Piove da giorni e non potrebbe essere altrimenti: siamo all’Ohibò di Milano per la serata organizzata da Sherpa Live con i ragazzi del Diluvio Festival. La serata si preannuncia densa – gli act in scaletta sono quattro (in realtà cinque, come vedremo) – ma la selezione è stata intelligente e, per non annoiare, la varietà non manca, nonostante una più che giusta affinità di mood (piovoso, spesso). Si parte, sapientemente, con i Tide Predictors, un duo basso+voce/tastiere+synth (+ basi, che saranno una costante per tutti i gruppi d’apertura). Rimango sorpreso: musica di chiaro stampo Electro-Pop eighties in inglese ma con evidenti richiami agli anni Sessanta nei riverberi della voce e in certi suoni di batteria. Nulla di nuovo, certo, ma i ragazzi scrivono bene, con un’attenzione all’armonia e ai ritmi che spesso non si limitano ai quattro accordi in quattro quarti o al motorik più abusato ma variano in modo piacevole, rimanendo sempre in un ambito gustosamente pop e ballabile, con qualche punta godereccia di rumore più sporco che non guasta. Atmosfere ombrose e piglio divertito mescolano cupezza e ironia senza sbilanciarsi troppo. Non il mio genere, ma aprono degnamente la serata. Approvati. Si presenta poi sul palco il solitario Vikowski, voce calda e tastiere (+ basi, come si diceva). La proposta è più comune: il punto forte è la voce, che Vikowski ha morbida e precisa. Canta bene, avvolgente in basso ed energico in modo struggente quando spinge di più. La presenza scenica abbastanza neutra non lo limita più di tanto, considerando che sul palco è da solo dietro la sua postazione, ma nemmeno lo fa brillare granché. Tutto sommato canzoncine piacevoli (e a me le canzoncine piacciono, sia chiaro), ma che non mi hanno colpito molto. Si può crescere, la misura c’è. Mi aggiro per l’Ohibò per dissetarmi e quando torno gli Abbracci Nucleari hanno già iniziato. Sono in due, pianoforte e voce (+ le sempiterne basi). Una sorpresa deliziosa. Un pianoforte mobile, luminoso e spaziale e una voce – femminile – perfetta. Davvero, perfetta: sussurra, si ingrossa, sale scende e fa un po’ il cazzo che le pare. Una padronanza cristallina del mezzo, unita a costruzioni armoniche e sonore in cui può appoggiarsi comoda e accogliente. Le canzoni sono forse il punto debole: rendono molto di più quando cercano di stupire virando sul Jazz o su ritmi più sincopati, da Elettronica quasi-glitch o da R’n’B moderno e cool; quando si appoggiano a una sorta di Post-Rock sui generis più lineare invece perdono molto. Le basi in generale aiutano: si indovina un ottimo lavoro di produzione, che però a volte fa a pugni con la semplicità dei testi, delle linee melodiche, delle strutture dei brani (spesso loop molto circolari, o così sembra). Rahma Hafsi, la cantante, sul palco è a casa sua, canta e si muove con una luminosità e una naturalezza incredibili, a volte forse troppo, considerando il genere. Un’ottima prova, che se non mi ha conquistato al 100% è solo per la mia cronica tendenza a sopravvalutare l’importanza del testo e della varietà strutturale di un brano – quindi mea culpa. Arriviamo all’headliner della serata… ma no: prima ci aspetta una massacrante mini-scaletta di Laetitia Sadier degli Stereolab, da sola. La cantante sale sul palco con calma, attacca la sua chitarra-elettrica-al-contrario (destra ma suonata alla mancina) e parte. Mood sognante, scarno, con solo la chitarra effettata ad accompagnare la sua bella voce limpida. Le canzoni non sono male, ma lei le suona male (si può dire che suonare fuori tempo, perdendo i colpi, e litigando col manico della chitarra è “suonare male”? O abbiamo già superato anche questa linea?). In più la Sadier si rende protagonista di un seccante teatrino quando ferma il pezzo in corso per ammonire il pubblico troppo rumoroso (c’era chi chiacchierava) per chiedere a chi non sia interessato di andarsene al bar. È seccante, il teatrino, perché il rumore era veramente minimo (e ve lo dice uno che non sopporta certi concerti col pubblico irrispettoso e vorrebbe, da asociale quale è, stare sempre seduto comodo e in silenzio nella poltrona di un teatro); perché, se ti distrai a suonare per due chiacchiere, probabilmente hai sbagliato mestiere; e perché, se pure pensi che la tua musica valga il silenzio del pubblico, o te lo conquisti a forza stile Low oppure fai l’artista inflessibile – con tutta la ragione del mondo! – e te ne vai. L’avrei apprezzata molto di più. Finalmente, dopo quasi tre ore di musica (buona musica, in ogni caso), sale sul palco Giorgio Tuma, che porta per la prima volta dal vivo le sue creazioni in giro per l’Italia nell’anno che lo ha visto pubblicare il suo quarto album, This Life Denied Me Your Love, e che stasera troviamo dietro le pelli e al microfono. Con lui Giuseppe Manta alla chitarra elettrica, Giulia Tedesco alle tastiere e voce e Gigi Cordella ai synth. Tuma è di un’altra scuola. L’impianto, nonostante synth e tastiere, è suonato, acustico in senso lato: è una band più vicina agli anni Sessanta che a qualsiasi altra cosa. L’atmosfera, a volte, si avvicina ai sapori crepuscolari e “liquidi” che abbiamo sentito durante la serata, ma li usa per crescere, gonfiarsi, alzare il tiro ed esplodere in lunghe code strumentali, in passaggi trippy, in sei ottavi rotolanti che Tuma gestisce con umanità da dietro la batteria, tenendo il polso delle canzoni in un modo che non ha nulla del robotico e del meccanico di certe precisioni infallibili, ma che al contrario ha il ritmo del sangue e delle parole che oscillano, ondeggiano, e se si inceppano (di un millisecondo, non importa) fa parte del gioco, fa parte della vita. Le canzoni di Tuma sono un’unica grande canzone, un oceano di suoni che accarezzano e poi trascinano, in cui si percepisce distintamente il suo gusto per l’arrangiamento e la libertà totale nello scrivere, che poi è totale subordinazione alla propria fantasia, alla propria voce interiore. Laetitia Sadier torna sul palco, all’inizio e alla fine del set, per duettare con lui, e il risultato è onirico, celestiale. Un concerto forse troppo breve ma che risucchia e sommerge, piacevolmente. Un’ottima chiusura, e questo senza considerare l’infinita umiltà e dolcezza di questo talento che rimane in disparte, parla poco, tentenna, come se stare sotto i riflettori fosse un male necessario per portare in giro i suoi suoni, la sua musica. Ecco, questa è la lezione numero uno che ci insegna Giorgio Tuma: la musica è ciò che deve stare al primo posto, il resto è e deve essere solo un contorno.
[foto di Eleonora Zanotti]