Si svolgerà a Torino il Seeyousound, il primo Festival in Italia completamente dedicato al cinema di genere musicale, nei giorni 14, 15, 16 e 17 maggio 2015 (in contemporanea al Salone Internazionale del Libro che si terrà presso il Lingotto Fiere negli stessi giorni). Il Festival sarà caratterizzato da una molteplicità di eventi, tutti correlati e connessi tra loro grazie ad un comune denominatore: la musica.
Conferenze, mostre, concerti, dj set ma soprattutto cinema, la sezione presente in maniera più corposa, per la quale sono previsti tre concorsi relativi alle categorie lungometraggi (LONG PLAY), cortometraggi (7-INCH) e videoclip (SOUNDIES).
Non Voglio che Clara @Blah Blah, Torino, 14/02/2015
14 febbraio 2015: la finale del Festival di Sanremo e la festa di San Valentino, lo stesso giorno. Forse non si è mai verificato un conflitto di interessi di tale portata nell’intera storia dell’umanità, di sabato sera poi. La decisione è dura, il dilemma è forte: rimanere col culo attaccato ad un divano rischiando la vita per eccesso di lercio televisivo, o rischiarla sulla sedia di un ristorante “très chic” per una rara forma di diabete da smancerie tra innamorati? Siccome non riusciamo proprio a prendere una decisione di fronte alle suddette allettanti proposte, e non siamo nemmeno troppo in vena di morire, ce ne andiamo al concerto dei Non Voglio che Clara. La formazione veneta propone stasera un concerto in chiave acustica, e si presenta sul palco munita di due tastiere ed un posto centrale destinato al musicista che impugnerà una chitarra. Dettaglio non da poco, questo, perché ogni membro della band cambierà spesso il proprio ruolo sul palco, fermo restando che la voce principale sarà sempre quella di Fabio De Min. Grandi assenti, dunque, la batteria e le percussioni in genere, cosa che contribuirà a creare un’atmosfera intima e raccolta; con l’aiuto di qualche birra quest’atmosfera che mira all’introspezione ci aiuterà ad assaporare meglio le liriche e ad adagiare i pensieri sulle linee armoniche. A smorzare un po’ i toni, evitandoci di inciampare in qualche trip mentale, ci pensa lo stesso Fabio, che introduce ogni brano con degli ironici aneddoti di vita vissuta veneta. L’intero pubblico sembra essere entrato appieno nel mood del concerto; durante “Le Mogli” noto che in molti accennano a un labiale evitando di invadere il campo con la propria voce. Gli unici soggetti fuori posto sono i due stronzi che ho accanto, i soli che continuano ad intrattenersi a vicenda con inutili chiacchierette sul fuorigioco di non so chi. I brani eseguiti sono tratti dall’intero repertorio discografico della band; si spazia dunque da Hotel Tivoli a L’Amore fin che Dura, senza tralasciare Dei Cani e l’omonimo album Non Voglio che Clara. Grande assente, per quel che mi riguarda, “La Mareggiata del ‘66” (bisognerà pur trovare una scusa per non perdersi un altro live dei Non Voglio che Clara, no?). Grandi musicisti sul palco e personaggi di gran simpatia e compagnia sotto il palco. La serata finisce tra belle risate, dimenticando chi siano San Valentino e Sanremo. Credo che nessuno ne abbia sentito la mancanza. Meglio così.
. Le foto ed il video per questo live report sono state gentilmente offerte da NienteFluorescente.
Al solo pronunciare la parola “Alaska”, la mia immaginazione produce visioni che hanno a che fare con paesaggi glaciali ed ameni, terre brulle e vette alte, freddo, ghiaccio, ma anche silenzio e luoghi di quiete. L’Alaska dei Fast Animals and Slow Kids, nella sua versione live, è invece tutta un’altra storia. Sarà anche ghiaccio quello che esce dalle loro chitarre, ma è ghiaccio che scotta, e ben lo confermano i cuori incendiati che se la sono data di santa ragione sotto il palco scatenando il delirio. Merito di chitarre, batteria, percussioni aggiuntive, basso, e del frontman Aimone Romizi, instancabile campione di salto sul pubblico.
Sono state due ore di mani e piedi in aria, di individui volanti, capitati sul palco per caso ed arrivati chissà da dove, improvvisatori di salto sul pubblico anche loro, mentre i FASK continuavano la loro performance, aggiungendo casino al casino e suonando, oltre ad Alaska, alcuni pezzi tratti da Hybris (“A Cosa ci Serve”, “Maria Antonietta”, “Troia”) e Cavalli (“Copernico”).
A chiusura di tutto, sono queste le serate che danno risposta agli enormi quesiti che ci attanagliano nel corso della nostra esistenza. E la risposta è che non esiste una risposta. Le cose accadono e basta, il perché sono tutte cazzate. Le cose accadono e ci siamo noi, piccoli o grandi a seconda dei giorni, a doverle affrontare. A volte ne usciamo campioni, a volte ne usciamo presi a calci in culo. Tutto sta nel come affrontare tutto. E se dovesse capitarti l’assurda domanda: “qual è il senso di tutto”, stai tranquillo che non esiste un senso. Esistono però momenti, o giorni (a seconda della botta di culo che ti capita), in cui qualcosa dentro di te si muove, qualcosa ai limiti della rabbia e a confine con la gioia. Che sia odio o che sia amore chi se ne frega. Se qualcosa si muove vuol dire che sei vivo, e finché sei vivo sei sempre in tempo a cambiare musica. Nessuna esistenza è sprecata se hai ascoltato la musica giusta.
