Evito di fare inutili giri di parole, tanto servono a ben poco, aspettavo il terzo disco dei The Marigold come un bambino degli anni 80 aspettava Carnevale. Ero preso da una forte curiosità, ero quasi indisponente verso la scena Post Rock italiana, sapevo che il loro disco mi avrebbe fatto contento. Ecco Kanaval, uscito alla metà di Dicembre negli USA per la Already Dead Tapes & Records di Chicago e in Europa per la DeAmbula Records, Riff Records, la belga Hyphen Records e Icore Prod (prendo in prestito qualche riga dal comunicato stampa). In Kanaval collaborano artisti esageratamente sperimentali come Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust), Gioele Valenti (Herself), mentre mix, mastering e produzione sono portati a termine niente di meno che da Toshi Kasai dei Melvins (che ha anche suonato nel disco). Siamo tutti d’accordo che già le buone premesse senza ascoltare il disco ci sono praticamente tutte? Almeno gli incredienti sembrano essere di eccelsa qualità. Poi inizia l’ascolto, le atmosfere iniziano ad assumere strane connotazioni, usciamo dal mondo reale per attraversare il confine che porta sul pianeta dei The Marigold, “Organ-Grinder”. Chitarroni pesanti come macigni, distorsioni indiavolate, provo brividi nell’ascoltare “Magmantra”. Grunge affetto da una malattia incurabile in “Sick Transit Gloria Mundi”, noise, il pezzo è anche cantato (cosa rara nel disco), la ritmica riesce a portarsi via le ormai deboli ossa del collo. Kanaval diffonde nel mio corpo forti sensazioni contrastanti, voglia di subire, voglia di arrogarmi il diritto di essere il padrone dell’intero mondo. Sento il bisogno di piangere, subito dopo rido in maniera istericamente incontrollata. Particolarmente in “Third, Melancholia”, avverto una forte complicazione del sistema nervoso, saranno gli effetti lanciati a disegnare infiniti cerchi concentrici che spappolano tutto il sistema emotivo. Non capisco bene il perché ma perdo facilmente il controllo, ho sempre il fiato sul collo (“So Say We All”). A chiudere il lavoro “Demon Leech”, una cavalcata mentale lunga quasi dieci minuti durante i quali le emozioni assumeranno i comportamenti più disparati, una paralisi del corpo scatena una iperattività del cervello. I The Marigold sanno sperimentare come pochi in Italia, sanno contornarsi di artisti importanti, ogni loro disco rappresenta sempre una sorpresa. La banalità non esiste nel dna di questa band, hanno la capacità di trascinare l’ascoltatore dove vogliono, hanno il potere di scrivere grandi dischi, hanno il difetto di essere italiani. Kanaval è un grande disco, poca roba raggiunge questi livelli in Italia, iniziamo a valorizzare quello che realmente vale.
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The Marigold – Kanaval
Uscita USA per il nuovo dei The Marigold: Kanaval.
DeAmbula Press è lieta di annunciare l’uscita americana di Kanaval, nuovo disco dei The Marigold, band capitanata da Marco Campitelli (DeAmbula Records), su Already Dead Tapes & Records (Chicago, USA). Post Noise, Psych Rock e sperimentazione sono il fulcro su cui gira un lavoro diretto e sfrontato. Il disco, prodotto, missato e masterizzato da Toshi Kasai (Melvins), vede la collaborazione di Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust) e Gioele Valenti (Herself).
Helmet, 20esimo anniversario dell’uscita di Betty e tour europeo
In occasione del ventennale dell’uscita di Betty, gli Helmet punta di diamante dell’Alternative Metal statunitense – annunciano un tour europeo nei mesi di settembre e ottobre. Il tour toccherà anche l’Italia con 4 concerti nei quali l’album verrà suonato dall’inizio alla fine, insieme anche ad altri successi del loro repertorio. Betty, pubblicato da Interscope nel 1994 dopo il successo mainstream di “Meantime” , ricevette un enorme successo di critica e pubblico e all’epoca venne accolto come “sperimentale” per l’introduzione di elementi Jazz, Blues, di improvvisazione e per la sua capacità di offrire qualcosa di alternativo rispetto alle band Grunge che spopolavano in quel periodo negli USA. Il pezzo “Milquetost” – inserito nella colonna sonora del film “Il Corvo” – divenne un classico nella programmazione di MTV in quell’anno.
