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[CONTEST] Vinci due biglietti per Umberto Maria Giardini a Milano
In regalo due ingressi per il concerto di venerdì 12 aprile al Circolo Ohibò.
Continue ReadingUmberto Maria Giardini @ Monk Club, Roma | 18.05.2017
Sembrano lontanissimi i tempi di Moltheni, l’hipster ante litteram, quando ancora il fenomeno non era nemmeno circoscrivibile con un nome. Sono ormai sette anni che Umberto Maria Giardini si presenta al suo pubblico con il vero nome, un pubblico di tutto rispetto.
(foto di Beatrice Ciuca)
Umberto Maria Giardini – Protestantesima
Una tigre che domina un teschio ed un plenilunio sullo sfondo che racchiude tutta la scena: è con questa immagine suggestiva (nata dal progetto grafico di Pasquale de Sensi) che si presenta nel suo involucro esterno Protestantesima, l’ultimo lavoro di Umberto Maria Giardini. L’artista marchigiano, dopo La Dieta dell’Imperatrice e l’EP Ognuno di Noi È un po’ Anticristo persiste con la sua azione di “Riforma” in ambito musicale, presentando per l’ennesima volta un lavoro complesso e curato nei dettagli. Protestantesima è un nome imponente, di genere femminile, perché femminile è l’anima che vive al suo interno, fatta di sonorità rotonde, fluide, melodiche spesso in contrasto con chitarre distorte e sezioni ritmiche incisive: mare e terra che coesistono, si alternano, si scontrano. Una maggiore presenza delle percussioni caratterizza l’album conferendogli un cuore vivo e pulsante. Lo mette in chiaro già la prima traccia omonima, “Protestantesima”, e lo evidenziano maggiormente brani come “Urania”, dove chitarre e batteria quasi scandiscono il ritmo di una marcia, “Amare Male”, che a tratti riduce al limite i suoni con la sola presenza di voce e percussioni, e ancora “C’è Chi Ottiene e Chi Pretende”, introdotta da colpi di tamburo che faranno da sfondo all’intero brano. Suoni che richiamano le vibrazioni della terra, sui quali si adagiano sonorità più acquose, come in “Molteplici Riflessi”, dove le linee melodiche dettate dalle chitarre e dalla voce melliflua di Giardini si allungano, vanno via e poi ritornano come fa un’onda. Ci sono pezzi poi, come “Sibilla” e “Seconda Madre”, che sono maree; si dilatano in lunghi assoli di chitarra si arricchiscono di suoni elettronici o note di pianoforte che affondano in secondo piano il ritmo dettato dalle percussioni. Una coesistenza di suoni forti ed eterei, tenuti insieme dalle linee melodiche della voce sulla quale vengono cucite liriche articolate, ma che talvolta non usano eufemismi per descrivere la realtà (…a Milano il denaro serve sempre a tutto perché piace la cocaina… – “Il Vaso di Pandora”). Un disco che va ascoltato più volte prima di poterne percepire tutte le contraddizioni, note generatrici di bellezza.
Daniele Celona
Daniele Celona è cantautore, compositore e produttore torinese, dalla decisa anima Rock. In occasione dell’uscita del suo nuovo lavoro Amantide Atlandite, abbiamo avuto l’opportunità di farci raccontare direttamente da lui di cosa si tratta.
Ciao Daniele, grazie per essere qui con Rockambula, il 3 febbraio esce il tuo nuovo lavoro Amantide Atlantide, anticipato dall’uscita del singolo “La Colpa”. Cosa ci racconti in questo nuovo lavoro e cosa ha ispirato la realizzazione degli undici brani che lo compongono?