Era di certo uno degli eventi musicali più attesi il mini-tour degli Swansdi Michael Gira e lo dimostra il sold-out al circolo degli artisti di Roma. A Torino il concerto si è tenuto al’Hiroshima Mon Amour, il 9 ottobre. Alle dieci e mezza, puntuale, comincia lo show. Gli Swans si palesano in tutta la loro grandezza con due ore e mezza di concerto interrotto solo da brevissime pause. Due ore e mezza di inquietudine e violenza emotiva, di fronte alle quali non tutti riescono a resistere; c’è chi sente la necessità di assumere dosi massicce di caffeina, chi si lascia tentare dall’annuncio di Michael Gira circa l’imminente fine del concerto e lascia prematuramente il campo di battaglia, senza sapere che il live sarebbe durato ancora una buona mezz’ora. Anche Cristiano Godano (o il suo sosia n.1, nel caso avessi preso un abbaglio) ad un certo punto si dissolve varcando l’uscita prima della fine.
Un concerto che ha messo a dura prova in molti, tranne loro, gli Swans, che dopo più di due ore di ritmi serrati si sono schierati davanti al pubblico con una nonchalance degna di nota; hanno ringraziato, senza mostrare cenni di stanchezza o cedimento, con addosso addirittura la voglia di scherzare, quando Gira per la presentazione della band conferisce ad ognuno un nome italiano, di un musicista o del tutto anonimo, riservando per sé stesso quello di Cicciolina.
Ma tralasciamo gli aspetti di contorno, e concentriamoci sulla musica di questi “Cigni” selvatici, più neri che bianchi, dai toni scuri e oscuri, autori di una musica ricca di tormento, capace di rimanere ferma, immobile, costante, ossessiva per un lungo periodo, per poi esplodere all’improvviso (si pensi che solo l’introduzione del concerto dura più di dieci minuti, prima che la band al completo si manifesti sul palco). E quando parlo di esplosioni, parlo di momenti in cui tutto si accentua e diventa estremo (penso soprattutto al ritmo incalzante della doppia batteria), pur mantenendo un inspiegabile equilibrio tra le parti. I momenti di deflagrazione sono anche quelli in cui Gira accenna una sorta di danza, con movimenti delle braccia che ricordano proprio quelli di un cigno.
Un’esibizione che richiede una certa dose di preparazione psicologica e concentrazione per l’ascolto (gli occhi di Michael Gira ne sono l’emblema, restano chiusi per la maggior parte del tempo), alla quale in molti non erano preparati. Un concerto, però, non è certo un corso di preparazione all’ascolto; un concerto è il momento più vero e reale per addentrarsi nel mondo di un artista, per capire quanto sia autentico e vicino nella realtà all’idea che trasmette di sé, nonché la prova del nove per le nostre sensazioni ed emozioni che si evidenziano durante l’ascolto digitale. E dopo questo spettacolo non c’è più niente da fare, se non affermare che gli Swans sono stati sé stessi, dall’inizio alla fine.
Band scozzese giovanissima, dal nome Indie che più Indie non si può e con due dischi all’attivo senza infamia e senza lode. Ora i cinque ragazzetti (che oltre ad essere terribilmente Indie presentano dei volti terribilmente anglosassoni) approdano nel piccolo Spazio 211 di Torino per presentare il loro terzo lavoro in studio, che pare finalmente dare arie meno radicate al comodo suolo del frenetico Alternative Rock britannico. Alcuni miei amici sostengono che i We Were Promised Jetpacks abbiamo un live set killer. E questo non è l’unico motivo che mi spinge a muovere il culo dal divano il giovedì sera, ma ci si mette anche Daniele Celona che prepara le danze in apertura del concerto. Il cantautore torinese rimane uno dei miei preferiti di questi tempi, anche con uno scarno set acustico da solo, ammalia i presenti con la sua poesia Rock. Dolcezza, timidezza e pennate violente sulla sua chitarra acustica riempiono l’aria di forti emozioni. E allora oltre a nuovi brani (che vedranno la luce a breve nel suo nuovo disco) sentiamo anche le bellissime perle “Millecolori” e “Acqua” che, anche senza la potenza delle valvole e dei colpi di batteria, dimostrano di essere pura perfezione cantautorale. E’ proprio vero che una bella canzone rimane tale anche quando è scorporata di tutti i suoi fasti e ornamenti. Alle 23 circa salgono sul palco i WWPJ (com’è Indie chiamarli così!), poche luci ma ben assestate e le atmosfere della opener del nuovo disco. “Safety In Numbers” parte sottile, con la voce di Adam Thompson che scandisce bene i beat. Le tre chitarre crescono e la puzza di umido e di sudore sale, pare arrivare diretta da un becero garage di Camden Town. I cinque suonano più inglesi che mai e hanno una pacca di rara intensità. Poche fighetterie insomma e colpi ben scanditi a colpire in faccia il centinaio di persone davanti a loro. A seguire ancora un brano nuovo. “Night Terror” si propone con tanto di violenza sul rullante e basso superdistorto e ci manda un po’ al di la dell’Oceano, echi di The Strokes e The Killers. Subito dopo arriva la sicurezza di “Quite Little Voices”, bruciata già al terzo pezzo, con quegli incastri ritmici così storti e poi un treno dritto che pare avere la losca intenzione di riesumare