Rockambula nella persona del nostro collaboratore Emilio Terracciano decide di incontrare Diego Pandiscia degli Underdog per parlare del nuovo disco, della scena musicale italiana e di una Roma sempre più violenta e affascinante. Vediamo cosa hanno da dirci gli Underdog…
Dopo tre anni eccovi di nuovo al varco. Bentornati Underdog. Allora che atmsofera si respira all’uscita dell’ultima fatica? Smaniosi di far conoscere al pianeta il vostro lavoro immagino!
Smaniosi è il termine giusto, abbiamo lavorato tre anni, il disco descrive benissimo questo periodo, porta al pubblico quello che sono attualmente gli Underdog, un gruppo con la consapevolezza che questo sarebbe stato “il disco”, oppure basta.
Qual è il bilancio di Keine Psycotherapy? Se sarà il primo leggendario album della famosa e storica band Underdog questo lo potremo dire tra una quarantina d’anni…ve lo auguro…ma intanto, parlando come ragazzi presi singolarmente, “non-underdog” per capirci, lavoratori immersi in questa, per certi versi, orrenda epoca in cui siamo capitati, segnata da precariato e generale indifferenza verso tutto (figuriamoci verso l’arte), cosa ha rappresentato per voi riuscire a creare la band che volevate e un disco che ha ricevuto il favore di quasi chiunque lo abbia ascoltato?
Ho sempre fatto, e questo non è un bene, delle scelte che comunque erano condizionate dal fatto che gli Underdog esistevano, ed erano in un certo senso quello che volevo fare, quello che volevo/voglio essere. Il “non Underdog” ha un lavoro che gli piace, ma scelto e dettato dal fatto che il “non Underdog” non esiste e quindi c’è “il cantante degli Underdog che in qualche modo ha un lavoro che farebbe il cantante degli Underdog”: in questo caso l’educatore nei campi rom.
Però poi, vedere che l’ossessione che ti caratterizza, in questo caso la musica, viene apprezzata e compresa da altri “alieni” non può che mantenere in vita quello che sei, e soprattutto, quello che cerchi di fare.
Vivete a Roma se non sbaglio. Ho vissuto in quella città parecchi anni e l’ho vista cambiare molto, diventare una città sempre peggiore per violenza, inadeguatezza, malcostume italiano dilagante e, ahimè, menefreghismo giovanile davvero preoccupante. Credo sia lo specchio migliore di tutta l’Italia. E voi che ne pensate? Come la vivete o meglio come vi sembra il tessuto sociale, ed in particolare quello giovanile, della vostra città?
A me sembra un interessante melting pot, Roma sta diventato piano piano europea ma a suo modo, e con tutte le contraddizioni che da sempre si porta dietro. Roma al momento ha un alto livello di degrado sociale ma ha anche un’ottima risposta artistica e “umana” che la contraddistingue da molte altre città Italiane. E’ una città viva, e malata allo stesso tempo, e questo in un certo senso ne crea anche il fascino.
Veniamo alle sette note. In Italia abbiamo una particolare predilezione per accorgerci in ritardo (o non accorgerci affatto) di talenti musicali nostrani e, al contrario, valorizziamo svariati fenomeni da baraccone. Sinceramente vi vedo lontani e indipendenti un po’ da tutto. Ed è un bel complimento sia chiaro. Che ne pensate del panorama musicale nostrano? Ci sono artisti con cui magari vorreste collaborare?
Abbiamo collaborato in un live con Salis, Luigi Cinque e Badara Seck da cui abbiamo tratto un brano nell’EP “Empty Stomach” ed è stata un’esperienza unica che davvero non avrei sperato di poter fare. Quindi già quel momento è stato una grande soddisfazione.
Il panorama italiano è pieno di artisti validissimi, ma come già accennavi te sono per lo più mantenuti nell’ombra, pur trovando alcuni un grande riscontro a livello internazionale. Personalmente ho avuto la fortuna di collaborare con molti musicisti anche stranieri, in contesti musicali moto differenti. Mi piace pensare di continuare a incontrare musicisti interessanti con cui continuare a suonare insieme, collaborare, come è successo ultimamente con Cole Laka dei Two Pigeons o con Uwe Bastiansen e Geoff Leigh.
Emergere e “diventare qualcuno” con la propria arte oggi è davvero un’impresa ardua. Ma gli Underdog sono davvero interessati a “sfondare” nel senso classico del verbo o hanno altri obiettivi? Voglio dire, cosa significa per gli Underdog “diventare qualcuno” e qual è la ricetta per restare indipendenti ed al tempo stesso esportare ovunque la propria musica?
L’obiettivo è suonare quello che voglio e poterlo portare in giro, il che non significa sfondare ma significa semplicemente suonare quello che si vuole e vedere se qualcuno è disposto a fermarsi ad ascoltare.
