (ecco la recensione dell’ultimo album e qui l’intervista a Nicola Manzan) per DISCHI BERVISTI in dieci  pratiche uscite settimanali.
Un tempo, per  sentire l’intera discografia di una band o di un artista dovevamo  fare un sacco di inutili e stancanti ricerche. Al giorno d’oggi con  internet si può sentire o scaricare tutto e subito. E il futuro?  Forse in un futuro più o meno prossimo riusciremo ad ascoltare  centinaia di brani contemporaneamente e soprattutto a gustare appieno  il sound inconfondibile di ogni band, con le sue mille sfaccettature  e le sue peculiarità.

THE SOUND OF… vuole  essere un simpatico esempio di ciò chepotrebbe essere il futuro  della musica e della sua fruizione.

Fortemente ispirata alle collane di  musica ambient da edicola, THE SOUND OF… non  vuole di certo essere una release esclusiva per audiofili o  maniaci delle frequenze più bizzarre: oltre alle vostre  orecchie, già impegnate ad esplorare nuove sonorità, anche i vostri  occhi curiosi potranno gustare le nuove  copertine (nate dalla fusione di tutti gli artwork dei dischi  presi in causa) che andranno a creare un immaginario ai limiti  dell’astrattismo, ma sempre perfettamente in linea con la cifra  stilistica delle band trattate.
Ognuna delle dieci  uscite (rigorosamente in free download) conterrà quattro band o  artisti a confronto.

GLI  ARTISTI COINVOLTI: Abba, Alice in Chains, Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer,  Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os  Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the  Banshees, T.Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The  Police, The Velvet Underground, The Who, Thin  Lizzy, Whitney Houston.

Quaranta  rivisitazioni dei classici della musica moderna.
Un’occasione unica  ed imperdibile per tutti gli amanti delle sonorità d’altri tempi.

PRIMA USCITA LUNEDì 4 MARZO 2013 IN FREE DOWNLOAD SU BOLOGNAVIOLENTA.BANDCAMP.COM [1] Per tutti gli aggiornamenti sulle uscite:

www.bolognaviolenta.com [2] facebook.com/dischibervisti [3] Nunzia TamburranoUfficio stampa Dischi Bervisti/Bologna Violenta
dischibervisti@gmail.com [4]

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