sua maestà Ian Curtis. Spazio 211 si scalda definitivamente, ma la band non fa una piega, continua imperterrita a macinare groove nervoso con “Roll Up Your Sleves” fino all’arrivo di un’altra nuova gemma. “Disconnetting” ha sapore Trip-Hop e la voce di Thompson e il rullante di Darren Lackie si sposano benissimo alla cupa danza. L’assolo di chitarra poi è un viaggio intergalattico, poche frenetiche note in spazia aperti, senza confini. Proprio vero che questo nuovo album “Unravelling” riserva succose novità, come la seguente “Moral Compass”, scura, gutturale e con un ritornello epico e teatrale. I coretti lievemente Coldplay, spezzati dal solito intrecciarsi di ritmiche schizofreniche in “Keeping Warm”, ci accompagnano verso la fine del set breve ma intenso, carico di adrenalina e di chitarre composte ma sudate. Non si può dire che questa band presenti delle hit stellari, ma ha dalla sua un meccanismo ben congegnato e soprattutto ben focalizzato sul risultato live che, inutile girarci attorno, è raggiunto in piena regola. Altra dimostrazione è la New Wave dei primissimi U2tirata al Noise più incazzato in “It’s Thunder And it’s Lightnening”. L’ultimo brano è a sorpresa una novità, “Peace of Mind” ci abbandona cadenzata, per nulla scontata, processione elettrica verso una luce artificiale. Verso un suono che non è per nulla leggendario, e non vuole neppure esserlo. Ma arriva lo stesso forte e chiaro, come un fascio laser ben mirato sulla nostra testa. Pronto a sparare, ci lascia coi nervi tutti ben tesi.
Torna il festival Hai Paura del Buio?, che l’anno scorso ha registrato il sold out nelle tre date di Torino, Roma e Milano: un evento capace di intrecciare l’estetica di una rassegna alla collaborazione e allo scambio di esperienze tra gli artisti coinvolti. Un festival all’interno del quale il pubblico assiste a performance uniche, muovendosi tra spazi, arti e registri diversi, facendosi “contaminare” dalla cultura. Il festival, ideato da Manuel Agnelli, quest’anno farà tappa il 4 ottobre a L’Aquila, in data unica, grazie all’impegno dell’associazione culturale Keep On. La scelta della città abruzzese non è casuale. Dopo la ferita del terremoto del 2009, L’Aquila è oggi il simbolo di quel “buio” che si può e si deve superare anche attraverso la cultura. Già nel maggio 2012 gli Afterhours, insieme a Il Teatro degli Orrori, diedero vita al primo grande appuntamento musicale dopo il terremoto. In quella circostanza venne chiesto a gran voce dalla cittadinanza e dalle istituzioni di non lasciare quell’episodio isolato ma di dargli seguito e contribuire così alla rinascita del tessuto sociale, in particolar modo quello giovanile, del capoluogo abruzzese. Anche per questa ragione si è lavorato a lungo con il sindaco e le istituzioni locali intorno all’ipotesi di far svolgere il festival nell’area del Set Action & Stage, giovane e coraggiosa realtà locale affiliata al circuito nazionale dei club riferito a Keep On. La sostenibilità di un festival gratuito come Hai Paura del Buio? è affidata in parte al Comune, che ha messo a disposizione le infrastrutture, in parte a una rete di sponsor privati e di giovani imprenditori locali che ha consentito di sostenere gli impegni economici, e per finire è resa possibile dalla disponibilità di tutti gli artisti coinvolti, che andranno in scena in cambio di un minimo rimborso.
Oltre alla partecipazione di Manuel Agnelli con i suoi Afterhours, l’edizione 2014 vedrà alternarsi sul palco: Antonio Rezza e Flavia Mastrella (performance teatrale) Piero Pelù (concerto) Paolo Giordano con Plus (Minus&Plus) (reading) Bachi da Pietra(concerto) Versus – Cristiano Carotti VS Desiderio (performance dj e vj set) Valentina Chiappini (performance) Diodato (concerto) Enrico “Der Maurer” Gabrielli + Sebastiano De Gennaro (musica contemporanea e attitudine punk) Ghemon (hip hop) Le Indiesponenti (dj set) Graziano Staino (video-arte) Isabella Staino (installazione pittorica) Luminal(concerto) Nebulae (danza) Ura (concerto)
RUGHE SPORCHE THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO
Una domenica come molte altre, forse addirittura più anonima di tante altre. Con un cielo diviso a metà tra il blu della spensieratezza pre-estiva e orrende nuvole nere incombenti. Per sconfiggere l’apatia di questa modesta giornata cerco come molte altre volte rifugio nel Rock’N’Roll, antica medicina che per fortuna su di me continua a fare un certo effetto benefico. A questo giro di antico non c’è solo l’antidoto. Scorgo infatti con piacere che a Spazio 211 – Torino celebrano i loro 50 anni The Pretty Things, storico gruppo inglese capitanato da Dick Taylor, membro fondatore dei The Rolling Stones. Si parla del 1963, l’anagrafe non può mentire. C’è da dire che ultimamente sono parecchio avverso ai gruppi di ultra sessantenni. Penso che la pensione serva anche nel Rock, a volte la passione non basta ad attenuare gli acciacchi del tempo. E molte band di dinosauri si sono palesate ai miei occhi come lente macchine arrugginite, ancora appese agli esagerati fasti del passato. Esagerati per essere comodamente gestiti col tempo.
