Toten Schwan Records Tag Archive
La Band della Settimana: Cani dei Portici
I Cani Dei Portici esordiscono nel 2013 con Cave Canem, uscito per Toten Schwan Records / L’Odio Dischi / È un brutto posto dove vivere, che viene ristampato l’anno successivo. Abbaiano per tutta Italia con Bologna Violenta, Bachi Da Pietra, Giorgio Canali, Marnero, Zu, Ornaments, Storm{O}. Latrano al MEI e in svariati festival della penisola. Nel 2016 esce Due, per Dischi Bervisti / Toten Schwan Records / Vollmer Industries / Santa Valvola Records / È un brutto posto in cui vivere / L’Odio Dischi / Oh! Dear Records / Effetti Collaterali Records. Due è la seconda uscita discografica dei Cani dei Portici, duo composto da Demetrio Sposato (batteria) e Claudio Adamo (chitarra, voce). L’album uscirà in CD e in digitale il 2 maggio 2016 per Dischi Bervisti/Toten Schwan Records/Vollmer Industries/È un brutto posto dove vivere/Santa Valvola Records/Oh! Dear Records/L’Odio Dischi/Effetti Collaterali Records e distribuito da Audioglobe. Il disco sarà disponibile anche in formato musicassetta grazie a Oh! Dear Records. Con questo lavoro i Cani Dei Portici confermano la loro innata capacità ad alternare fasi rilassanti a stacchi energici e violenti. Due abbaia un suono primitivo, diretto, che cattura fin dal primo ascolto. Melvins, Shellac, Jesus Lizard e Primus sono i richiami che vengono miscelati/rielaborati dal duo creando qualcosa che è difficile classificare in un genere preciso. Un disco massiccio e nevrotico, sorprendente, mai banale, che offre all’ascoltatore molteplici situazioni sonore, repentini cambi di tempo, accelerazioni frenetiche che spesso irrompono in cupi momenti di riflessione. I Cani Dei Portici latrano selvaggi e imprevedibili, e continuano a stupire con la loro musica.
Hate & Merda – La Capitale del Male
Gli Hate & Merda sono un duo fiorentino composto dal batterista Unnecessary 1 e dal chitarrista ed urlatore Unnecessary 2. Oltre a nasconderci i loro veri nomi il duo non mostra i propri volti, coprendoli con impenetrabili calze nere in modo da annullare l’identità visiva, cosa che, oltre che con questi tempi di selfie ad oltranza, risulta in contrasto con le copertine dei loro dischi; un singolo volto accompagnava il loro primo lavoro La Città dell’Odio, una vecchia e piuttosto macabra foto di gruppo accompagna questo nuovo full length, volti di tanti signor nessuno che potrebbero essere chiunque, volti di tanti non necessari. Il sound del gruppo è molto istintivo (il disco è stato registrato in una sola notte) e vi troveremo molteplici riferimenti (Melvins, Yellow Swans, Black Sabbath, Om, The Angelic Process, Earth per citarne alcuni) tutti piuttosto estremi; sarà dunque in modo radicale ed ossessivo che viaggeremo tra la vita e la morte, tra i rapporti umani e la solitudine. “Non esiste filosofia che possa contemplare il male. Quando arriva si mangia tutto(…), però il male è rappresentato, già tempi or sono dal Ponte Vecchio si buttavano le streghe”. Con queste parole del bizzarro filosofo fiorentino Stefano Santoni, prima di essere sommerse da droni e tamburi palpitanti, parte il disco con la title track, subito capace di farci capire quali territori andremo a visitare, subito virulenta, capace di farci smuovere qualcosa dentro, per poi dissolversi e farci ritrovare chiaramente le ultime parole di Santoni: “il male serve, serve anche il male…”. Si prosegue con “Foh”, tiratissimo pezzo Sludge Noise con parte centrale più rilassata, brano in cui inizia a prendere forma una certa circolarità (ma sempre e comunque spigolosa) del lavoro della band che qui ci delizia con un testo ermetico ed intenso che se fosse proposto da un cantautore dalla voce sottile, pizzicando le corde di una chitarra classica, quasi ci farebbe gridare ad un nuovo miracolo della canzone d’autore italiana, invece il non necessario numero due ce lo sbraita in faccia, ci sbraita in faccia queste parole: “l’unica cosa che esiste sono io, ho dovuto accendere una luce per