16 Ottobre @ Circolo degli Artisti, Roma
17 Ottobre @ Bronson, Ravenna
18 Ottobre @ RNR Arena, Romagnano Sesia (No)
19 Ottobre @ Fabrik, Cagliari
Le Formiche – Figli di Nessuno
Un disco Rock è sempre un disco Rock. Poi se una band si chiama Le Formiche il misticismo della parola Rock assume significati indefiniti. O meglio, Le Formiche suona come un nome indiscutibilmente anti trendy per una band attuale, a qualcuno potrebbe anche fare schifo ma per me è amore a prima vista. Poi leggo il comunicato stampa e scopro il segreto di questo nome, il cantante e presumo leader della band si chiama Giuseppe LaFormica. Noooo!!!!! Non è una (re)invenzione “originale” come pensavo! Sai quei gruppi italiani anni sessanta tipo I Camaleonti, I Corvi, I Dik Dik, I Delfini etc. Ok Le Formiche mi facevano pensare a questo. Il loro primo disco ufficiale esce sotto etichetta 800A Records e prende il nome di Figli di Nessuno. Le Formiche mettono da subito in evidenza l’abilità nel raccontare in musica i fatti e le storie dei quartieri difficili della loro città d’origine Palermo, dalle rapine alla vita in prigione passando per storie d’amore e voglia di riscatto. Un disco impegnato. Il vero Rock deve essere impegnato o quantomeno dovrebbe aprire gli occhi.
Figli di Nessuno si apre con “Non ho un Lavoro”, titolo perfettamente legato all’attuale situazione lavorativa nel Bel Paese. Rock classico dalle influenze Blues, niente di italiano a parte la voce da cantautore tipico tricolore. Infatti leggo che il mastering è stato affidato a JD Foster dei Montrose Studio di Richmond. Dicevo io, quindi non c’entrano niente con i Dik Dik, il sound è tutto american old style. Molto Country la succesiva “Storie da Prigione” pezzo simbolo della loro attività live nelle carceri, molto cantautorato alla Edoardo Bennato. Viene voglia di ballare sebbene il testo non lo consentirebbe. Figli di Nessuno scorre liscio senza intoppi nelle successive canzoni “Fortuna” e “Le Bombe”, sentori USA sempre in prima linea. Stranamente sento poco il contagio di Springsteen e questo per qualche anomala ragione mi rende sereno, un disco di Rock americano che non subisce le attitudini del Boss è roba da non credere. Però a pensarci bene qualcosina springsteeniana si sente in “Sam Cardinella”, testo scritto sopra una vera storia di un condannato a morte. Le Formiche capiscono bene la loro condizione di rockers fuori sede proponendo musica leggera e orecchiabile, consapevoli della semplicità del loro prodotto buttano nel disco pezzi satellite come “Mio Fratello”, “Occhio per Occhio” e “La Tristizza” (in dialetto). “Figli di Nessuno” il brano che chiude l’omonimo disco appare come una ballata intramontabile dalle atmosfere cupe, una chiusura poco allegra ma molto intima. Le Formiche dopo due precedenti demo arrivano alla maturità artistica con il petto pieno d’orgoglio, la passione per la musica non conosce generi, il loro album sicuramente fuori dal tempo è il manifesto di una generazione legata al passato che non accetta il futuro. Figli di Nessuno accontenterà quella fetta di persone nostalgiche amanti del Rock Made in USA. Chi dice che il Rock è morto?
DREAM OF BEES è il nuovo video delle LILIES ON MARS
Nuovo video per le Lilies on Mars da Dot to Dot il nuovo album uscito sotto etichetta Saint Marie Records (USA) e Long Song Records (IT).
Nel video, la cui regia è stata affidata a Daniele Arca, si racconta la storia di una robot umanoide che cerca il significato della sua vera esistenza. Lavora in un call center e comincia a perdere il contatto con l’interazione umana, trovandosi a vagare nella notte e entra in una nuova dimensione, via dalla sua miserabile esistenza. Un video ed una canzone decisamente toccanti.
Buona visione.