Alle ore 22 arrivo al locale e, nonostante delle vere e proprie leggende (negli anni ‘70 Mister David Bowie suonava le loro cover!) siano in città, il locale è semi deserto. Un po’ me lo aspettavo, un po’ forse Torino, che tanti pregi ha musicalmente parlando ma non ha mai avuto lo strato ruvido del Blues marcio sull’asfalto dei suoi viali. Ci si potrebbe aspettare per questo uno show un po’ anemico, apatico come questa domenica. Immagino che arrivare con 50 anni di band alle spalle e trovarsi un locale con sessanta persone dentro, per giunta a 2000 km di distanza da casa tua, potrebbe portarti all’apatia, alla freddezza, all’odio verso la passione che ti ha spaccato la schiena in decenni di furgone. E questo credo capiterebbe qualsiasi sia il tuo passato, figuriamoci cosa capita a chi ha militato in gruppo con Mick Jagger e Keith Richards.
Alle 22.30 però The Pretty Things attaccano e tutte le cazzate che mi ronzavano per la testa vengono spazzate via dal muro del suono. Chitarre marce suonate da Dick, occhialuto e ricurvo su se stesso, e da Frank Holland, un altro attempato volpone, ricciolone e dallo stile Proto Punk. Basso e batteria da manuale del rock anni ’60, sebbene siano gestite da due pischelli. E poi la voce di Phil May, direttamente presa in prestito dagli inferi. Il diavolo invecchia ma mantiene charm inglese. Stile incredibile, viscerale. La macchina del tempo funziona alla grande, si sente lo sporco, le budella che si agitano, si sentono i tempi in cui la musica era una ragione di vita.
La magia scatta con il viaggio di “S.F. Sorrow is Born” (il disco S.F. Sorrow pare sia la prima opera rock che ispirò The Who a scrivere “Tommy”), psichedelia e aridi deserti, con quella sezione ritmica giovane che rende tutto così attuale e tangibile. L’incantesimo non si interrompe neanche quando sul palco rimangono solo Phil e Dick, come due vecchi amici (lo sono e si vede) jammano su vari standard Blues in duo acustico. Dick Taylor pare muovere goffamente le dita ingiallite e scheletriche ma in realtà con il suo slide riempie la sala di pathos e ci riporta davanti Robert Johson e tutte le sue diavolerie. Questa band è incredibilmente viva nonostante suoni musica vetusta. Ha la passione, la forza e la voglia ancora di stupire. Niente da dire, mi sono convinto. Questo gruppo è molto più gruppo di quanto siano The Rolling Stones degli ultimi 30 anni. Ma la chiudo qua perché il paragone è banale e forse pure fuori luogo.
Il finale dello show, che personalmente è anche una lezione di musica (ma oserei dire pure di vita), è affidato ad un omaggio a Bo Diddley, oltre che a loro classici come “Midnight to Six Man” e la conclusiva “L.S.D.” con tanto di citazione a “Lucy in The Sky With Diamonds”. Concerto corto, un’ora e mezza di pura energia e di sogni. Un’amalgama perfetta e un sorriso stampato sui loro stanchi volti che non si arrendono.
Nel finale esco a fumare una sigaretta con alcuni amici, passa proprio Phil May con una crostata alle ciliege in mano mentre i più giovani caricano lo scassato furgone che pare essere pure lui sudato marcio sebbene sia parcheggiato in una Torino non troppo caliente. Noi ci guardiamo e vediamo li a un metro da noi questo anziano, dall’aspetto rude, con capelli semilunghi ma mezzo calvo, che nonostante il sudore e i segni del tempo tenuti alla luce del sole, conserva la sua estrema eleganza. Guarda fuori, con una crostata in mano. Mi avvicino e gli dico solo: “great”. E’ l’unica parola che mi sento di dire. Lui mi guarda e mi da una pacca sulla spalla, gli scappa un “thanks a lot” e dopo un sorriso vero, umano. Mannaggia mi aspettavo dal Rock’N’Roll solo un po’ di brio per sotterrare questa triste domenica, invece questo infame si è dimostrato di nuovo più grande di quello che potessi immaginare.