Ascoltando i vostri due lavori, e ancora di più vedendovi dal vivo, la sensazione principale che suggerite a chi vi ascolta è, a mio parere, l’imprevedibilità, la percezione che da un momento all’altro nel brano possa arrivare qualcosa di sorprendente e inaspettato sia a livello di arrangiamenti che di soluzioni melodiche. Le varie trovate per rendere i brani così multiformi sono frutto di improvvisazione collettiva o c’è dietro una ricerca in studio e una decisione premeditata di organizzare precisi arrangiamenti?
L’improvvisazione collettiva in lunghe session è quello che ha caratterizzato il nuovo lavoro, c’è anche una ricerca di suono e di struttura ma fondamentalmente siamo sette teste che suonano insieme senza molti preconcetti od obiettivi premeditati se non quello di voler esplorare “qualcosa di nuovo”.
Avete suonato al Festival dell’Avanguardia di Shiphort organizzato dai leggendari Faust (o da quello che ne rimane). Un ambiente e dei musicisti che da 40 anni contagiano irrimediabilmente con idee e sperimentazioni chiunque ne venga a contatto. Cosa vi portate dietro da quell’esperienza a livello musicale? Se non sbaglio avete collaborato con Uwe Bastiansen?
Ho il flash durante il festival di questa jam registrata dentro il furgoncino di Jean Herve Peron dei Faust in cui avevano accorpato me e Basia a improvvisare con questo batterista metal norvegese, già questo ti fa capire l’attitudine del festival, Uwe Bastiansen suonava e registrava la session, ma non abbiamo ancora sentito cosa ne è uscito fuori!
Se poi ti devo parlare a livello personale, è stato bellissimo essere ospite nella Stadtfisch Orchestra con Uwe, Zappy e Jean Herve Peron, Geoff Leigh, mi hanno insegnato a lavorare realmente da musicista durante il periodo dei due dischi incisi per l’amburghese Clouds Hills. Ero con questi musicisti molto più grandi di me che avevano dei ritmi assurdi di lavoro in cui si sentono, e ti fanno, sentire completamente a tuo agio. Ci si chiudeva per tre giorni a improvvisare per portare poi il disco direttamente in studio, il che non sembra, ma è un lavoro che richiede una forte concentrazione. I ricordi più grandi poi sono stati proprio a livello umano, solo con gli underdog mi ero sentito così “in famiglia”.
Musicalmente avete diverse provenienze stilistiche lo so. Anche molto diverse. E siete parecchi peraltro. Riuscireste a trovarmi almeno un album o due che mettono d’accordo tutti, un disco che tutti davvero amate e che magari avete condiviso nell’ascolto durante le registrazioni di Keep Calm?
Non credo, forse azzardo e provo a dire Pithecantropus Erectus di Mingus la traccia omonima è impossibile non amarla. Ma oltre questo è impossibile, spesso quando parliamo tra di noi ognuno cita dischi o artisti che magari l’altro non conosce assolutamente.
Dal vivo come sarà l’impatto di Keep Calm secondo voi? Avete in mente qualcosa di particolare o cercherete di riprodurre fedelmente il più possibile i brani così come suonano in studio?
Ma in realtà a noi sembra scontato, ma noi suoniamo dal vivo come in studio ne più ne meno, non amiamo usare più di tanto sovraincisioni, il disco riproduce fedelmente quello che possono effettivamente suonare contemporaneamente sette musicisti. Il live poi è caratterizzato da tutto ciò: sette teste senza freni che si muovono su un palco, quello che succede poi succede.
I vostri brani. Mi piacerebbe analizzarli uno ad uno ma non c’è tempo! Anzi spazio! Ne prendo uno che mi piace particolarmente. Mi spiegate il significato del testo e com’è nato musicalmente Macaronar?
Si provava, anche parlandone con la produzione, Altipiani e Martelabel, a testare l’italiano, e quando mi sono trovato in questa situazione mi è tornato alla mente una vecchia frase che strillava il chitarrista della mia prima band, ti parlo di anni e anni fa. E nulla, questa frase “le mani che sudano ed anche stasera un parto isterico di me stesso” è riapparsa nel cervello mentre cercavo qualcosa da cantare e per assurdo descriveva benissimo come stavo alcune volte in quel periodo, da li, è uscito il testo in una sera: descrive l’attimo in cui si sorpassa il limite e ci si ritrova ad esplodere, completamente vulnerabile, davanti a qualcuno.
Finale scontato. Avete progetti particolari per far conoscere gli Underdog alle prossime tredici generazioni? Tournèe in vista?
Gli Underdog verranno a suonare nelle vostre città, nel bene o nel male, “Keep Calm”.