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Seymour Hoffman, storia di una stella ai margini (e un saluto a “Freak” che ci ha lasciato troppo in fretta).
Prendo spunto dal recente lutto nel mondo del cinema, la morte di Seymour Hoffman, premio oscar come miglior attore in A Sangue Freddo, trovato cadavere nel suo appartamento per un sovradosaggio di eroina tagliata male. La malattia della tossicodipendenza non fa distinzioni e porta via un grande del cinema, un padre, un immenso uomo. Nonostante l’eroina sia stata sdoganata negli anni 60 dalle più grandi rockstar, e qui un ricordo va al grande Mr. Lou Reed deceduto poco tempo fa, la roba continua a fare vittime e non solo tra gli emarginati. La storia del Rock è piena di junkies, non è un mistero; a molti rocker piace sballarsi. A volte anche a costo della vita, nonostante essa sia superficialmente grandiosa, abbagliante e luminosa. A dispetto di tutta la fama e i dischi venduti, di tutti gli affetti e le passioni c’è un sussurro nel cervello di un tossico, stella o stalla che tu sia, quel sussurro che ti vuole sepolto. La lista è lunghissima e qualcuno che ci ha lasciato le penne merita di essere ricordato; siano questi buoni o cattivi hanno lasciato un segno nella storia della Rock. Un pensiero a Kurt Cobain, Janis Joplin, Layne Staley, Sid Vicious, Tim Buckley, Jhon Baker Saunders, Dee Dee Ramone, tutti morti strafatti, mentre alcuni hanno dichiarato di utilizzarla o palesemente la utilizzano come Iggy Pop, Lou Reed, Dave Navarro, in pratica tutti i Red Hot Chili Peppers e anche John Lennon. Un’infinità di personalità dello spettacolo.
Forse uno dei motivi è che i rocker anni 60 ammiravano i musicisti Blues & Jazz venuti prima di loro e che usavano eroina. Le generazioni successive ammiravano quelle precedenti che a loro volta… Alla fine si è creato una sorta di gatto che si morde la coda, chi lo può dire. Oppure è solo tutto lo stress dovuto ai tour, agli spostamenti, le radio e televisioni sempre puntati addosso e per un rocker non c’è nulla di meglio che apparire come un cattivo ragazzo. Alcuni sostengono anche che aiuti la creatività e da questo la leggenda vuole che nacquero i Doors: “Se le porte della percezione venissero sgombrate / tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito.” W. Blake. Qualunque sia il motivo, la dipendenza è una malattia intorno alla quale si fa molta confusione, aggravata dalle leggi che criminalizzano chi fa uso di sostanze. Io personalmente non penso che tutti questi attori e musicisti siano dei criminali e sto parlando solo di loro perché sono quelli che hanno un’ampia vita pubblica che a volte e ben volentieri sfocia nel privato. Criminalizzando non facciamo altro che allontanarci da loro. Siamo in un momento in cui i paesi più civilizzati si stanno rendendo conto che i divieti non funzionano e forse, in un certo senso, amplificano il fenomeno, perché producono criminalità organizzata, scarsa igiene, emarginazione, facendo piombare queste persone nelle peggiori condizioni immaginabili per cercare di opporre rimedio. Non c’è divieto che tenga a un tossico che si gratta la schiena.
La morte di Hoffman ci ricorda ancora una volta che la tossicodipendenza è una lama trasversale che indistintamente colpisce chi è stato emarginato a causa di una malattia, di un culto insano, di un vizio inutile. È stato trovato da solo nel suo appartamento, non un criminale ma uno dei migliori attori in circolazione, con la siringa nel braccio e la sua dose tagliata da un pusher senza scrupoli. La storia del Rock è piena di decessi causati da eccessi, dalla sensazione di solitudine prodotta dalla fama, dalla voglia di oltrepassare i limiti, dalla necessità di fuggire dalla realtà. Molti dei più grandi artisti, e non solo, del secolo scorso se ne sono andati per questi motivi lasciandoci la loro grande musica e parte dell’opinione pubblica li ha trattati da criminali, da fuorilegge. Nonostante non tutti avessero la forza di denunciare la propria degenerazione e chiedere aiuto. Il mondo, oggi, è a un punto di svolta contro la proibizione e ora tocca perdonarli tutti perché in fondo quello che abbiamo fatto è emarginare un problema che andava risolto.