SABATO 10 maggio 2014
OPEN h 21.00 // INGRESSO 10 €
EL BARRIO – Strada Provinciale di Cuorgne’ 81, Torino
Gli Xiu Xiu sono il condotto per la personalissimia musica senza compromessi del polistrumentista losangelino Jamie Stewart, con l’aggiunta di una serie di collaboratori, sia per la versione da studio, sia per quella da palco, la più recente dei quali è Angela Seo. L’ultimo album degli Xiu Xiu, Angel Guts: Red Classroom, uscito a febbraio del 2014, è di nuovo un deviazione, un passo deciso dentro il vuoto. Un saggio sul violento quartiere governato dalla Santa Muerte MacArthur Park di Los Angeles dove la band vive e registra, la sua musica. È un brodo ribollente di drum machine, elettroniche e lirismi laceranti partoriti nella singolare cantilena accovacciata di Stewart. Fermentato come tributo agli Einstürzende Neubauten, Suicide, Nico e ai Krawfwerk nel loro lato più sperimentale, a volte qui gli Xiu Xiu sembrano una nociva alleanza tra il recente Scott Walker ed alcune crepuscolari bizzarrie dei Blackest Ever Black.
Hanno vinto l’ultima edizione del nostro Contest AltrocheSanRemo, gli Aut In Vertigo ci parlano delle loro esperienze artistiche, della musica Rock e della pasta scotta. In Italia non abbiamo la cultura per i live come nel resto del mondo.
Vincitori del nostro super testato Contest AltroCheSanremo. Gli Aut in Vertigo, a questo punto sono obbligate le presentazioni, ci parlate di voi?
Siamo una band piemontese, della provincia di Torino, nata nel 2004. Evoluzioni e cambi di formazione ci hanno portato dal 2012 alla line-up che oggi potete conoscere. Suoniamo per raccontare quello che viviamo, cosa sentiamo e cosa pensiamo; per divertire e per divertirci, per condividere con il pubblico il nostro modo di vedere il mondo.
Adesso vogliamo conoscere anche tutto quello che avete fatto fino a questo momento della vostra vita artistica…
Come abbiamo detto, nel 2004, siamo nati da un progetto condiviso sui banchi di scuola, per poi raccattare amici e conoscenti con una visione comune del mondo e della musica. Abbiamo iniziato a suonare, dal piccolo e poi sempre più in alto, e nel 2007 abbiamo inciso il primo lavoro, Welcome. Abbiamo partecipato a diversi contest, come Emergenza, TourMusicFest, Torino Sotterranea, e così via, che ci hanno permesso di conoscere molte altre band e suonare su palchi d’eccezione. Nel 2012 abbiamo cambiato formazione, e con i nuovi musicisti la band ha dato una vera e propria accelerata. Ecco che nel 2013 è uscito iI nostro disco In Bilico, che riassume parte del lavoro fatto negli anni, e parte della nuova spinta verso il futuro.
Stiamo parlando di una band emergente e soprattutto indipendente, trovate difficolta nell’inserirvi nell’ambiente musicale italiano?
Sì, se parliamo di palchi istituzionali. Suonare in giro non è difficile, ma è difficile farsi considerare, soprattutto se la musica proposta non è immediata o di moda, difficile entrare nelle reti di locali dove suonare, se non hai già un giro, che purtroppo non si crea solo sapendo suonare bene. Spesso e volentieri ci troviamo di fronte alla valorizzazione di band con scarso valore artistico-musicale ma molto “appariscenti”, con i quali sembra che i “ganci” siano più importanti della musica.
Pensate che gli altri artisti nel resto del mondo vivano le stesse vostre difficoltà? Perché?
Non lo sappiamo. Altre band amiche che hanno fatto tour in USA o in nord Europa ci raccontano che lì la cultura del live è diversa, che c’è attenzione e considerazione anche per le band emergenti, e soprattutto ascolto del prodotto che stai proponendo. Continuiamo a sperare che questo modo di vivere e ascoltare la musica arrivi anche qui…
Com’è il vostro rapporto con i locali (o gestori) per quanto riguarda la possibilità di esibirvi? Raccontateci anche qualche particolare situazione in cui vi siete trovati.
Il rapporto è difficile, nei locali medio/grandi è possibile suonare solo con i contest. Meno male che ci sono, ma è un po’ frustrante essere valutati solo per il numero di persone che si portano, che pagano o che consumano. La maggior parte dei locali non rispondono nemmeno alle mail, e anche questo rende tutto più complicato. Detto questo, ci sono anche gestori attenti, che ti danno la possibilità di suonare senza troppe storie e senza tirarsela tanto. Se vuoi un aneddoto, una volta, in centro a Torino, ci siamo montati completamente il palco, dalle spie, alle luci, al setting (della serie: arrivare concentrati al live) attaccato con cura tutto alla ciabatta e dopo due ore che nessuno del locale ci considerava abbiamo scoperto che il mixer non esisteva. Capisci? Questa ti sembra “cultura del live”? O anche solo professionalità? A noi no. Per fortuna il nostro pubblico è superbo, ripaga ogni sforzo, e non c’è serata in cui non ci sentiamo arricchiti dalle persone che ballano, ascoltano, criticano e condividono le nostre fatiche. Ecco, se dobbiamo dirla tutta il grazie più grande va a loro, non ai locali, né ai contest, ma alla gente che col sorriso ti accompagna e ti solleva in modo costruttivo.
