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Moongoose – Irrational Mechanics

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Il mondo dei Moongoose non è certamente razionale, la sensazione è quella di trovarsi perduto all’interno di forme geometriche tridimensionali. Poi queste forme iniziano a riempirsi d’acqua, il respiro si strozza in gola, tanto buio, Trip Hop anni novanta. Il primo disco ufficiale del trio Moongoose si chiama Irrational Mechanics e segna una svolta importante per le ambizioni di una band emergente alla conquista del grande pubblico. Le sonorità sono raffinate, non potrebbero essere altrimenti, la voce di Dea Mango lascia tensione a chi ascolta, dolce e tenebrosa nello stesso tempo. I brani viaggiano lenti con improvvisi battiti elettronici, l’opener “Closed Field” raggiunge subito la massima espressione del Bristol Sound, riff Dub rallentati con rabbuiate circostanze Soul. Potrei parlare dei Massive Attack ma rilegandoci all’attuale scena Trip Hop italiana citerei senza ombra di dubbio i Sixty Drops. La title track “Irrational Mechanics” rende quasi opportuno un abbandono della mente, molto coinvolgente la batteria, la voce ancora una volta riesce a fare la differenza. Non apprezzo il basso, sembra venire fuori da un altro contesto. Un continuo scivolare verso suoni glitch, la band stessa definisce questo concept nel seguente modo: “Le meccaniche irrazionali minacciano ogni certezza, rafforzano ogni debolezza. La realtà è armoniosa, la contingenza è caotica”. Tutto viaggia secondo una retta linea, non trovo quasi mai colpi di scena improvvisi e questo rende il mio ascolto attento e uniforme, non fatico mai e assorbo il tutto con desiderato piacere.

Cambiamenti improvvisi di tempo vengono percepiti in “Fomenta” ma il risultato non sembra essere gradito dalla mia attenzione che fino a quel momento si spostava sopra ben altre sonorità. Adoro la parte ipnotica del Trip Hop e la sua versione originale, riuscire a modernizzarla è una cosa molto difficile e soprattutto rischiosa. I Moongoose registrano un disco difficile, cercano di buttarci dentro eroicamente il (quasi)moderno concetto di Indie Rock, la loro prova non delude affatto e meritano interesse. Per ascoltare Irrational Mechanics bisogna essere dotati di grande concentrazione e spirito propositivo, a noi questo tipo di scommesse piacciono molto. I Moongoose fanno parte di quella schiera di band che non possono che fare bene alla musica considerato, anche, il valore di una cantante emozionale come Dea Mango. Una puntata sopra cui sarebbe opportuno alzare la posta.

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Sixty Drops – Zodiac

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I Sixty Drops sono un collettivo abruzzese che in tempi di auto-tune, casse dritte o distorsioni cattive ha deciso di andare controcorrente tornando alle pacate sonorità Trip Hop di una Bristol anni 90. C’è da dire che sono passati un po’ di anni da quando “Teardrop” dei Massive Attack (1998) ha colonizzato anche le orecchie dei più sordi, ed anche se successivamente Tricky ha aggiornato il genere introducendo elementi elettronici più movimentati, comunque l’essenza di quell’atmosfera sonora opaca e al confine tra tristezza/speranza è rimasta la stessa; e soprattutto sembra rivivere ancora nelle note di Zodiac. L’EP d’esordio di questi baldi giovani si compone unicamente di tre tracce, poche forse direte voi, ma in fondo si preferisce la quantità o la qualità? Io opto per la seconda e ribadisco che qui la qualità sonora non manca. Si inizia con “Nelumbium”, cinque minuti tra beat Hip Hop, suoni Dark, delay ed un botta e risposta tra Jacopo Santilli e Ludovica Mezzadri, due voci che danno il meglio di sé quando risuonano all’unisono. “Down the Light Zone” si lascia invece l’oscurità alle spalle per dare spazio a sonorità Jazz e Chillout, creando una traccia pacata che mette in risalto il basso di Lorenzo Lucci. Si finisce con la strumentale “The Japanese Sundance” che di giapponese ha ben poco (se non dei synth/campana che appaiono sporadicamente), ma che invece di Dance o meglio di “dolce” Industrial ha molto. Il cerchio di Zodiac si chiude in modo incazzato e turbolento, quasi a voler ribaltare la pace dei sensi con cui si è aperto, ma, anche se la traccia è realizzata egregiamente, purtroppo il risultato è quello di lasciare l’ascoltatore spiazzato da un brano che poco centra con il resto dei suoni e le emozioni suscitate in precedenza.

Mettetevi delle buone cuffie, oppure dotatevi di due ottime casse per ascoltare i Sixty Drop perché la fatica e l’impegno messo nella ricerca dei suoni e nel mixaggio si devono poter sentire ed essere ripagati. Quindi per favore lasciate nel cassetto le cuffiette da cinque euro e godetevi questo viaggio con coscienza e magari perdetevi nell’inquietudine umana intrinseca in ognuno di noi.

Qui sotto, ed in esclusiva per Rockambula trovate l’EP in streaming. Buon ascolto!