Tiger! Shit! Tiger! Tiger! – Forever Young
Picchia duro Forever Young dei Tiger! Shit! Tiger! Tiger!. Picchia talmente duro che la testa si spacca in due. La sensazione è quella del sudicio locale sudato nell’underground di New York, sembra quasi di bere birra con Thurston More fantasticando sulle dimensioni del pene di Kim Gordon, una presa diretta con l’illusione concreta del live, un Indie Rock made in USA. Non potrebbe essere altrimenti, a pensarlo registrato diversamente mi viene quasi un conato irrefrenabile e capisco che questo è il modo perfetto per spezzare la classica monotonia. Insomma, non è la solita cosetta Indie italiana modaiola e fighetta dallo spessore limitato, qui la musica esce fuori dal supporto materializzandosi improvvisamente. Che poi il concetto di fighetto possa assumere altre dimensioni sta all’ascoltatore deciderlo, in questo caso direi senza pelazzi increspati sulla lingua che Forever Young è roba Figa con la F maiuscola.
Dal primo pezzo che titola l’album vengono subito via tutti i dubbiosi preconcetti, Forever Young parte violento e incessantemente martellante (con “Forever Young”), chitarre storte che prendono largo anticipo sulla mia visione delle cose e poi stiracchio le gambe al suolo. Come essere calpestati da un escavatore e provare piacere. “Golden Age” mischia entusiasmo e tristezza, come alitare sulla propria immagine allo specchio. “Twins” t’ingoia per poi risputarti, echi di batteria incontrollabili. Per qualche assurdo motivo sento avanzare una tachicardia inspiegabile, ci sarebbe da lasciarsi scoppiare il cuore nella cassa toracica. Bellezza del sound sporco in “Whirlwind Weekend”. Poi il susseguirsi del percorso di Forever Young mantiene sempre una logica precisa, la gradazione continua a salire e l’enfasi del disco non lascia speranza a chi cercava di disfarsene senza rimanerne coinvolto. Le tempeste nella mente vengono pian piano spazzate via dalla più esplosiva “Rage”, volentieri accolta dal mio corpo come l’ultimo Negroni delle quattro del mattino, insostituibile.
I Tiger! Shit! Tiger! Tiger! scommettono molto su questo lavoro mettendo sul piatto un sapore difficile per intenditori dal palato fine, non esiste mai quella volgare banalità che a tutti farebbe comodo ascoltare per non ritrovarsi a fare i conti con della roba in grado di estrapolare sensazioni nascoste con le quali vigliaccamente non vogliamo avere a che fare. Forever Young rimane sul gradino alto della musica scritta in questi ultimi periodi, un disco concettualmente mirato e suonato con una verve prepotentemente fuori dal comune, erano anni che non sentivo un suono che allo stesso tempo esprimesse rabbia e felicità con una naturalezza impressionante. I Tiger! Shit! Tiger! Tiger! trovano il giusto equilibrio in questo disco arrivando finalmente ad assumere una propria identità artistica, adesso sarei in grado di riconoscerli fin dalla prima nota, loro hanno saputo crearsi una fisionomia ben precisa che nessuno ormai riuscirà a staccargli dalla pelle. Forever Young è roba grande da godersi senza troppe precauzioni. E poi adoro i riverberi.
Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Sessanta
Anni 60, quanti ricordi. Ad essere sinceri nessuno, perché in quel decennio anche mio padre era, al massimo, solo un adolescente. Eppure ogni cosa che ha riguardato la nostra vita, un disco, un film, un vestito, un pensiero, ha a che vedere con i Sixties. Erano gli anni della guerra fredda di Usa e Urss e di Cuba, del terremoto in Cile, di Martin Luther King e Jurij Gagarin, del muro di Berlino, dell’avvento dei Beatles, dei Rolling Stones e del Papa buono. Gli ultimi anni di Marylin, Malcom X e John Fitzgerald Kennedy. Gli anni di Chruščёv e della minigonna, del Vietnam e della Olivetti, di Mao e del Che, della primavera di Praga e dei Patti di Varsavia, di Reagan e degli hippy, del pacifismo e dell’anarchia felice. Gli anni dei fascisti e dei comunisti, della British Invasion e di Mina, di Kubrick, della Vespa, della 500, di Carosello e di Celentano. Gli anni della contestazione studentesca e dell’uomo sulla luna, gli anni di Woodstock, delle droghe, della psichedelia e gli anni del Rock perché quegli anni sono le fondamenta solide su cui poggia tutta la musica (o quasi) che ascoltate oggi.
