Vivere a Milano comporta il dover convivere frequentemente con vedute nebbiose e giornate uggiose, tanto da maledire parecchi santi in paradiso e desiderare di emigrare verso sud. Teresa Mascianà invece a sud ci è nata e nella sua musica questo tratto è decisamente marcato e persistente. Il suo nuovo lavoro si chiama infatti Shine e racchiude nelle nove tracce, che lo compongono, tutta la luce e solarità della giovane cantautrice calabrese. Come la sua terra brulla e aspra e al contempo paradiso dalle acque cristalline quest’album offre sul piano musicale diversi pezzi interessanti e piacevoli come l’apripista “Have a Good Time”, molto happy Rock and Roll da giornata spensierata al mare, o il brano di chiusura “Carry me on” decisamente più intimistico e intenso nei suoni e vicino a tematiche più complesse come il suicidio. Alba e tramonto tutti in un disco con mezzo di tutto un po’, dallo scioglilingua eritreo direttamente da Asmara di “Gundo Senado” alla ballata Contry Pop “Melissa Knows”, che fa il verso agli esordi della giovanissima Taylor Swift, al brio frizzante della cassa che dona leggeri tocchi elettropop a “Away”. Se musicalmente Teresa e la band, che la segue fin dai suoi esordi i Donatori d’Organo, riescono a essere convincenti creando melodie orecchiabili, vivaci e accattivanti, ricche d’influenze molteplici dal Rock californiano alle sonorità africane, passando per il pop anglosassone, la parte testuale e vocale non fanno alttrettando un buon lavoro. Le nove tracce dell’album sono per il 90% cantate in inglese, ad eccezione del brano “Non Ci Penso Più”, e se non ci fosse stato questo brano probabilmente non mi sarei mai accorta della bella voce di Teresa, che nella translazione da italiano a inglese perde molto della sua corposità per risultare meno potente, a tratti stridente e nel complesso meno emozionante. Questa modalità di canto molto moderna nel gusto si perdono molte sfumature, che nel mondo del cantuatorato spesso fanno la differenza. Comprendo che l’inglese sia metricamente e musicalmente bello, comprensibile a un vasto pubblico, ma forse non è sempre la scelta ideale. Rimanendo sull’argomento “lingua” trovo che anche i testi vengano penalizzati dall’inglese in quanto non riescono a creare forti immagini e suggestioni, ma questa potrebbe anche essere semplicemente una scelta stilistica ed espressiva che predilige la semplicità e l’essenziale. La differenza tra un cantautore e cantastorie a mio avviso sta tutto nel peso delle parole semplici o complesse che siano. Il lavoro di Teresa è fresco, vivace ricco di spunti per tutta la parte musicale, ma un po’ zoppicante sui contenuti e sulle storie che raccontate, che non creano empatia e struggono l’animo. Un disco di mezzo che convince a metà, una buona capacità di scrittura musicale che ha bisogno di essere sostenuta da un migliore songwriting.