Grazie a voi. Che dire. E’ un disco sul presente e le sue difficoltà. Un reportage, ma anche un invito a resistere, ad alzare la voce, a trovare una propria via allo “starci dentro”. Ogni nostro comportamento, ogni scelta, ha un riflesso sociale, politico direi. Studiare come ci poniamo davanti a un bivio o ad un ostacolo, mi ha sempre affascinato. Per questo i miei personaggi sono sempre lì, in bilico, sul solco di qualche cicatrice. Sono canzoni di antieroi, canzoni per chi si è perso, ma riesce ancora a sognare ad occhi aperti.
Se vogliamo definire il territorio in cui si muove la tua musica, si potrebbe parlare di Rock cantautorale, ti ritrovi in questa definizione o preferisci darcene una tua personale?
Nulla osta su questa definizione. In realtà il gioco delle scatole con su scritto genere e somiglianze mi lascia sempre un po’ perplesso. Credo che le carte vadano scoperte attraverso l’ascolto, o ancor meglio assistendo a un live o guardandone il filmato perché no. Per usare un termine boxistico, i nostri ring sono quelli. Uno ascoltatore che voglia capire chi ha di fronte, deve salirci.
Amantide Altlantide è il risultato di una formula compositiva particolare una ricerca tra metriche, parole e tecnicismi, come il falsetto e il parlato. Ci racconti come nasce di solito una tua canzone?
La ricerca, il “mestiere”, agiscono più che altro in arrangiamento. La parte precedente è abbastanza istintiva. Non decido a tavolino se usare il falsetto o altro registro. Cerco una linea di cantato e normalmente sono tonalità e mood del pezzo a portare quasi naturalmente verso un certo colore. Le parole del testo sanciranno poi se quel vestito è adatto o meno. Sono un autodidatta sia come chitarrista che come cantante, con un sacco difetti. Pertanto né io posso permettermi dei tecnicismi, né li ho chiesti alla band in fase di preproduzione. Nelle mie intenzioni le canzoni devono suonare fluide pur nella loro struttura articolata ed esser divertenti da eseguire dal vivo.
Rispetto al precedente Fiori e Demoni c’è molto spazio a momenti strumentali di forte impatto ed energia, c’è lo zampino dei Nadàr Solo, tuoi compagni e backing band nel precedente lavoro oppure ci sono altre band o ascolti particolari che hanno influenzato le tue scelte?
Credo che già nel disco precedente i pugni allo stomaco non mancassero. In ogni caso le variazioni tra silenzi e sfuriate sono essenzialmente una mia, quasi patologica, esigenza. Chiaro, dove ho chiesto ai ragazzi di dare di più dal punto di vista della “cartella” non si sono certo tirati indietro. Ho spremuto il povero Alessio in particolare, con scelte di batterie molto muscolari, e passaggi repentini ad atmosfere quasi jazz o comunque molto delicate. E’ stata una parte bella del lavoro, diversa da quella di Fiori e Demoni che avevo intagliato in buona percentuale al computer. Ammetto che in questo fase del lavoro da sala prove ho teso a diventare quasi insopportabile, ma i Nadàr, con cui abbiamo lavorato insieme per anni sapevano ormai come prendermi e come macinare le mie idee in parti strumentali.
Tu, Levante, i Nadàr Solo, provenite tutti dalla scena torinese, è un caso oppure Torino, e il Piemonte in generale, sta recuperando terreno come fucina di talenti musicali? Che cosa ha significato per te crescere musicalmente in questo contesto?
E’ una città che ha molto da dire, su più discipline, non solo quella musicale. C’è energia e fermento. Non credo comunque si debba parlare di gara tra scene cittadine italiane, come non dovrebbe esserci rivalità per progetti simili all’interno di una stessa città. Forse noi, e aggiungo ai nomi che hai citato anche Bianco, abbiamo dato solo un esempio più costruttivo da questo punto di vista, su una sinergia non esasperata, ma vera. Credo anche, sia apprezzabile la nostra scelta di togliersi dalle scatole il più possibile dall’ambito strettamente torinese per lasciar spazio ad altre energie fresche che hanno numeri e che scalpitano.
Qual è stato il momento più bello nella realizzazione di Amantide Atlantide? Ti andrebbe di condividerlo con noi?