Happy Birthday Grace (Streetambula Winter Session) 21/12/2013
Ho aspettato molto prima di buttare giù queste due righe su Happy Birthday Grace (Streetambula Winter Session) e, a essere sincero, non avrei mai voluto essere io a scriverne. Non è mai facile, forse neanche troppo simpatico parlare (e con amore, perché questo è il caso) di un evento del quale si è anche co-organizzatori eppure alla fine mi sono deciso ma con la promessa, che spero possiate confermarmi mantenuta, di non lasciarmi trasportare dalle mille emozioni che hanno scaldato le pareti di Caffè Palazzo il 21 dicembre a Pratola Peligna (AQ). Ormai sapete tutti che Streetambula è il braccio di Rockambula, quello che organizza festival, contest ed eventi e mette le band in contatto con tutte le realtà interessate dal panorama indipendente, etichette, studi di registrazione, uffici stampa, pubblico, locali, webzine. La storia di questa Winter Session nasce qualche mese fa, quando Lorenzo Cetrangolo, nostro fidato redattore e proprietario degli studi milanesi dalla QB Music (da poco anche etichetta), ci propose di partecipare attivamente a un contest intitolato appunto al ventennale di Grace, storico album di Jeff Buckley.
Ovviamente la risposta di Rockambula è stata positiva ma è andata anche oltre. “Perché non lasciare un posto per la compilation tributo che realizzerete il prossimo anno a una band di Streetambula”? Questa è stata la mia domanda e la Qb Music si è presto dimostrata entusiasta della cosa. Vi spiego subito di che si tratta. Il prossimo agosto Grace compirà vent’anni. La Qb Music darà la possibilità a tante band quante sono le canzoni del disco di registrare un brano dell’album, pezzo che andrà poi a finire nella compilation tributo prodotta e distribuita dalla stessa QB Music. Da quel momento è iniziata la discesa che ci ha portati al contest invernale di cui sto per parlarvi, Happy Birthday Grace (Streetambula Winter Session). Come anche ad agosto, ci sono state delle preselezioni e per la finale sono stati scelti quattro protagonisti che hanno confermato sul campo il loro valore, dando all’evento un valore aggiunto e alzando l’asticella della qualità molto in alto, mediamente anche più di quello che tutti si aspettavano.
Giunti alla serata fatidica, Caffè Palazzo è stato addobbato a festa, con striscioni, stand, maglie, spille, gadget e quant’altro e soprattutto, ricoperto di musica. La finale vera e propria sarebbe iniziata solo intorno alle 21:00, anche mezz’ora più tardi, ma già all’aperitivo ci aspettava una graditissima sorpresa. Basandosi su un testo scritto da me (lo trovate a fine articolo, per chi fosse interessato), Paride Sticca e Jacopo Santilli de À L’Aube Fluorescente hanno iniziato un racconto musicato che partendo da “Gloom”, un loro singolo di prossima uscita, ha attraversato tutte le mitiche canzoni di Grace, con un mix di note, cantato, teatralità, poesia e Spoken Word. Circa quaranta minuti da sogno, per uno dei momenti più toccanti di tutta la serata. Lasciata alle spalle questa fantastica introduzione, ci si andava avviando verso la gara vera e propria, mentre sullo schermo scorrevano le immagini della serata del 31 agosto, prima edizione di Streetambula Music Contest. La giuria schierata confusamente per evitare l’effetto esame di Stato era pronta. Oltre a me, in qualità di caporedattore di questa webzine e redattore di Ondarock, c’era Margherita Di Fiore, collaboratrice di RockIt, Luca Di Pillo, musicista, Salvatore Carducci, tecnico del suono, fonico, collaboratore di Rockambula e gestore di negozio di strumenti, Duilia Del Gizzi, rappresentante di Nuove Frontiere (organizzatrice dell’evento con Rockambula), Jacopo Santilli, musicista e poi c’era anche per il pubblico la possibilità di votare, per circa il 15% del verdetto finale.
