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Recensioni | novembre 2015

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Max Richter – Sleep   (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10

Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.

Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10

Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.

Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10

Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.

Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10

Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.

Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10

Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.

Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10

Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.

Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10

Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti  descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.

La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop,  Shoegaze, 2015) 6,5/10

Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.

A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10

Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.

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Marlene Kuntz – Pansonica

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Non vorrei essere azzardato, ma sbaglio o i Marlene stanno tentando un back to origins? Era il 2010 quando gli artisti cuneesi mi colpirono in basso e mi lasciarono tanto di quell’amaro in bocca da farmi girare la faccia e concedermi il dono dello skip tanto per Ricoveri Virtuali e Sexy Solitudini, quanto per Nella tua Luce, facendo scattare nella mia mente un meccanismo stante il quale la loro discografia era bella che terminata nel 2007, con Uno, un lavoro a metà strada fra il bello e lo spiro. Tuttavia è d’uopo ammettere che, anno corrente, la loro performance al Premio Maggio (30/04/2014) mi aveva lasciato a dir poco senza parole, concedendomi il beneficio del dubbio circa il limbo in cui si trovava la loro arte. Ed è una sera di ottobre quando i fantasmi bussano alla porta: sono i Marlene e non hanno alcuna intenzione di liberarsi di me! Mi propongono una nuova opera, uno smartbook da sette capitoli: Pansonica. Un amore altalenante, ma tanto intenso da sortire sempre un certo effetto su di me. Ed eccomi qui, a concedere un’altra possibilità ad una band che, si dica quel che si dica, sa più di immortale che di Rock.

A conferma di quanto proposto in via diretta, i Marlene sembrano voler perseguire una sana gestione di ritorno ai tempi andati e lo fanno già attraverso il titolo del loro nuovo EP: Pansonica è senza dubbio uno di quei termini in pieno stile Marlene, calza perfettamente con vecchi titoli e trova una sua dignità nell’oceano di nomi intriganti (vedi Ho Ucciso Paranoia, Catartica, “Trasudamerica”, “Sonica”) tipici del repertorio dei cari amici piemontesi. L’eccessiva evidenza del ritorno proposto, tuttavia, trova fondamento nella storia del disco, che presenta una tracklist composta da soggetti abbastanza datati. Tutte le tracce sono infatti frutto di un lavoro eseguito nei primi anni di attività della band, ma che non hanno mai trovato la giusta collocazione. Il disco è dunque null’altro se non un omaggio ai fan più affezionati, che da tempo aspettavano di ascoltare un po’ di old school. Ma non ho alcuna intenzione di soffermarmi su simili minuzie da nerd nostalgico.

Il disco apre in gran stile, con un aggressivo “Sig. Niente”, caratterizzato da un giro di basso notevole su cui si stagliano le chitarre del buon vecchio Tesio. Il testo è parlato e la combinazione lineare di aggressività, poetica ed ars oratoria mi riporta alla consapevolezza di “Ape Regina”, confermandomi che Godano è ancora in grado di stupire persino gli scettici come me.  Le tracce successive mantengono l’aggressività della open track, tuttavia ne guadagnano certamente in melodia. Basta fare uno skip verso “Parti”, per abbracciare una melodica poesia. Incazzata si, ma melodica. In questo capitolo si lascia notevole spazio a chitarre non distorte, lievi e ben cullate. Poco Marlene mi si dirà, ma incredibilmente funzionale, senza dubbio alcuno. Nelle scene successive il coinvolgimento diviene totale. Il volume sale a stecca, chiedo scusa al mondo, ma mi spengo per un po’. Si viaggia attraverso titoli che se le suonano di santa ragione, senza esclusione di colpi, che gettano d’istante nel dimenticatoio tutte le buche in cui sono inciampati i ragazzi negli ultimi anni. Un nirvana artistico lungo 3 minuti e 20 secondi che va sotto il nome di “Oblio”, in pieno stile “Nuotando nell’aria” sopprime la mia voglia di nicotina e mi costringe al replay continuo e non mi dà tregua. Chiuso per ferie. Ci scusiamo per i disagi. La mia mente inizia a viaggiare a ritroso nel tempo, torno bimbo e mi emoziono. Il mio sistema nervoso assume una configurazione nuova e mi dà una nuova certezza: i Marlene sono immortali. Faccio un passo indietro e torno su “Ruggine”, quarto episodio della serie. La combinazione perfetta dei singoli sound ci dona un Sole di mezzanotte, capace di illuminare a giorno il più buio dei baratri. La track è incredibilmente aggressiva, il testo semplicemente perfetto. Non ho altro da aggiungere, 30 e lode.

Tirando le somme, mi sovvengono le considerazioni di cui a breve. Qualche mese fa abbiamo avuto modo di ascoltare un remake di Hai Paura del Buio, un’idea Afterhours assolutamente geniale, che ha coinvolto un gran numero di artisti, molti dei quali giovani e talentuosi. Meno di un mese fa, lo sguardo indietro l’hanno lanciato gli Interpol, sotto il titolo di El Pintor. E che dire degli Smashing Pumpkins, che hanno saputo sintetizzare evoluzione e radici in una mistura intitolata Oceania, risalente a ben due anni fa. Se lanciamo uno sguardo agli ultimi anni, ci accorgiamo di quanti passi indietro siano stati fatti dalle più grosse band di sempre. Sarà marketing, o forse semplice nostalgia, ma quelli come me si limitano a dire “Grazie”. La stessa scia è stata intrapresa di recente dai Marlene Kuntz, ma degni del nome che portano, hanno saputo tenere in grembo l’idea per un considerevole numero di anni. Il risultato è strabiliante! A 25 anni dalla loro nascita e 20 dal disco di esordio (Catartica) riescono a donarci un salto diretto nel 1990 che non può che suscitare applausi e lacrime di commozione. Un modo geniale per dire “Noi ci siamo ancora e, per chi l’avesse dimenticato, siamo questi qui!”. L’esito è inevitabile, il giudizio è pienamente conforme al dono. Il dieci tondo lo tengo in tasca e lo dispenserò soltanto a patto che Pansonica sia l’equivalente di “è stato un piacere essere stati amati da voi”. Perché il vero attore è colui il quale sa esattamente quando è il momento di uscire di scena.

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