A scadenze non prefissate, Rockambula vi proporrà la sua Top Ten di determinate categorie e questa di seguito è proprio la Top Ten stilata dalla redazione in merito agli album più belli, strabilianti, influenti e memorabili usciti nel mondo nei mitici, impareggiabili anni 60. Nei commenti, diteci la vostra Top Ten!
1) The Velvet Underground – The Velvet Underground & Nico
2) Jimy Hendrix – Are You Experienced
3) The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
4) The Doors – The Doors
5) Led Zeppelin – Led Zeppelin II
6) Pink Floyd – The Piper at the Gates of Dawn
7) Bob Dylan – The Freewheelin’ Bob Dylan
8) Led Zeppelin – Led Zeppelin
9) David Bowie – David Bowie (Space Oddity)
10) The Stooges – The Stooges
Vincono Cale, Reed e Nico con la loro banana gialla disegnata da Andy Warhol ma la presenza di Hendrix e The Stooges in Top Ten la dice lunga su quanto, a noi di Rockambula, piacciano le ruvide e sperimentali distorsioni dei mitici Sixties. Ovviamente non potevano mancare The Beatles, i re del Pop di quegli anni, presenti con uno dei loro capolavori assoluti, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, mentre la scena Psych Rock, formidabile nei Sessanta, è rappresentata degnamente grazie all’esordio dei Pink Floyd con Syd Barrett ancora in grado di esserne l’anima e l’omonimo The Doors. Chiudono la lista uno dei più grandi cantautori mai esistiti con The Freewheelin’ Bob Dylan, il re del Glam Rock David Bowie e l’unica band capace di piazzare nei primi dieci posti ben due album, ovvero i Led Zeppelin.
Esclusi eccellenti, anche se citati dai nostri redattori, i Beach Boys con Pet Sounds, Frank Zappa, Captain Beefheart e, udite udite, i Rolling Stones.
Ora potete iniziare a urlare le vostre Top Ten!
Benny Moschini – Sono Qui Ancora
E’ uscito il 5 aprile scorso il primo singolo dell’atteso album Sono Qui Ancora di Benny Moschini, cantante napoletano classe 1982. Il videoclip che lancia l’omonimo singolo è stato diretto dal videomaker Paolo Bertazza e sta ottenendo un notevole successo di pubblico: le visualizzazioni su Youtube in poco più di un mese sono andate oltre le 260.000. L’album sembra essere la giusta fusione tra Rock made in Italy e il Rock americano, condito con testi profondi e riflessivi.
Moschini è un giovane di talento che ha studiato sin da piccolo pianoforte e canto, ha viaggiato e scoperto nuove terre e nuovi sound che è stato in grado di riportare poi nella sua musica. Ha iniziato come DJ Funky/Soul, ha toccato i lidi della Costa Smeralda, finché è stato notato ed è cominciata la sua carriera come cantante e cantautore. Siamo nel 2010 e le radio indipendenti impazziscono per il suo brano “Rabbia”, che viene riproposto in una nuova versione anche in questo disco.
Oggi è la volta di Sono Qui Ancora, album composto di dodici tracce dallo stile deciso che ci regala canzoni dai testi malinconici, romantici, nostalgici e arrabbiati, che non annoiano mai, grazie anche al sound targato Usa e alla voce tagliente di Benny.
Il disco ha goduto della direzione artistica di Renato Droghetti, che ha collaborato in studio anche con artisti importanti: gli Stadio, Edoardo Bennato e Paolo Meneguzzi,solo per citarne qualcuno.
L’album contiene anche il primo singolo estratto in versione inglese “I’m Here Again” che andrà ad assecondare i desideri dei fan club in Arizona e Canada, ma anche dello stesso cantante. In un’intervista Moschini ha dichiarato che al primo release seguirà la versione in inglese e forse anche in spagnolo.
Benny Moschini sembra essere un cantautore determinato e desideroso di raggiungere un pubblico molto vasto, senza limitarsi al Bel Paese e le premesse qui pare ci siano proprio tutte.