Primi a esibirsi, dalla provincia di Teramo, i Two Fates, coppia anche nella vita che ha proposto un Indietronic coinvolgente e travolgente, carico di melodia ma anche di teatralità, fatto di note orecchiabili e improvvise sferzate avanguardistiche. Bellissima la voce di lei e superbo l’utilizzo di Ableton Live (ribattezzato, Two Fates Machine), strumento abusato nel campo dell’elettronica ma che nel Rock non ha forse mai trovato in Italia un impiego tanto funzionale, pratico eppure artistico. Nessuna imperfezione, i Two Fates sanno come proporsi e sanno come interagire col pubblico, hanno carattere e talento e per tutti il verdetto sembra già scritto, se non fosse per quella cover di Buckley, forse non all’altezza del resto. Poi però sale sul palco un certo Dr. Quentin, tutto solo con la sua follia che odora di gioia. Mette allegria, mette una carica pazzesca, i suoi testi traballano in un inglese claudicante ma tutto sommato comprensibile. Sembra il fratello pazzo dei Two Gallants. Il suo è un misto di Folk Rock, Folk Punk e Alt-Country che mette i brividi e quando intona Hallelujah, a modo suo, mette la pelle d’oca. Certamente la migliore della cover proposte in tutta la serata.
Superato il Dr. Quentin, entra in scena il Rock dei Droning Maud da Rieti. Il loro sound è potenza pura, ma non di quella esplosiva quanto un big Bang, quanto piuttosto quella di un buco nero, sfuggevole e misterioso. Certamente gli unici che abbiano veramente travolto il pubblico, i più maturi, anche se magari senza stupire troppo. Ascoltarli a due passi è stato come essere investiti da un tornado di note. A chiudere la gara, i liguri Caligo. Ragazzi di una disponibilità unica, una simpatia e un amore per la musica da far invidia. Avrebbero meritato di vincere solo per questo eppure, c’era che dell’altro, nella loro esibizione. Il loro Pop/Rock è puntuale e si mette tutto al servizio della voce e dei movimenti di Marco Ferroggiaro, vocalist e leader della formazione di Chiavari. Melodie e canzoni, di quelle belle, di quelle che si possono cantare anche solo dopo averle ascoltate una volta. I Caligo erano proprio quello che mancava alla serata. Ora è proprio tutto. È ora di scegliere un vincitore.
Il pubblico ha già deciso. Per loro a vincere è il Dr. Quentin. Ma lui, è l’unico che gioca in casa e a Streetambula ci teniamo a fare le cose nella maniera più obiettiva possibile. Il pubblico conta solo per il 15% e come vedrete, non basterà. A vincere infatti non sarà il Dr. Quentin, nonostante tutti abbiano apprezzato la sua cover, nonostante quasi tutti ne riconoscano la voce stridula ma perfetta. Nonostante io stesso abbia affermato che il dottore “scrive canzoni, melodie, come pochi sanno fare”. Non sarà lui a vincere perché tutti ne sottolineeranno i limiti. Suonare Folk Rock, in inglese, solo chitarra e voce e farlo senza stancare dopo venti minuti è difficile e, infatti, anche in questo caso la giuria lo farà notare. A vincere non saranno i Droning Maud, nonostante l’apprezzamento incondizionato di tutta la giuria che ha rilevato solo l’uso eccessivo di una precisa effettistica sulla voce in sostanza per tutta l’esibizione. Non vinceranno non per i problemini tecnici dovuti all’audio e la resa nel piccolo locale ma perché è vero che c’era da fare una sola cover di Jeff Buckley, ma a lui era intitolata la serata e quindi, quella cover, avrebbe avuto un certo peso. Non è piaciuto che quel riarrangiamento sia stato fatto con un paio di minuti di ritardo perché il testo non era stato imparato a memoria e il foglio dove era stato scritto non si ritrovava. Inoltre non è piaciuto molto il riarrangiamento. Dispiace, perché i pezzi originali targati Droning Maud si sono dimostrati una bomba, e forse questo conta più del verdetto finale. Non hanno vinto neanche i Caligo, forse troppo emozionati, certamente stanchi per i 500 Km percorsi per arrivare dalla Liguria in Abruzzo, qualche errore di troppo in fase esecutiva e uno stile troppo magro, asciutto, con poca personalità esclusa la voce di Marco Ferroggiaro, per poter arrivare davanti ai colleghi, i Two Fates.
