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A Night Like This Festival @ Chiaverano (TO) 15-16-17/07/2016

Written by Live Report

Quando si torna a casa dopo un festival di tre giorni, la sensazione è sempre quella di aver mangiato troppo. E così è stato anche al ritorno da Chiaverano. Ho seguito 22 concerti in una location mozzafiato, in compagnia di gente splendida, nutrita da ottimo cibo, alla presenza di un cielo che il Piemonte non è solito regalare così facilmente! Il senso di appagamento che mi ha dato A Night Like This Festival è stato tanto anche se, musicalmente parlando, non ho mai raggiunto un’apice di piacere durante nessuna delle esibizioni. Ho confermato alcune ipotesi, rafforzato delle certezze, confutato vecchie teorie, fatto qualche bella scoperta e provato anche disappunto e turbamento. Di seguito riporterò alcuni degli stati d’animo che ho vissuto durante le esibizioni live. Mi concentrerò sulle band che mi hanno maggiormente colpito, nel bene e nel male. Qualche gruppo purtroppo non sono riuscita a seguirlo, vuoi a causa di qualche sovrapposizione, vuoi per la necessità di espletare le mie funzioni vitali. Non me ne vogliate, sono umana anch’io. Dovranno perdonarmi anche tutte le band che si sono esibite sul “Palco dell’Esploratore”. L’acustica era pessima, e a causa di ciò non me la sento di esprimere pareri su qualcuno di voi. Prometto di venirvi a cercare, per ascoltarvi ancora.

“LE CERTEZZE DELLA VITA
WE ARE WAVES | di certo non hanno bisogno di presentazioni qui su Rockambula. Fabio Viax Viassone come al solito non si è risparmiato sul palco, e Cesare Corso, nascosto come sempre dietro un cappuccio, ha creato la magica atmosfera synth che tanto amiamo. Redoglia e Menegatti, batteria e basso, non da meno degli altri due, per regalarci un’esibizione carica di energia.

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♦BE FOREST | è un’immersione nella quiete notturna di un bosco, la loro esibizione. Qualcuno tra il pubblico ha il coraggio di gridare“siete mosci”, forse perché la loro esibizione arriva subito dopo quella, decisamente più energica, dei The Temper Trap. Ma che cavolo dici? Sono i Be Forest! Che t’aspettavi? Un attacco con le maracas e poi subito dopo “Maracaibo” cantata dal vivo? Ok, mi ricompongo. I Be Forest sono un po’ agitati per via di qualche discussione con i fonici. Poi tutto passa, ed è magia.

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“UN’ILLUMINAZIONE DIVINA”
♦LUMINAL | fino ad oggi, alla fine di un concerto dei Luminal, mi facevo sempre la solita domanda: ma perché hanno bisogno di fare tutte quelle scene, non possono suonare e basta? Già. Perché chi è stato ad un concerto dei Luminal sa bene in che modo viene coinvolto il pubblico, un modo che va ben oltre l’attitudine Punk di scendere da un palco e cercare un forte contatto col pubblico. Carlo Martinelli  ti si appiccica addosso dopo aver strisciato a terra come un verme, e Alessandra Perna improvvisa Valzer con ignare (?) pulzelle. Finalmente ho una risposta a tutto questo: i Luminal prendono per il culo, dall’inizio alla fine, le nostre vite piatte e insignificanti. E ho dovuto assistere ad una loro esibizione davanti ad un pubblico probabilmente assiduo ascoltatore delle canzuncelle “Indie” nostrane per capirlo. I Luminal ci dicono di fare qualsiasi cosa pur di movimentare le nostre vite, anche prenderci una malattia venerea, piuttosto. Per qualcuno dei presenti la loro esibizione è forse una delle maggiori emozioni musicali che hanno vissuto in tutta la loro vita. Per altri è un ritorno al Punk che ascoltavano durante l’adolescenza, declassato e messo da parte chissà quando, chissà perché. Per altri sono la feccia alla quale non assomiglieranno mai. Un esempio? La ragazza che mi sta accanto, e che in faccia ha una maschera a forma delle facce di tutte le donne citate in “Donne (Du  Du Du)” guarda schifata Alessandra e dice Ma come cazzo si è vestita?. Chissà da quanto tempo non si schifava così. Che momento di pura umanità. Quanta bellezza.

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LE PIACEVOLI SCOPERTE
♦BIRTHH | si, Birthh l’ho scoperta a Chiaverano. Prima dalle parole di un’addetta ai lavori del settore Radio, poi dal vivo. Questa donna, di corporatura minuta, conserva dentro di sé un enorme patrimonio emotivo che ben riesce ad esprimere e a trasmettere sul palco. Non ero pronta, in quel momento ho raccolto il maggior numero di percezioni e me le sono tenute strette. Born in the Woods me lo sono gustato a casa, per bene. È stato bellissimo.

