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Toy + Federico Fiumani @ Rome Psych Fest – Monk Club, Roma | 24.02.2017
Secondo appuntamento per il Rome Psych Fest in quel del Monk Club.
(foto di Beatrice Ciuca)
TOY – Join the Dots
Continua la già lunghissima tradizione inglese di band Psycho Pop, che affonda le proprie radici almeno ai Beatles di “Lucy in the Sky With Diamonds” o “I Am the Walrus”, e che attraverso miriadi di (più o meno riusciti) epigoni giunge fino al 2013 e a questo Join the Dots dei TOY. Secondo album per la band di Brighton, Join the Dots è senz’altro una conferma: un album (nonostante le apparenze e certe linearità ritmiche e vocali) divertito e divertente, che ci proietta in un mare sonoro dall’orizzonte lontanissimo e molto, molto colorato. Si potrebbero (e si possono) passare ore a navigare sui soundscape azzeccatissimi in cui i TOY annegano i loro brani (“Endlessly”, o l’inizio della title-track, o, ancora, l’intera opener “Conductor”, 7 minuti di naufragio sonico). Si sente, oltre alla psichedelia in senso lato e allo Shoegaze più onanista, anche un richiamo all’Elettronica vintage, negli artifici retrò (arpeggiatori e simili) e nelle linee di batteria drittissime e ossessive, da drum machine: una realtà che si sposa benissimo con tutto il resto del marasma, e che ci porta sempre più nel mare aperto di un mandala musicale che ruota su sé stesso e che racchiude un mondo di sensazioni e pulsazioni emotive, più o meno leggere, in cui vorremmo perderci senza possibilità di ritornare.
Penso abbia anche poco senso cercare di descrivere un disco del genere: non perché sia un disco bellissimo (non lo è necessariamente), ma perché è un disco di cui va fatta esperienza, che prende vita nelle pieghe della coscienza, quando si rifrange nel nostro piccolo universo personale e ci ruba, ci rapisce, ci trascina altrove. Come luce in un cristallo, e il cristallo siete voi, e il riflesso, il brillare, dipende anche dalla vostra personalissima forma. Di dischi come questo Join the Dots si può dire, al massimo, se sono suonati bene, se le canzoni filano, se la produzione regge, se la band sa fare il suo mestiere. Su questo non ho dubbi. Sul resto, lascio la parola a voi. Tappatevi il naso, prendete un bel respiro e buttatevi tra le onde dei TOY, poi sappiatemi dire.
Toy – Toy
Forse non ce ne siamo mai accorti, probabilmente la crisi economica ci ha distolto oramai anche dalle nuove onde sonore che arrivano d’oltre alpe, fatto sta che mentre da noi lo spread suona come un tormentone, dall’altra parte dell’Europa, il quintetto inglese dei Toy, con il disco di debutto omonimo, scorrazza felice e ascoltatissimo in ogni dove, radio, live e chi più ne ha più ne metta, dodici tracce che fanno furore tra i giovanissimi, di quelli ansiosamente irretiti dalle nebulose chiaroscure del post-punk ancora in odore di new vave.
Disco dai colori grigiastri, sonorità devozionali agli anni Ottanta in pieno e con una – di primo ascolto – paurosa vicinanza stilistica con The Horrors, ma mi si dica che cosa oggi nella musica ci sia più da inventare, e allora lasciamo scorrere questo fiume in piena di melodia elettrica e torbacea che poi è materia di ottima qualità interpretativa e realizzate con quell’imprinting lunatico e alternato che finisce a piacere in toto, rallegra nonostante lo shoegazer di base, intrigante e convulso che può benissimo guerreggiare con i sounds indie più eclatanti; una puntina di revival si nota tra le pieghe del disco, saranno quei larsen chitarristici di sottofondo, i riff corposi ed esplosivi centrali, il drumming frenetico e scostante, ma quello che più conta è che il disco – sebbene tutto – funziona a meraviglia e mette soggezione (o potrebbe mettere) a tanti altri prodotti last minute.
Sì, la qualità è la maggiore prerogativa del registrato, una quadratura perfetta di rimando che ritorna indietro contemporanea, sfumature recondite e piglio personalissimo che – senza dissacrare nulla – forma quella dolciastra patina retrò sulla schiena di cavalcate e circuiti darkeggianti che rimbalzano ovunque; è solo un primo disco, l’approccio è notevole da non credere, e incrociando le dita sperando di non usare mai un futuro un interrogativo sul loro percorso sonico, gustiamoci l’onda melodrammatica di “Reasons why”, i ritmi drogati di indie windy “Lose my way”, “My heart skips a beat”, e la wave scattante e fenomenale che decapotta nella tripletta “Motoring”, “Make it mine”, “Kopter”, tutto un insieme di emozioni raffinate dalle quali si possono anche riconoscere – ad un attento annuso d’orecchio – piccole ispirazioni estrapolate dai mondi vicinali di New Order con Echo And The Bunnymen incorporati.
Ripeto, è solo un primo disco, forse e speriamo ne seguiranno altri, intanto i nostri inglesi fanno capire di non scherzare affatto e queste “provocazioni d’assaggio” saziano e fanno fare anche il ruttino di goduria e buongusto.