Già, proprio loro. I Two Fates. Per una volta hanno vinto quelli che tutti si aspettavano che avrebbero vinto; la band più completa, che ha fatto meno errori, che ha arrangiato con cura il brano di Jeff Buckley (una curiosità, Giuliano Torelli mi ha confidato di essere uno dei mille ad aver visto Buckley dal vivo in Italia), che ha messo sul piano le composizioni più curate, più interessanti e, anche in ottica futura, dalle prospettive più rosee. Senza ombra di dubbio, hanno vinto i migliori ma tutti gli altri si sono dimostrati non solo all’altezza ma certamente capaci di ritagliarsi un gran bello spazio nel mondo della musica. Basta capire quale spazio.
Di seguito trovate il testo suonato e recitato dagli À L’Aube Fluorescente e scritto da me, nel caso qualcuno voglia leggerlo. Alla fine trovate invece il trailer realizzato per la serata da Andrea Puglielli.
Per i ragazzi di Streetambula, scegliere Jeff Buckley e il suo unico album compiuto Grace, il suo capolavoro che tra qualche mese compirà vent’anni, come cuore del Contest invernale non è stata certo scelta agevole. Ogni canzone di quel disco racchiude una magia che solo pochi capolavori possono vantare e anche le cover interpretate da Jeff hanno acquisito un’aura singolare, un abissale senso di eternità e spiritualità. Avete capito bene, quell’opera d’arte contiene ben tre cover. “Lilac Wine” di Nina Simone, “Corpus Christi Carol” di Benjamin Britten e “Hallelujah” di Leonard Cohen. Tre riarrangiamenti che hanno dato in dono a quei brani l’immortalità che meritano palesando come un artista possa adagiare la sua essenza anche in brani di altri, quando si suona con sentimento. Quello che speriamo possano fare stasera i Droning Maud da Rieti, il Dr. Quentin, pratolano Doc, i Caligo da Chiavari in Liguria e i Two Fates di Colonnella. Fare musica col cuore, per farci sognare il suo volto ancora una volta. Sognare la sua vita.
Una vita che per Jeff non doveva essere stata facile. Il 17 novembre del 1966 nasceva il figlio di Tim Buckley. Il padre di Jeff era proprio quel Tim Buckley che qualcuno sta fantasticando ora. Una delle voci più strabilianti che si ricordino e uno dei più eccelsi sperimentatori vocali e del Folk. Musicista mirabile, non proprio come nel suo ruolo di genitore. Non si consacrò molto al piccolo Jeff, prediligendo cercare buona sorte nella Grande Mela; più in là i due si sarebbero rincontrati ma quest’abbandono non fece altro che appesantire, col tempo, la grandezza di Tim sulle fragili spalle del figlio.
Jeffrey Scott Buckley, “Scotty” per chi lo amava, perse il padre che in fondo non aveva mai veramente avuto, a Santa Monica il 29 giugno 1975; Tim fu schiacciato dal peso di alcol, eroina e da una vita impossibile da sopportare. Tim entrava nella leggenda e Jeff era ancora un bambino. Poche volte “Scotty” ebbe la possibilità di stare con lui ma fu proprio durante una serata in omaggio al padre, nell’aprile del 1991 a New York, che per la prima volta le sue sorprendenti abilità canore furono alla portata di un pubblico di un certo spessore.