Pensate sia giusto ricevere un cachet anche da perfetti sconosciuti? E non parlo del vostro caso ma in generale. Dove entrambe le cose non fossero possibili, meglio suonare tanto e gratis (o quasi) oppure suonare poco ma ben remunerati?
Pensiamo che sia meglio suonare tanto, giustamente remunerati. Sono molte le ore che una band come la nostra trascorre a pensare, progettare, allenare e perfezionare lo spettacolo, così come sono molti i fondi investiti, i km fatti, il tempo sottratto al lavoro che ci sfama. Dunque suonare e almeno non perderci i soldi investiti per raggiungere il palco, o per affittare la strumentazione mancante, ci sembra il minimo. Suonare tanto, anche aggratis, è indispensabile per farsi le ossa e l’esperienza, ma fino ad un certo punto e fino a un certo livello: se una band muove anche solo un centinaio di persone e intrattiene per un ora e mezza, beh, una birra e una pasta scotta non bastano più.
Tralasciando i contest on line, trovate che quelli più popolari e dove si suona dal vivo siano utili per una band emergente? Vi faccio qualche esempio, Arezzo Wave, Marte Live etc…
Utilissimi. Come dicevamo prima, grazie ai contest abbiamo raggiunto palchi difficili da raggiungere per una band emergente. Per chi è di Torino parliamo dell’Hiroshima, delle Lavanderie Ramone, le Officine Corsare o i Giancarlo ai Murazzi. Inoltre si conoscono e incontrano altri musicisti e altre band, e questo è sempre arricchente. Trovando dei limiti, da musicisti, a volte sembra poca l’attenzione verso la proposta musicale: non è sufficiente ascoltare due pezzi su youtube per capire qual è la ricerca di una band; se si organizza bisognerebbe avere la pazienza di scendere nel dettaglio, sebbene implichi tempo e denaro ma è il prezzo per fare un lavoro di qualità e migliorare la proposta artistica nazionale. Altro problema, molto più concreto è al solito il chiedere a chi ti segue di pagare la tessera associativa di turno, l’ingresso, ecc ecc. Certo, la colpa non è solo di chi organizza, ma anche la mancanza di politiche adeguate a finanziare le attività giovanili in generale, tra cui la musica live.
Avete mai avuto a che fare o solo sentito parlare degli uffici stampa? Cosa pensate? Una band precedentemente intervistata si lamentava dei prezzi, voi come vedete queste realtà ormai fondamentali per farsi conoscere?
Sì, conosciamo il mondo degli uffici stampa. Con l’uscita del nostro disco In Bilico, abbiamo deciso di fare questo investimento. Il punto è che la promozione e la diffusione delle informazioni sono importantissimi, ed è necessario farli per valorizzare il lavoro che hai fatto: abbiamo imparato che bisogna starci dietro quotidianamente per avere dei risultati, e se non può farlo il musicista in prima persona, deve farlo qualcun altro. Ci siamo avvalsi di Rosina Bonino, ufficio stampa di Fratelli di Soledad, DotVibes, Invers, Dagomago e molti altri, e con la sua professionalità e esperienza, ci siamo trovati davvero bene. Affidarti a dei professionisti che si occupano di questi aspetti, ti permette di concentrarti ancora di più sulla musica e sugli spettacoli live.
Esiste ancora la possibilità che un gruppo come voi riesca ad emergere con le proprie forze?
Beh, è quello che speriamo. In ogni caso crediamo che suonando tanto, dando il meglio di sé, e avendo qualcosa di originale da proporre, le possibilità ci siano per tutti.
Perché qualcuno dovrebbe ascoltarvi?
Perché ama il Rock, ama i testi in italiano, ed è stufo di sentir dire che il Rock nel nostro Paese è in mano a pochi famosi artisti. Tutte le nuove proposte mainstream in Italia escono da reality show, ora, ma secondo noi la musica non è spettacolarizzazione della vita, è una cosa seria che richiede fatica, lavoro e studio. La musica può trovare mille vie per uscire fuori ma deve avere le possibilità per essere valorizzata, non vuol dire per forza diventare milionari, ma aspirare al riconoscimento di un lavoro che ha valore. La gente potrebbe ascoltarci perché il nostro è un prodotto sincero, che racconta delle storie nelle quali riconoscersi, che veicola sentimenti comuni, perché ha voglia di scoprire storie nuove, ambientate nelle nostre città, e perché ha voglia di venire sommerso dalla nostra energia dal palco.
Cosa riserva il futuro per voi? State preparando qualcosa?
Stiamo continuando a portare in giro i brani dell’ultimo disco, e nel frattempo stiamo scrivendo pezzi nuovi. Stiamo preparando due videoclip e pensando a un nuovo lavoro discografico.
In questo spazio potete dire tutto quello che volete e che non vi è stato chiesto e fare pubblicità alla vostra band.