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♦BONETTI | intuisco che Bonetti è di Torino, o del Piemonte, o nessuno dei due, ma poco importa. Nella mia impegnativa attività di frequentatrice di concerti non mi era mai capitato di incontrarlo. Il suo è un Cantautorato Pop apparentemente semplice, che però riesce ad emergere dal coro per qualche strana alchimia. Mi tengo stretto questo suono, e studierò meglio il fenomeno. Ad A Night Like This Festival si è esibito accompagnato dai Van Halen.

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♦LO STRANIERO | a dire il vero avevo già ascoltato il loro disco omonimo e a Chiaverano abbiamo avuto modo di fare due chiacchiere che presto leggerete su questi schermi. Piemontesi anche loro, si esibiscono con grinta, ma il loro suono è lontano da quello del disco, che tanto mi è piaciuto. Complice di sicuro l’acustica pessima de “Il Palco dell’Esploratore”, come dicevo sopra (ho ancora in mente l’esibizione dell’anno scorso di Iosonouncane, uno dei più bei dischi italiani torturato da un suono pessimo). Ed è un vero peccato. Spero di poterli riascoltare ancora, in condizioni più favorevoli, e che il loro Elettro-Pop emerga forte e vigoroso, come sono sicura che sia.

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PENSAVO FOSSE AMORE, E INVECE NO
♦THE TEMPER TRAP | lo ammetto, arrivo al concerto impreparata su di loro, ma di tanto in tanto mi piace farmi sorprendere dalla musica. Li avevo ascoltati molto ai tempi dell’immortale “Sweet Disposition”, dopo di che li ho persi di vista. Sono loro i veri headliner della serata, gli artisti di fama internazionale, mi aspetto scintille. La loro esibizione è stata di certo notevole, ma scintille a mio avviso non ce ne sono state.

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♦VERANO | Verano si esibisce venerdì sera, ma ci arrivo in ritardo, il montaggio della tenda ha richiesto più tempo del dovuto. Al “Palco del Quieto Vivere” c’è questa rossa indemoniata che brandisce una chitarra e ci dichiara guerra a colpi di suono. Ma la guerra per me dura pochissimo, il concerto finisce subito dopo. Non so niente di lei, mi prometto di tornare a casa e documentarmi, lo faccio. Scopro che Verano è il nuovo progetto di Anna Viganò de l’ Officina della Camomilla. Ascolto. E che fine ha fatto la guerra? Dov’è quella chitarra brandita con così tanto vigore? Decisamente meglio in versione live.

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Oddu – Genealogia delle Montagne

Written by Recensioni

Li si conosceva già, e non solo nell’underground piemontese, quando erano i Baroque. Sonorità Pop anni ’80, tastiere tastiere tastiere, smalto scuro sulle dita e declamato teatrale. Molto del progetto Baroque è rimasto negli Oddu, per quanto la formazione sia cambiata e siano cambiate anche le influenze, le matrici, l’età anagrafica (che comunque non è un dato trascurabile) e l’intenzione.

“Quattro Inverni” ha un’intro fresca, che dall’Indie americano scende nel cantautorato nostrano alla Tozzi, mentre “Nella Prossima Vita” strizza l’occhio al Folk Pop dei Mumford and Sons. E in due sole tracce gli Oddu sono riusciti a farci capire la babilonia di ispirazioni che sottostanno alla fase compositiva. “Atlanti Perduti” è figlia dell’esigenza di raccontare e raccontarsi, con quelle liriche impegnate e il cantato che piega il virtuosismo alla narrazione semplice e lineare; “Mostro Cammina” sa di pioggia e Francia, per dirla con Paolo Conte. Personalmente, poi, mi ha ricordato tantissimo La Rue Ketanou (se non li conoscete sarebbe più che opportuno rimediare). Con “I Buchi sul Sedere” sbucano le ceneri dei Baroque, gli anni ’80, una certa nostalgia Glam. “Un Cuore Buono” apre in maniera molto intima e introversa, con la delicatezza del piano che tratteggia un’atmosfera un po’ cupa, che si trasforma, di nuovo, in Popular, in Folk.
E gli Oddu sembrano, fin qui, averci fatto vedere tutto quello che sanno, pure forse in maniera un po’ troppo articolata e complessa. Eppure non abbiamo ancora sentito tutto: “Battisti” è una sorta di scherzo elettronico citazionistico, da Battiato (più che da Battisti) a “Jump” di Van Halen, dai Bluvertigo dei tempi d’oro a contrappunti Jazz.
L’unico leitmotiv che sembra davvero omogeineizzare la produzione degli Oddu è la nostalgia per un passato musicale glorioso, come sembra confermare anche “Non Fate Mai la Carità”: a tutti gli effetti un semplice brano cantautorale, dove però (e forse, per i tempi che corrono, stranamente), non si guarda a Capossela o Mannarino, ma più indietro, a Rino Gaetano e De Gregori, senza neppure pensare di scomodare l’inflazionato De Andrè. E’ una scrittura complessa quella degli Oddu, elitaria, macchiata dalla saudade aristocratica per i bei tempi che furono, più che animata dall’entusiasmo borghese.
“Savona 12 dicembre 2011” completa il quadro dell’eclettismo della band. Troviamo tutto: la formazione accademica, lo studio del pianoforte, il litigio con le maglie larghe del Pop-Rock. La chiusura di “Genealogia delle Montagne” è aulica e imponente sul piano fonico, un tributo al Progressive Rock, per tornare al principio.