Sai che non so cosa risponderti? E’ stata talmente una lotta, col tempo, con la mancanza di soldi, il tutto in uno degli anni più difficili della mia vita, che il dato saliente in realtà credo sia il fatto di aver portato questo disco a compimento. Ci si è messo di mezzo anche il furto a Roma del mio Mac con l’ editing di quattro pezzi e un quinto registrato con Bianco. Ritornando alla tua domanda, il momento bello, a ben vedere, è per me sempre quello della scrittura dei brani, del mosaico da completare. Lì sta il mio giardino segreto, agli altri spetta il quadro, l’ immagine photoshoppata. E’ una rappresentazione che costa fatica e spero posso essere amata comunque.
Grazie per averci raccontato qualcosa di te e del tuo nuovo lavoro. Abbiamo detto che tra poco esce l’album, immagino partirà anche un tour?Hai qualche anticipazione per noi?
Sì, inizieremo a Febbraio tra date promo negli stores e in radio, date con il set elettrico vero e proprio, e qualche apertura a Umberto Maria Giardini.
Umberto Maria Giardini – Ognuno di Noi è un po’ Anticristo
Sono naufragata milioni di volte nel mare delle mie inquietudini, e Dio solo sa quante altre tempeste emotive dovrò superare. Ma c’è un modo per far tornare la quiete, là dove per troppo tempo tuoni e fulmini hanno avuto la meglio, e questo modo è spalancare i cancelli dell’anima e dare libero ingresso alla musica. Paradossalmente, però, non tutta riesce a passarci attraverso. Può farlo solo quella fluida come l’acqua, che scivola all’interno di percorsi della mente sconosciuti, capace di scovare i sentimenti più nascosti. Parlo, ad esempio, della musica contenuta in Ognuno di Noi è un po’ Anticristo, il nuovo EP di Umberto Maria Giardini, uscito il 20 settembre 2013.
Non è un disco dall’ingresso trionfale, odia i clamori. È un amico che conosci da sempre e sa come fare a raggiungerti. Parte sicuro, ma a passi lievi, e ti viene incontro con una sezione ritmica leggera accompagnata da una voce melliflua. Subito dopo, il suo incedere lento affretta il passo e si trasforma in corsa per entrare dritto dove vuole entrare (“Fortuna Ora”). E ce la fa. Bene, amico di cui sopra, ormai hai sfondato tutte le recinzioni, cos’altro dire? Prego, accomodati. E lui si accomoda e ti parla; con fare psichedelico e ossessivo (“Oh Gioventù”), e senza proferire parola, ti fa capire che sa tutto di te, delle tue inquietudini, delle dei tuoi scazzi, delle tue incertezze, delle tue solitudini. All’improvviso ti senti nudo, spiazzato, e pensi che da un momento all’altro se ne andrà via, schifato per tutto ciò che ha visto. Ma lui non lo fa. La musica non tradisce. Comincia invece a sussurrarti all’orecchio parole come il tempo è come noi, prende tempo e non perdona (“Regina Della Notte”).
Ed allora capisci nell’inganno in cui sei caduto, è tempo perso il loop in cui sei capitato. Pochi secondi con il fiato sospeso, e poi l’esplosione in un finale deciso, un misto di gioia per esserti ritrovato, e tristezza per esserci cascato ancora. Il resto è solo una parola: “Omega”. E’ ora di farla finita. La melodiosa bellezza della voce ed un sottofondo psichedelico carico d’inquietudine convogliano in un unico, solo finale Progressive. Non è da tutti fare certi viaggi all’interno di sé stessi; ci vuole coraggio, ma conto di averne a vagoni stracolmi al binario della tua città (“Tutto è Anticristo”). Non c’è da vergognarsi per quello che ne viene fuori quando ci si guarda dentro. C’è del bello e del brutto in ognuno di noi. In fondo, Ognuno di Noi è un po’ Anticristo.