Beh sicuramente vogliamo ringraziare Riccardo e lo Staff di Rockambula per questa occasione, oltre a quella del simpatico contest AltrocheSanremo. Tutti i fans che leggeranno e le persone nuove che vorranno cliccare “mi piace” sulla pagina Fb www.facebook.com/autinvertigo . Aut In Vertigo è un modo bello di fare musica, ascoltare, condividere, fare strada insieme. Aggiungetevi alla cumpa, non ve ne pentirete.
Da quando il chitarrista solista della mia band, nonché compagno di liceo, mi passò ormai molti anni fa una cassetta con sopra scritto Joe Satriani pronunciandomelo come un Dio sceso in terra, il mio rapporto con il Rock strumentale ha subito avuto un rapporto difficoltoso. Virtuosismi a parte, il fastidio di non ritrovare parole e melodie vocali in un brano di 5 minuti scatenava in me noia e una leggera incazzatura nel riconoscere grandi riff sprecati in assoli che, benchè orecchiabili, risultavano di esagerata lunghezza. Facile dire che gli strumenti parlano il loro linguaggio. Io sono onesto con me stesso e mi tengo le mie tare mentali. E con questi pregiudizi attacco la recensione dei miei concittadini Ronny Taylor. La band nasce nel 2010 a Torino in mezzo ad altre realtà della zona (i ragazzi hanno militato in Oh No Its Pok, Into My Plastic Bones) che portano a mischiare sonorità e un bordello sempre sapientemente ammaestrato. Sprazzi di Funky, riff Heavy Metal vecchio stampo, synth e tastiere che aprono universi paralleli. Indubbiamente anche un cervello limitato come il mio non può che riconoscere già da subito una potenza inaudita in questo quartetto.
Copiano la copertina di Songs For the Deaf dei Queens of the Stone Age e jammano come dei dannati in questa mezz’ora di musica pura e cruda che è il loro primo vero lavoro in studio: Dateci i Soldi. L’intro dal sapore demenziale introduce al Rock duro di “Power Rangers”. Il basso simula uno spietato senso di vertigine mentre la chitarra macina licks e assolazzi (anche questi molto orecchiabili) senza mai scadere nella trappola del tecnicismo. Il perfetto incastro degli strumenti si ripete in “1945”. Le atmosfere si dilatano in un perfetto viaggio che nulla ha da invidiare agli anni d’oro del Progressive. Stortissima è invece “Clouds” con in mezzo anche un piccolo pseudo-rap che fitta benissimo con le ritmiche serrate dell’instancabile Mario Rossi. Non mancano ironia, fantasia e (senza farne abuso) tecnica. Sopra tutto però sta una nutrita dose di follia che porta a scrivere un brano come “My Chemical Orecchioni”. La follia non si ferma al bizzarro titolo ma fa sfociare un giro di basso funkeggiante in un assolo di tastiere che ricorda il compianto John Lord e le sue magie tra Classica e Blues. Per chiuedere il pezzo in bellezza, la chitarra di Giuseppe Franco si infila con un epico assolo. No, la mia tara rimane sconfitta. Siamo al sesto brano e la noia qui non riesco proprio a percepirla. Forse perché questa è una vera band e sa suonare live, anche su disco. Senza scadere in artefatti o in produzioni esagerate, solo quattro ragazzi bravissimi col loro strumento che suonano ore e ore in sala prove e escono con pezzi che li fanno divertire e che divertono (stranamente) pure l’ascoltatore in questione. Sinceramente, date le mie tragiche premesse, non potevo proprio aspettarmi di meglio.
Il venerdì notte è la mia notte. È un momento carico di una strana euforia, di una stanchezza che ubriaca, di un’energia potenziale che dilata il tempo e gli conferisce un aspetto simile all’eternità. È venerdì notte, e tutto può accadere. Vi starete chiedendo se siete stati catapultati improvvisamente alla Sagra delle Banalità, dato che questo pensiero accomuna buona parte della popolazione planetaria ed è già stato ampiamente espresso, anche in maniera più eccelsa, da altri prima di me (un certo Robert Smith ad esempio, nei suoi momenti di rara esaltazione, cantava “Friday I’m in Love”). Ma cosa che volete che vi dica? A me basta così poco per essere felice stasera, un bicchiere di vino con un panino, ed un concerto di Anna Calvi. L’Hiroshima Mon Amour è stranamente calmo e poco affollato all’esterno; il pubblico è già tutto all’interno, tranquillo, in attesa, C’è ancora il tempo per tutto: una birretta al bancone, due chiacchiere per riassumere le sfighe della settimana appena trascorsa e due chiacchiere per anticipare quelle della settimana che verrà, commenti di varia natura su questi bicchieri di birra che hanno drasticamente ridotto la loro capacità pur avendo lasciato inalterato il prezzo, discorsi vari ed eventuali. Poi si guarda l’ora, ed è meglio avvicinarsi al palco, perché tra un po’ le danze avranno inizio, e così succede. Anna Calvi arriva e sembra uscita da una foto, una di quelle che compaiono quando si digita il suo nome su Google: stessi capelli color miele, stessa acconciatura, stesso rossetto (rosso), stesso colore (rosso) per la maglia, stesso look per farla breve. Dal vivo sembra piccola, una Lolita pura nelle espressioni ma accattivante se le metti una chitarra in mano. Invece ha trentatré anni. Penso che ho ancora tre anni di tempo fare qualcosa di buono nella vita.