Non è un disco semplice. Affatto. Manca qualcosa che guidi l’ascoltatore in un percorso, manca un’unità di intenti e narrazione, ma, lasciatemelo dire, è forse uno dei più interessanti lavori indipendenti che mi sia capitato di ascoltare. Un grande potenziale che spero gli Oddu sappiano incanalare nella giusta direzione comunicativa e sviluppare.

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Philm

Written by Live Report

La notizia del concerto dei Philm a Pescara circolava già da diverso tempo nell’ambiente e per questo l’attesa era tanta come lo era pure l’hype generato. Non capita spesso che rockstar mondiali passino per il capoluogo adriatico e bisogna pertanto lodare gli sforzi effettuati dalla Skeptic Agency e dallo staff dell’Orange Rock Pub (che ringraziamo anche per la collaborazione e il supporto) , soprattutto quando eventi di tale portata vengono offerti al proprio pubblico ad un costo davvero irrisorio (soli 10 euro per il biglietto di ingresso) e bisogna anche rimarcare che ad aggiungere un valore indotto al tutto c’è stata anche l’esibizione dei Noumeno, una vera e propria furia sonora proveniente da Roma.

noumeno

La band è nata nel lontano 2007 ed è attualmente costituita da Emanuele Calvelli (basso), Emiliano Cantiano (batteria), Danilo Carrabino (chitarre) e Matteo Salvarezza (chitarre). Quattro elementi che fanno della tecnica il loro punto di forza e che hanno saputo intrattenere i presenti per quasi un’ora con un perfetto mix di Prog, Death e Rock. Tante le influenze che il gruppo ama citare nella propria biografia (si va dai Cacophony a Jason Becker, dai Racer X ai Death, dai Rush ai Mr.Big, passando per Symphony X, Meshuggah, Liquid Tension Experiment, Angra, Van Halen e Greg Howe) ma dietro ci sono anche tante ore di sala prove, perché la perfezione si raggiunge sì studiando e riproducendo i propri idoli, ma anche eseguendo i propri brani per decine e decine di volte cambiandone a volte anche gli arrangiamenti.

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Non voglio esagerare, ma l’impressione che si ha ascoltandoli dal vivo, è che la loro preparazione e il loro affiatamento sia pari a quello di colleghi affermati quali PorcupineTree e Toto. Pochi i brani (purtroppo) proposti, ma tanta l’energia diffusa su tutti. Del resto l’organizzazione era stata chiara: inizio dei concerti ore 21:00 e gli orari sono stati rispettati quasi al minuto. Verso le 22:00 è arrivato il tanto atteso momento: sua maestà Dave Lombardo è entrato nel locale rifugiandosi subito nell’area backstage dove a fine concerto non esiterà insieme ai suoi compagni Gerry Nestler (voce/chitarra)

Gerry Nestler

e Pancho Tomaselli (basso)