Da quel giorno Jeff Buckley ha inseguito il modello del padre, talvolta superandolo e diventando a sua volta un mito, nella sua fragilità una specie di divinità carnale fatta di sogni, illusioni, angosce e dei suoi molteplici amori; si dice che amò tante donne, forse anche Courtney Love con la quale di certo fu fotografato a teatro; di sicuro Joan Wasser (qualcuno tra voi la conoscerà come Joan As Police Woman) ma anche Elizabeth Fraser, splendida voce dei Cocteau Twins. Jeff presto sarebbe diventato una leggenda però consapevole della vacuità della sua vita, che, come in una premonizione, sembrava sapere che non sarebbe stata molto più duratura di quella del padre. Jeff inizia a suonare come tanti di noi hanno fatto, come io stesso ho fatto, con piccole band, con i Group Therapy; quindi incide le Babylon Dungeon Sessions e poi lavora con Gary Lucas e con i Gods And Monsters fino a giungere al colosso Columbia. Nascono una moltitudine di tracce, tanto materiale spesso ancora inedito che finirà soprattutto per alimentarne il mito, nella sua sfuggevolezza.
Jeff non dimentica mai da dove viene. Forse non sa ancora dove vuole andare . Sapete a chi è intitolato uno dei suoi primi Ep? Al Sin-è. Il locale nella parte orientale di New York dove giovanissimo si guadagnava il pane come sguattero e poi incominciò a esibirsi. Da lì e da allora ha iniziato una corsa frenetica che l’ha portato a Grace, uno degli album più importanti e struggenti di tutti i tempi. Dopo Grace, in un’inquietante analogia con le vicende emotive del padre, Jeff, che certo non era uno scrittore maniacale, si dimostra impossibilitato a reggere i ritmi del mercato e soprattutto a sottostare alle sue pressioni. Sketches For My Sweetheart The Drunk, l’album seguente, uscirà postumo e incompleto; Jeff non riusciva a produrre tanto e velocemente quanto il sistema richiedeva.
Ma chi era veramente Jeff Buckley? Un musicista stravagante e anticonformista, non sempre attento agli aspetti tecnici della sua arte, un uomo capace di non prendersi sempre sul serio, anche quando si trattava di spiegare il senso delle sue parole. Anche un uomo che si sentiva solo, ma non aveva paura della sua solitudine. Sapete, una volta iniziò un tour, otto date, in posti sperduti d’America, con un falso nome, sempre diverso. Spesso suonò solitario, in quel Phantom Tour, senza pubblico. Avete capito bene. Cercava nel suo isolamento di ritrovare se stesso, la tranquillità dell’essere “uno qualunque”, l’unico modo per capire chi sei è forse non essere nessuno, agli occhi degli altri.
Come il padre, Jeff aveva però tanti problemi, con l’alcol, con la droga e con se stesso anche se in maniera meno romantica (aperte e chiuse le virgolette) e meno meravigliosa. Nonostante questo però non sarebbe mai arrivato al punto di morire per sua intenzione. C’era un disco in cantiere sotto l’ala protettrice di Tom Verlaine, leader dei Television; quindi il trasferimento a Memphis. Il padre era morto ventidue anni prima, “Scotty” ne aveva trenta all’epoca. Il suo talento era ancora tutto da scoprire e quello che resta delle sue incisioni racconta di un uomo che non si sentiva certo arrivato, anzi aveva voglia di vedere fin dove la sua mente, la sua arte poteva spingersi.
Era il 29 maggio 1997 quando Jeff e il suo autista si stavano dirigendo verso gli studi di registrazione. Si fermarono, Jeff voleva fare un bagno nelle acque del Wolf River. Si tuffò vestito, cantando “Whole Lotta Love” degli Zeppelin. Non era drogato, non era ubriaco. Non aveva deciso che quello sarebbe stato il momento di lasciarci. Qualcun altro, forse, lo aveva deciso, se ci credete, forse Dio. O forse il destino, il caso, chiamatelo come volete. Fatto sta che in quelle acque fresche di un affluente del Mississippi Jeff, “Scotty” per chi lo ama ancora, ci lasciò facendo quello che più amava, cantando.