Il pubblico accorso all’evento è un pubblico sensibile e colto; lo si capisce dal fatto che davvero in pochi, pochissimi, hanno il coraggio di sfoderare gli Smartphone per improvvisarsi fotografi delle migliori riviste di musica. Tra i non colti vince il primo premio colei che, presa da un raptus feroce di intelligenza, mi chiede: “Ma si può fumave qui dentvo?” (Ha pure la “r” moscia, cosa volete da me?). L’animale che mi porto dentro avrebbe voluto rispondere “Cogliona. Sono anni che in Italia non si fuma nei locali, e poi, ti sembra che qualcuno stia fumando qui dentro? Non ti accorgi che quella nebbiolina che vedi in controluce sul palco altro non è che un effetto scenico ormai in uso (e in disuso) da diverso tempo?”. Tuttavia mi volto lentamente con uno sguardo che chi era con me ha definito da madre incazzata, misuro l’ampiezza cerebrale della mia interlocutrice, e decido di limitare al minimo il mio consumo di energie rispondendo: “Non credo proprio…”. “Peccato” mi dice. È inutile, non ha proprio speranza. Ritornando al pubblico, trovo che sia anche molto eterogeneo: giovani, meno giovani, adolescenti, rockettari incalliti ed attempati con segni di calvizie in stato avanzato, uomini serrati in maglioncini Tommy Hilfiger con tanto di camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, madri di famiglia forse in cerca delle figlie scappate di casa per l’ennesima volta, hipsteromani che invece non cerca nessuno; di tutto di più insomma.
Una volta sul palco Anna mette subito le cose in chiaro: in questo concerto si darà spazio nient’altro che alla musica. Pronuncia poche, pochissime parole, rigorosamente in inglese (anche se da una che si chiama Anna Calvi almeno un grazie in italiano ce lo aspettavamo), rigorosamente sussurrate al microfono, in netta contrapposizione con la potenza che la sua voce può raggiungere. A fine concerto sussurra qualcosa che quasi nessuno riesce a capire. Potrebbe aver detto Thank you so much, ma anche Fuck you so much, è un aggrottarsi di sopracciglia generale. Facci capire, Anna, facci capire se dietro tutta questa ricercatezza nascondi un innato spirito Punk, facci capire se ci hai mandati tutti a fanculo con la dolcezza della tua voce melliflua, facci capire che peso dare alla serata; non abbiamo paura degli stravolgimenti, non abbiamo pregiudizi, ci piace voltare le carte in tavola e cambiare strada all’improvviso. Ma lei continua a pronunciare parole sottovoce, e noi continuiamo a non capire. L’intera esibizione è come un giro sulle montagne russe. Anna ci porta in alto, con la voce, con il suono, è un’esplosione di chitarre e vocalizzi (forse ce ne sono anche troppi). Poi un attimo dopo siamo in basso, in profondità, siamo acqua stagna che cerca un varco per entrare in luoghi segreti. Ci prende in giro Anna, a metà serata, tra alti e bassi. Accelera, arriva in alto, poi frena di botto, rasenta il silenzio. Crediamo sia finita lì, parte un applauso fuori luogo mentre lei riprende ad accelerare, sale di nuovo veloce e poi riscende in picchiata, e noi ci ricaschiamo una, due, tre volte. Penso che siamo un pubblico di merda; non sappiamo nemmeno quando applaudire. Poi però penso anche che non siamo a teatro, ma in uno di quei posti dove si suda, e che certe formalità le abbiamo volutamente lasciate chiuse a chiave nelle nostre case.
Siamo a tre quarti di concerto e tocchiamo l’apice quando Anna si perde in un assolo da capogiro. È là, sul palco, ci sono solo lei ed il suono, ha i fari puntati addosso ed il collo teso verso l’alto, mentre le dita inseguono corde ad una velocità inaudita. È in estasi. Mi guardo intorno. Mi chiedo cosa pensano gli uomini quando vedono certe donne impugnare la chitarra in quel modo. Sei o sette rockettari stempiati di cui sopra la osservano a bocca aperta, con lo sguardo inebetito e la faccia persa nel vuoto, ed inutilmente cercano di stare dietro a quelle dita accennando movimenti con la testa. Io invece penso che sia cazzuta, ed il fatto che non ha bisogno di dimostrarlo con gesti e parole eclatanti, con cavalcate faraoniche del palco e movimenti eccessivi mi piace parecchio. Siamo fin troppo pieni di fronzoli in questo mondo, un po’ di sostanza non può che farci bene. Dopo il teatrino uscita-applauso-uscita si levano le ancore e si torna a casa, con un bella scorta di Bellezza per i giorni futuri, che sono sempre un punto interrogativo troppo grande, ma non è il momento di pensarci ora, non me ne frega niente in questo momento. Sono le 3.30 di un venerdì notte qualsiasi, è vero, ma è quella la parola magica, Venerdì, è quella che conta. Sorriso in bocca ed occhi che cedono al sonno. It’s Friday I’m in Love.
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