Pancho Tomaselli2

a concedersi per foto e autografi ai fan accorsi per l’occasione. Nel poco tempo intercorso fra il suo arrivo e l’inizio della performance dei Philm viene anche allestito il banchetto del merchandising dove è stato possibile acquistare i prodotti ufficiali quali magliette, cd e vinile del capolavoro in studio del gruppo, Fire From the Evening Sun, uscito per la Udr nel 2014. La scaletta del concerto prevede ben quattordici canzoni così ripartite: otto estratti da quest’ultimo lavoro, cinque dal precedente Harmonic, pubblicato nel maggio 2012 dall’etichetta fondata da Greg Werckman e Mike Patton, la IpecacRecordings, e un inedito con cui si concluderà la serata.Dave Lombardo esibisce tutta la sua tecnica costruita in oltre tre decadi di carriera, fatte di centinaia di concerti in tutto il mondo e di dischi in band quali Slayer, GripInc. e Fantômas dicollaborazioni con John Zorn, Testament e Apocalyptica. Precisissimo nell’esecuzione, è talmente accurato da concedersi anche un paio di interruzioni per mettere mano al suo drum kit. Sarà infatti indispensabile persino l’intervento di un fan, che gli presterà la chiave con cui accorderà la batteria, e del suo road manager. Il pubblico entusiasta lo guarda con idolatria, ma insieme a lui ci sono anche due validi musicisti senza i quali i Philm non avrebbero natura di esistere. La musica dei Philm è anni luce diversa da quanto fatto in precedenza. Lo stesso Dave Lombardo descrive il tutto in poche parole: “zero improvvisazione, zero fronzoli. La nostra musica ti ruggisce in faccia da inizio a fine. Noi proviamo a spingerci al di fuori della nostra zona di comfort e vogliamo che i nostri fan facciano lo stesso“. Difficile la catalogazione quindi nel loro caso, ma di certo tutto è tranne che Thrash. Qualcuno si chiede inoltre come Dave riesca a produrre tanti ritmi con un drum kit che è tutto sommato nella norma in quanto a grandezza. Ma in certi casi, si sa, la differenza la fa chi sta dietro le pelli. Tuttavia (ripeto) i Philm non sono un leader e due musicisti a supporto ma una vera e propria band. Il livello di preparazione di bassista e chitarrista è infatti invidiabile, entrambi si concedono diversi virtuosismi, cercano di conquistare anche loro il pubblico con la loro carica e il loro entusiasmo; Gerry sprizza sudore da tutte le parti e Pancho non sarà certo da meno (tanto da rimanere a torso nudo nella parte finale della setlist). La fine giunge implacabile verso le 23:00 ma tutti rimarranno molto soddisfatti da entrambe le performance sicuri di aver assistito a un evento che per anni (se non decenni) rimarrà nella memoria storica della città. Pescara e l’Abruzzo intero sono una piazza spesso trascurata dai big della musica mondiale ma per fortuna poi a noi utenti pensano realtà quali la Skeptic Agency e l’Orange che appena qualche giorno dopo hanno proposto anche i Karma to Burn, vere e proprie leggende dello Stoner Rock. Ma questa poi è un’altra storia…

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Highway Dream – Wonderful Race

Written by Recensioni

La fiera del clichè. Purtroppo questo e poco di più ci lascia questo disco dei cremonesi Highway Dream. Una grande esplosione di tecnica, di suoni pomposi, di brani troppo fini a se stessi. L’impressione di una band molto determinata, ma poco coesa e poco permeabile. Il gruppo, nato nel 2008, piazza un macchinone in copertina e sfodera un titolo a dir poco prevedibile. Wonderful Race è un mix tra Hard Rock di matrice anni 80 (Europe, Scorpions su tutti) con parecchie influenze che strizzano l’occhio al Metal più classico (il confine poi è davvero sottile). Insomma nessun rischio, nessuna aria nuova, ma anche nessuna frizzantezza nel puro revival. Il disco rimane incastonato in un non preciso periodo e si perde in fretta in architetture complicate e poco efficaci. La voce di Isabella Gorni è potente e precisa, ma non ha la cattiveria e l’arroganza dell’Hard Rock. I chitarroni pesanti fanno da padroni già in “Unbelivable”, riff con basso bello pompato che ricorda vagamente i fasti dei primi Van Halen. La melodia però è povera nel ritornello per nulla memorabile e con un raddoppio di batteria alquanto discutibile (ad onor del vero la mia allergia al doppio pedale non mi aiuta per niente!). La stessa formula si ripete pressochè immutata in “Don’t Let You Die”, il tutto si disperde di nuovo in parti strumentali ipercomplicate: assoli velocissimi, incastri basso e batteria poco direzionati al nudo e crudo groove. In “Highway Dream” c’è almeno un’aria 80’s che dona un po’ di senso al suono tamarro della sei corde e ai suoi incessanti assolazzi (spesso anche ben studiati e melodici in mezzo al mare di note). Lasciamo stare poi “Many Reason” dove oltre al mio “amico” doppio pedale intervengono anche sbrodolature di basso. La sensazione è che la grintosa Isabella arranchi, in un disco ricco di brani non propriamente adatti alle sue corde vocali poco rudi.

