Sono in tre, sono inglesi e sanno bene cosa fanno. Gli Alt-J nascono nel 2007 e pubblicano il loro album di debutto (An Awesome Wave) nel 2012. Un disco che lascia la critica piuttosto spiazzata, considerata la massiccia mole innovativa che lo compone. A distanza di due anni, il 22 settembre corrente anno, pubblicano il loro secondo lavoro: This Is All Yours. Senza dubbio alcuno questo è stato uno degli album più attesi di questo 2014. Sarà che il precedente e pluripremiato (si veda il Mercury Prize) An Awesome Wave fu nel 2012 acclamato dalla critica come tra i migliori esordi di sempre, sarà perché, come diceva qualcuno, “Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”, sarà perché gli Alt-J sono riusciti a sfiorare le vette del mainstream internazionale con un sound talmente proprio e identitario da potersi dire tutt’altro che commerciale e sarà perché a gennaio di quest’anno hanno annunciato l’abbandono del bassista Gwil Sainsbury, tra lo scompiglio degli ormai già affezionatissimi fans e della band stessa.
Per capire dunque se la band sia riuscita a superare l’affannosa “prova del due” ci occorre premettere, per onestà intellettuale, un aspetto assai importante: This Is All Yours e An Awesome Wave sono dischi molto diversi tra loro. I ragazzi di Leeds con questo ultimo lavoro hanno certamente maturato un sound più introspettivo e spettrale, con chiari (e nemmeno troppo celati) richiami alla musica medievale (soprattutto dal punto di vista vocale, come si può notare in “Intro”) e alle sonorità soffuse alla Sigur Ròs (basti pensare a “Choice Kingdom”, settimo episodio della serie). Se cerchiamo singoli alla “Breezeblocks” o “Fitzpleasure”, per intenderci, rimarremo delusi. Non c’è traccia di quella brillante tensione metropolitana ben confusa con la furia della natura che caratterizzava le sonorità e le atmosfere dell’esordio. Da This Is All Yours traspaiono una cupezza disincantata e un’alienazione divertita. I bassi sintetizzati e le percussioni triggherate sono diventate assai meno invadenti e ci si sorprende un po’ quando con la bucolica “Warm Foothills” (decisamente l’episodio meno originale dell’opera) arriviamo ad essere cullati dolcemente, tra un fischio Folk e la delicatissima voce della gradita ospite Lianne La Havas. “Nara”, “Left Hand Free” e “Every Other Freckle” sono probabilmente i brani più significativi dell’intero disco. “Nara” è un inno alla libertà, dedica dichiarata alla città giapponese dove i cervi scorrazzano senza barriere o restrizioni di sorta, indicativa per capire il cambio introspettivo della band e che, insieme con il resto della trilogia (“Arrival in Nara”, “Leaving Nara”), sembra completare una preghiera pagana dai toni oscuri e processionali. “Left Hand Free”, capitolo numero cinque, è il brano più “radiofonico” e sembra volerci ricordare che questo “allontanamento dalla città” non è che un momento di passaggio, un po’ come lo è un secondo disco all’interno di una lunga carriera. “Every Other Freckle”, oltre ad essere una track dallo spessore non indifferente, è senza esitazioni un capitolo importante, rappresentando il legame diretto con le sonorità che valsero la fama del primo disco e quello che è il loro presente più contemporaneo. La traccia si presenta in piena dote di una grandissima coscienza d’arrangiamento e caratterizzata da una vena artistica naif ribelle e anarchica, che sfida la forma canzone classica e che punta dritto al futuro davanti a noi.
Niente più tempeste, dunque, niente onde imponenti in cui disperderci, ma un gradevolissimo viaggio lungo un’ora, che attraversa il tempo (sull’internet si vocifera che il disco sia stato registrato in una chiesa medievale) e che vuole superarlo, consapevole della maturità acquisita, capace ancora di sorprendere, pur se in maniera assai meno diretta. Per la seconda volta il giovane trio passa le selezioni e punta alla vetta, mantenendo le promesse fatte a suon di musica appena due anni fa. Tutte quelle promesse contenute in un’opera impressa su disco, sotto il titolo di An Awesome Wave.