Di lui restano poche canzoni ma per chi lo chiama ancora “Scotty” nelle sue preghiere, ha lasciato molto di più. Resta il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e soprattutto resta un album inarrivabile come Grace, al di là del mito.
Midas Fall – Fluorescent Lights
Non sono proprio tra i più accaniti ammiratori dell’arte canora pura. Certo, non resto impassibile all’ascolto di esecutori capaci e incantevoli e ammetto che taluni timbri mi hanno fanno innamorare in un passato remoto ma anche, con meno enfasi, negli ultimi mesi. Il mio approccio alla musica non eleva la voce rispetto agli altri interpreti o meglio valuta in base al peso che la stessa ha all’interno delle canzoni e mi rende capace di apprezzare non solo e necessariamente tecnica e timbrica ma anche intensità emotiva, assonanza con il brano, rispetto degli obiettivi sostanziali ed emozionali. È questo modo di ascoltare che mi permette di seguire voci tanto distanti con la stessa gioia, con lo stesso entusiasmo, consapevole delle differenze di peso che le qualità canore dei diversi artisti possono avere nelle opere.
È per questo che riesco a sognare ascoltando Tim Buckley e piangere sotto le note sbilenche di Daniel Johnston; ed è per questo che non resto affascinato dai tre pezzi che compongono l’Ep Fluorescent Lights dei Midas Fall, che segue il secondo album Wilderness. Un lavoro che si presenta come Alt Post Progressive ma, nella realtà, si riduce a un esercizio di stile per i Midas Fall tutti e per la vocalist Elizabeth Heaton soprattutto. La musica non mostra alcuna variante rispetto alla proposta passata della band britannica, con qualche chitarra velatamente sferzante che si staglia su una sezione ritmica martellante e cenni di piano enfatici e il tutto si mette al servizio della voce della Heaton la quale certo non mancherà di trovare l’apprezzamento degli appassionati ma non entusiasma me per l’eccessiva banalità timbrica e una linearità e un’omologazione che non nobilitano le sue strofe rispetto a una qualsiasi interprete Pop, anche di casa nostra. Un Ep Rock come potrebbe esserlo quello di una cantante Pop italiana come Elisa, che si gioca il suo all in puntando quasi esclusivamente sulla voce ma torna a casa con le tasche vuote e qualche gadget di consolazione.
The Child of a Creek – The Earth Cries Blood
L’assolo di chitarra Hard Rock che apre questo The Earth Cries Blood, ammetto avermi suscitato le stesse reazioni che può evocare una spezia esotica, pungente e inaspettata che si appoggia alle papille mentre gusti un piatto che pensavi di conoscere in tutte le sue varianti. Un sapore sgradevole all’impatto, che non oseresti mai centellinare come elemento portante del tuo pasto ma che si rivela un contraltare efficace per dare corpo e vigore a quel piatto che hai assaporato centinaia di volte.