Anche le scelte sonore sono poco convincenti, poco graffianti e penalizzate dalla scarsa amalgama, la cura nel mix non sembra essere stata minuziosa. In ogni caso gli Highway Dream suonano obiettivamente bene e in alcuni frangenti sembrano avere i numeri per fare molto di più. Lo si sente nella tanto aspettata ballata “Let Me Be Your Breath”, dove ci attende un bell’arpeggio che ricorda “Californication” dei Red Hot Chili Peppers. E finalmente almeno sentiamo qualche atmosfera diversa, più aperta, ma comunque ancora troppo disgiunta e vaga, la tecnica e l’intenzione di volare ci sono ma sono frenate dal songwriting sempre troppo ancorato a terra e da idee che paiono rinchiuse in schemi scolastici. L’ultimo pezzo la dice lunga già dal titolo: “Born to Be a Rockstar” presenta solo un bello stacco alla Black Sabbath, sotterrato dal contorno piatto e insipido. La “fantastica gara” finisce qui e, ad essere onesto, mi sembra solo un gran luccicare di una bella auto con il motore pompato. Per dare spettacolo servirebbero forse qualche ammaccatura in più e dei guidatori ben più spericolati. Il motore c’è, speriamo che al prossimo giro venga fatto fumare come si deve.

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Old Man’s Cellar – Damaged Pearls

Written by Recensioni

A tre anni dalla pubblicazione dell’EP autoprodotto Wine & Swines (2010), gli emiliani Old Man’s Cellar sbarcano su Rockambula con il debut album Damaged Pearls (inciso nel 2011 presso il celebre Studio 73 di Ravenna e mixato con il prezioso contributo del produttore nostrano Riccardo Pasini). La compagine modenese, capitanata dal singer Riccardo Dalla Costa (Lost Breed), e composta dal talentuoso chitarrista Federico Verratti (Blackage, Fango, Neronova), Angelo Scollo (basso), Massimiliano Boni (tastiere) ed Andrea Fedrezzoni (batteria), propone un Melodic Hard Rock/Aor incisivo e frizzante, sulla scia di leggendarie band 80/90 come Toto, Extreme, Tnt, Danger Danger, Van Halen e Bon Jovi. Fin dal primissimo ascolto, l’album risulta strutturato in due distinti tronconi: il primo dal tiro energico e tagliente (vedi la title track “Damaged Pearls”, “The Years We Challenge” e “Undress Me Fast”), il secondo, invece, maggiormente improntato alla delicatezza di nostalgiche ballad come “Is This the Highest Wave?”, “Knees on the Straw”, “Still at Heart” e “Summer of the White Tiger”. Una tracklist più omogenea ed organica avrebbe senza dubbio giovato alla piena riuscita del progetto, evitando in tal modo i continui ed improvvisi dislivelli dinamici avvertibili tra brani di imprescindibile natura eterogenea, ma, almeno fin qui, si tratta di bazzecole. Innegabilmente apprezzabile, d’altro canto, la raffinata attitudine compositiva e tecnico/esecutiva del nostro quintetto: una sezione ritmica apparentemente semplice (ma compatta, essenziale e precisa), funge da sostegno al pregevole impianto chitarristico di Federico Verratti, perfettamente a suo agio nell’esecuzione magistrale di alternate picking, sweep picking e bending dal caratteristico sapore “bettencourtiano”.

Una linea vocale sfruttata in maniera piuttosto soddisfacente, senza strafare, evitando i fastidiosi arzigogoli tipici del genere, ed una tastiera relegata (negli angoli più remoti del mix) a partiture di puro ed esclusivo riempimento. Peccato. Una produzione nitida e cristallina, un full length guidato da (sincera) passione dove ogni singolo elemento trova la sua ideale collocazione nel multiforme tessuto armonico/melodico; tuttavia la cifra stilistica, eccessivamente legata ai vetusti archetipi del genere, si mantiene pressoché analoga e costante per oltre cinquantadue minuti, al punto da risultare anacronistica, monotona, fastidiosa, saccente (deboli e sparuti i tentativi di “presunta” modernizzazione sonora, quasi al limite del ridicolo, come l’utilizzo di agghiaccianti ed elementari drum machines nel brano “Don’t Care What’s Next”). Insomma, seguendo quale logica o astrusa farneticazione dovrei acquistare Damaged Pearls e non un vecchio album dei Toto, degli Extreme, o dei Danger Danger? Nel sovraffollato modello economico/commerciale della Long Tail, l’originalità é tutto ragazzi. Non esiste altra via, per quanto vi sforziate nel cercarla. Datemi una sola ragione, e diventerò il vostro primo fan, parola di boy scout. Ai posteri l’ardua sentenza.

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