Nelumbium

Down The Light Zone ( Ft. Lorenzo Lucci )

The Japanese Sundance ( Instrumental)

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Samaris – S/t

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Soffice elettronica Dowtempo, ghiaccioli di piacere etereo e tutta  l’Islanda fredda e calda che mai si possa contenere in un disco. È questa la periferica induttiva che il disco omonimo dei Samaris – giovane formazione di Reykjavik – trasmette con una reputazione dolciastra e molto intima, praticamente come vivere e ascoltare l’eco di sé stessi dentro una bolla, un tubo di vetro o che so, un alambicco di cristallo che rimanda cadenze, soffi e sospiri delicatissimi in dodici tracce, un ascolto “moltiplicato” da bagliori bianchi come panna, ben oltre la neve dell’Artico.

E dietro tutta questa esuberanza delicata di suoni, scandagli, rimbombi gommosi e vapori impalpabili. il disco trova la sua dimensione adimensionale, tenero nelle sue esplorazioni elettroniche e fautore di una e più atmosfere dinamiche e rallentate, un ascolto a più livelli di coscienza  che non forza nessuna opposizione a questa magia senza peso, tracce (dodici) che arrivano da due precedenti lavori e qui “riassemblati” in una meccanica color perla e prettamente rivolta ai climax che già hanno fatto conoscere al mondo intero i sospiri raggelati e passionevoli di Mum, Sigur Ros, The Knife, e per dirla tutta un disco che scende in verticale in un pathos che fa brividi ed immaginazione oltre le quote delle distanze infinite.

La stupenda voce di Jofridur Akadottir è come una manna che cade lieve su questa stupende ambientazioni sonore, voli e radenti asettici che lambiscono le orge strutturali di ambient e di quelle onde magnetiche che si rimbalzano come swap lunari e che veramente danno la sensazione di non avere più la dotazione della posizione eretta, ma un dolce vacillare, un galleggiare out-weight; illusionistici i bagliori di leggende “raccontati” da percussioni e parole mistiche popolari “Viltu Vitrast”, il basso che detta  una linea bluastra a margine di “Goda Tungl”, la cosmicità ritmata dei rimandi “Voggudub” e la dissolvenza di loop, strumenti a fiato e sintetizzatori “Kelan Mikla” che alla fine di tutti i discorsi ed i flash d’ascolto accendono la luce dell’innocenza interiore, quella valvola interna di batticuore silenziato di cui spesso non ci si accorge di averla.

I Samaris vincono la scommessa di stupire e lasciare a bocca aperta molti, la loro è una etera mistica volatile, la nostra è una sorpresa dura a compattarsi. Buon Ascolto e allacciate le cinture di sicurezza, si parte!

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Tricky – False Idols

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L’uscita del nuovo lavoro di Tricky, False Idols, è prevista a fine mese e c’è già chi dice che questo lavoro merita la sufficienza. È chiaro che non hanno colto le sfumature. Ma andiamo con calma, piano piano. False Idols è un lavoro che arriva a ridosso di Knowle West Boy (2008) e Mixed Race (2010) dopo alcuni anni di silenzio e un paio d’album non proprio riuscitissimi. Nei precedenti ultimi lavori citati Adrian Thaws, alias Tricky, ha tentato di dare alla sua musica un ritmo più “orecchiabile” riuscendo in Knowle West Boy, album bellissimo dalla prima all’ultima traccia, e perdendosi in Mixed Race, album misto, con alti e bassi, in cui riaffiora un ritorno alle origini con suoni cupi e voce bassa, bisbigliata. False Idols non è l’album della maturità, né del cambiamento ma è un lavoro che cerca di tessere la tela degli anni che passano, tra alti e bassi, nel tentativo affermare una volta per tutte la propria identità musicale. È noto a tutti che all’inizio della sua carriera, primi anni ’90, Tricky ha, con successo, dato il via al Trip Hop (insieme a Massive Attack e Portishead) genere che ne miscelava altri, dall’Hip Pop al Dub passando per la Musica Elettronica e il Rock psichedelico. L’inizio dei ’90 rappresenta l’apice della sua carriera che andrà affievolendosi successivamente con dei lavori che il pubblico non recepì proprio bene come Angels With Dirty Faces e Juxtapose.

L’album si avvale della stupenda voce di Francesca Belmonte che con il suo contributo impreziosisce il lavoro di Tricky. Tra i brani spiccano “NothingMatters”, “Bonnie&Clyde”, “Nothing’s Changed”, “Chinese Interlude” e “Doesit”. Tutti brani ritmati che ripercorrono le varie esperienze sonore di questo problematico artista.

In un certo senso con questo lavoro è come se cercasse di far quadrare il cerchio mixando nuovi e vecchi concepts affermando con forza una e una sola cosa: Tricky è Tricky e non ha voglia  di cambiare, “Nothing’s Changed”, di seguire falsi miti accontentandosi del proprio pubblico, della propria gente e di chi fondamentalmente lo ama per ciò che è.

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Shijo X – …If A Night

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