The Child of a Creek (letteralmente, Il Figlio di un Torrente) è il nome dietro al quale si cela Lorenzo Bracaloni, trentacinquenne Folk Singer multi strumentista toscano che ha esordito solo nel 2005 con l’album, interamente autoprodotto, Once Upon a Time the Light Through the Trees con il quale ha subito evidenziato alcune sue peculiarità. Fra tutte la capacità di impreziosire una musica estremamente semplice e lineare grazie all’uso di una strumentazione quanto più variegata e, talvolta, bizzarra se paragonata alle classicità del Rock, specie nostrano. Se appunto, nell’esordio, alle chitarre acustiche, elettriche e slide venivano affiancate armonica, flauto, organo, piano elettrico, timpano, rullanti e percussioni varie come scatole di legno e bottiglie di metallo, già nel secondo lavoro “Unicorns Still Make Me Feel Fine” si passava a nuovi strumenti come una piccola balalaika russa suonata a percussione, un piano a muro Steiner, una vecchia chitarra Folk e un bodhran del Nord Irlanda. E cosi è sempre stato, a mano a mano che The Child of a Creek passava da una label all’altra, da un palco all’altro, da un album e una compilation all’altra fino ad arrivare a quest’ultima fatica fortemente apocalittica, The Earth Cries Blood. Quasi quarantatré minuti nei quali emerge tutta la parte emozionale, spirituale della musica del cantautore; si evidenzia una necessità espressiva che suona come canto liberatorio che leghi l’uomo alla sua terra. Anche in questo caso è utilizzata una strumentazione variegata per rendere appieno le intenzioni dell’artista. Quindi, oltre alle ovvie chitarre acustiche ed elettriche, troveremo flauto, piano, piano elettrico, organo, arrangiamenti d’archi e sintetizzatori. Come detto, questo è presentato come il lavoro più autobiografico targato The Child of a Creek ed effettivamente, Lorenzo Bracaloni è riuscito perfettamente a rendere l’idea della fase tormentata della sua vita che ha fatto da contorno alla composizione dei brani, ma, nello stesso tempo, ha rilevato la comparazione con la sofferenza della terra, intesa come madre trascendente e mistica prima ancora che naturale.
Se l’elemento Folk e la strumentazione multiforme e mutevole sono lo scheletro di tutta l’opera, l’anima è certamente racchiusa nella vocalità che, già dalle prime battute (“Morning Comes”) ma anche in diversi momenti seguenti del disco (“Journeys of Solitude and Loss”), ricorda un certo Tim Buckley, con le ovvie distanze da prendersi soprattutto sotto l’aspetto prettamente tecnico. In realtà sono diversi i brani che racchiudono ben nascosti alcuni rimandi alle opere più Folk del geniale cantautore e sperimentatore di Washington, a volte solo in alcuni scorci vocali, altri in brevi cenni di chitarra classica. Altro fattore di notevole interesse solo gli elementi elettronici, i synth, il piano e tutta la strumentazione accessoria che sembra avvolgere gli undici brani, alcuni più (“Remembrances”, “My Will to Live”) altri meno, in una nebbia magica, inquietantemente rassicurante, più che dare sostanza alla musica evocata dalle chitarre classica ed elettrica. Quando l’atmosfera si fa più conturbante, il cantato più soffuso e le note più ammalianti The Earth Cries Blood si scioglie con efficacia nei cliché del Neofolk (“Leaving this Place”) dei grandi maestri (Current 93, Death in June, Nature And Organisation) avvicinando in parte più le atmosfere bucoliche e sognanti di Ataraxia che non le reminiscenze storiche degli Ianva! o la potenza espressiva degli Spiritual Front. Nella parte centrale troviamo i brani meno impegnativi, soprattutto sotto l’aspetto empatico, dove ritroviamo quegli assolo di chitarra di cui parlavo (“The Long Way Out”, “Birds on the Way Home”) che fatico ad apprezzare presi nella loro singolarità ma che, nel contesto, riesco a sopportare e quasi mi fanno risaltare nelle orecchie il resto dell’ascolto. L’ultima parte inizia con “Don’t Cry to the Moon”, pezzo che vede la stupenda partecipazione della britannica Andria Degens, eccelsa voce già autrice di alcuni album a nome Pantaleimon ma nota soprattutto per le sue collaborazioni con la fenomenale creatura Apocalyptic Folk di David Tibet chiamata appunto Current 93. Da questo momento inizia una fase in cui la musica pare gonfiarsi di speranza, acquista una discreta energia e si evolve in un Dream Pop leggiadro, più denso e carico di contenuti difformi. La chiusura con la title track è tra i passaggi più toccanti di tutto il disco; carico di passionalità, le note dei diversi strumenti utilizzati si alternano in una carnale danza che sembra quasi un atto sessuale tra la terra e la vita, un ultimo canto che come un pianto si fatica a capire se nasconde gioia o sangue e quel sangue si trasformi in vita o morte. Oltre tre minuti interamente strumentali che chiudono degnamente un album che nasce tra infinite difficoltà che vanno oltre quelle personali del suo autore. Trovare band o cantautori che riescano a suonare Neo Folk senza sfociare nella caricatura di loro stessi o dei pochi nomi che sono riusciti nell’impresa di emergere dalla massa oppure senza finire nelle ridicolaggini anacronistiche o nei richiami nostalgico/politici assurdi; scovare band che sappiano fare musica che si possa ascoltare con un certo interesse, non è cosa facile nel piccolo mondo del genere Neo Folk. The Child of a Creek è, dunque, più che una felice scoperta e passano in secondo piano alcuni limiti, come le melodie non sempre puntuali e accattivanti o l’eccessiva alternanza tra atmosfera ed energia che finisce per non lasciar trasparire con convinzione né l’una né l’altra. Un album gradevole e nulla più se immerso nelle immensità dell’oceano musicale internazionale ma che, nell’acquario della scena Neo Folk italiana (ma non solo), può ergersi come assoluto protagonista.