capire che ero solo…le persone sono sempre bellissime quando ti dicono addio, ma un giorno anch’io me ne andrò, e allora anch’io sarò bellissimo”. Violentissime sono “L’Inesorabile Declino”, introdotta da una celebre scena de Il Cattivo Tenente di Abel Ferrara, e “La Capitale del Mio Male”, due veri e propri macigni disturbanti di Noise, Drone e Sludge nei quali si fatica a credere che tale delirio e personalità possano essere proposti da soli due elementi spersonalizzati. Tra queste due rocce si trova “In Itinere”, pezzo col quale ci spostiamo in territori più ambientali e nel quale troviamo come ospiti Matteo Bennici (Squarcicatrici) al violoncello e Stefania Pedretti (OvO, ?Alos) alla voce, che con i suoi versi primordiali accresce l’intensità di questo brano dove tutto è più tranquillo ma non meno scuro: la batteria suona triste, sommessamente marziale, la voce non urla, sembra quasi riflettere tra sé, l’atmosfera è notturna, probabilmente stiamo sognando, ci troviamo in un momento di apertura claustrofobica, è il momento più intimo del disco, e ne è il suo cuore pulsante; siamo partiti ma non siamo cambiati, il male che avevamo dentro ci accompagna ancora, e soffriamo di nostalgia, vediamo, sentiamo e ritroviamo quello che abbiamo lasciato, e non siamo capaci di spiegare noi nemmeno a noi stessi, di nuovo e per sempre soli nella nostra fuga permanente. Il Doom di “Profondo Nero Senza Fine”, conduce alla conclusiva ed urticante “Vai Via” dove troviamo l’essenza della band, sia musicale, con i suoi momenti più duri ed estremi ed i suoi passaggi più pacificati ed ambientali, che lirica (“se il tempo potesse tornare indietro tornerebbero indietro le cose perdute (…) questo album di foto guardato al contrario riporta i morti alla vita di prima (…) non dormirò mai più per non sognarvi mai più”), con parole che sembrano urlate dal nucleo interno della terra. I due Unnecessary firmano un disco tosto e di sicuro impatto che suonato live, con la sua fisicità, non potrà che catturarci in modo ancora più totalizzante, e ci ricordano, con questa storia di chi fugge e di chi resta, che la sensazione di solitudine che ci accompagna non ci abbandonerà mai e che la capitale del male è dentro ognuno di noi, mostrandoci, oltre ad odio e merda, cuore e cervello, nonché due corpi in volo, perpetuo e consapevole, dal Ponte Vecchio alle rosse acque dell’Arno.
Joan’s Diary – Tsuchigumo
Nichilismo e cupezza nella quarta prova degli spezzini Joan’s Diary. Diciotto brani come diciotto metamorfosi della creatura della mitologia giapponese che dà il titolo al disco, un ragno mutaforma che rappresenta bene la tentacolarità e le sfaccettature dei quarantotto minuti di Tsuchigumo. Musicalmente parlando siamo in territori minimali, dove batterie tagliate con l’accetta, lineari, senza fronzoli, supportano bassi distorti di una semplicità asciutta, arida, e voci effettate, distanti, che si danno in urla e litanie, spersonalizzate, inumane. Ogni tanto s’aggiunge qualche altro strumento (fiati, tastiere, theremin) ma l’impianto rimane vacuo, spazioso, scuro e notturno. È un disco strano, questo Tsuchigumo: la resa appare approssimativa, talmente minimale e a bassa fedeltà che ci si potrebbe porre legittimamente la questione di quanto convenga abbassare la resa di un prodotto musicale per raggiungere l’effetto shock (nel peggiore dei casi) o comunque una sorta di poetica del “brutto” (nel migliore). Qui mi sembra chiaro che il tentativo sia quello di catapultare l’ascoltatore in un magma d’oscurità e ansie, un lungo, cangiante incubo, in cui i mostri della notte e della mente si confondono e le paure si manifestano, si incarnano, in slanci grezzi di sonorità ruvide, grossolane. La suggestione è interessante, la messa in opera rischia, qua e là, l’imbarazzo involontario (totalmente fuori luogo l’ironica “Mezzo Morto”). Mi hanno incuriosito al meglio i momenti strumentali (“Dios Escapò”, per esempio, o “Sicus et Lupus”), per il resto non mi è rimasto granché.