“Diamonds Vintage” Tim Buckley – Lorca
Poesia e delirio. Il quarto disco di questo immensamente geniale cantautore americano, figlio della fragilità e della solitudine profonda, è uno stato allucinatorio continuo di sommo brivido; Tim Buckley crea un clima scarno, al limite dello zen, scevro da ogni appiglio effettistico, crudo ed estasiato, un viaggio sonoro all’interno metafisco della coscienza per arrivare ad uno stato nirvanico sofferto, costipato. Prodotto da Herb Cohen, “Lorca” è dedicato al poeta spagnolo, musicato solo con una chitarra elettrica e una dodici corde acustica, un piano elettrico e sparute percussioni; l’artista si studia, guarda dentro di sé come in uno specchio, e indaga sulle sue inquietudini, incubi, scheletri, e lo fa con l’innocenza di un iniziato che va alla ricerca del proprio io, trasferendo nella voce il richiamo ancestrale della verità. Un disco proto-psichedelico verso i confini dell’auto-analisi, una prova personalissima per misurare la drammaticità della non-melodia in uno stato d’incoscienza, per soppesare l’Universo nella specificità di “conduttore primordiale” di gioia e amarezza. Diviso tra il male di vivere e la voglia di rinascere, Buckley con John Balkin, Underwood e Collins – la band che lo accompagna – fa della suggestione dolente il piatto forte di queste cinque tracce,che non concedono minimamente nessuna occasione di essere penetrate da spiragli mercantili o quanto meno da rotazioni di massa; tutto sa d’arcaica preveggenza di un futuro incerto e di un qualcosa che sarà interrotto. Il canto-vocalizzo di Buckley sonda l’angoscia filtrata attraverso il giro nero e ipnotico d’organo ossessionante Lorca, poi viene deglutito nelle salivazioni acide e acri dei deserti del vuoto e della solitudine Anonymous proposition; il senso di desolazione e di nullità è prepotente, beffardo e sardonico, ma un leggerissimo soffio di vitalità arriva con l’incoscienza di una mezza serenità umana di congas e melodia I had talk with my woman, si consolida teneramente nel soliloquio di chitarra svogliatamente blues in riva ad un mare – raffigurazione onirica della vastità di una vita dove potersi perdere per sempre rimane il solo espediente per sparire – Driftin’, fino ad arrivare all’esplosione-implosione di Nobody walkin’, in cui Buckley da vigore alle sue corde vocali in uno strepitoso poeticale gipsy impazzito, pezzo con il quale, il cantautore confonde totalmente la sua asetticità , il suo torpore drammaturgico, nascondendo – per poco – la sua vera disfatta interiore dietro un raggio di sole che non lo scalderà mai. Disco stupendo, basilare; qualcuno affermò che Buckley fu per il canto ciò che Coltrane fu per il sax, Hendrix per la chitarra e Cecil Taylor per il piano, e a questo punto, ogni parola in più è del tutto superflua.