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Dal piccolo al grande sé nel nuovo album “Flare Up” – Intervista a Adult Matters

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Futura 1993 ha fatto quattro chiacchiere con Luigi Bussotti dopo l’uscita del disco.
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Recensioni #04.2018 – Tutte Le Cose Inutili / I’m Not A Blonde / Glen Hansard / Jeff Rosenstock / Dirtmusic

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #27.01.2017

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Mike Spine – Forage&Glean

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L’artista di Seattle fa le cose in grande e pubblica per la Global Seepej Records questo doppio best of che raccoglie le sue migliori canzoni divise in due diverse anime, quella più Folk del volume uno e quella più Punk del volume due. Dopo dieci album all’attivo, Mike Spine, nato nella terra del Grunge ma che divide la sua vita con l’Europa, pubblica per la prima volta un lavoro nel vecchio continente ed anche per questo motivo il suo nome non è ancora materia per le masse, nonostante abbia suonato in ogni dove dividendo il palco con Los Lobos, Creedence Clearwater Revisited, Damien Jurado e tanti altri. Pur non essendo eccessivamente legati stilisticamente, se si esclude la materia prima Folk, la figura di Spine e le sue liriche quasi seguono il solco di quel Billy Bragg che fu strenuo avversario del thatcherismo in Inghilterra. Mike Spine, come il britannico, usa la sua musica, le sue parole e la sua voce per raccontare le vicende e le esperienze dei lavoratori delle diverse città in cui ha soggiornato, osteggiando le ingiustizie sociali, finanziarie e ambientali tanto nei fatti quanto artisticamente. Proprio Billy Bragg affermava: “Io non sono un cantautore politico. Sono un cantautore onesto e cerco di scrivere onestamente su ciò che vedo intorno a me in questo momento”. Questa frase trova altresì applicazione in Spine e quest’onestà la ritroveremo in tutte le trentadue canzoni che compongono Forage&Glean, registrate, per la cronaca, negli studi Haywire Recording di Portland da Rob Bartleson (Wilco, Pink Martini) e masterizzato da Ed Brooks (Pearl Jam, R.E.M.) a Seattle. Prima di giungere a questa raccolta, il musicista ha militato nella band At the Spine pubblicando cinque album che miscelavano il Punk ricercato di The Clash, alla potenza del Post Hardcore, l’intensità di Neil Young al Grunge dei Nirvana; nel 2010 la prima svolta con la band The Beautiful Sunsets, con cui pubblica Coalminers & Moonshiners e, finalmente, nel 2015, il primo album solista; nel mezzo, una serie incredibile di concerti e un tour europeo con la polistrumentista Barbara Luna. Forage&Glean non è dunque semplicemente un’ammucchiata di vecchie canzoni ma un viaggio a ritroso nella vita di Spine, che ripercorre le sue esperienze artistiche e di vita dall’oggi agli esordi, dall’Europa agli States, impreziosendosi delle tante anime con cui è entrato in contatto.

Stilisticamente, oltre ad una voce accattivante che, nella timbrica, molto ricorda quella del cantautore di Huddersfield, Merz, tutte le influenze già citate si ritrovano con una certa facilità, e se nella prima parte è il folk e la melodia a farla da padrone, con pezzi che lasciano spaziare la mente tra reminiscenze di Dylan, Young e Van Morrison, il secondo volume è di tutt’altra fattura, con pezzi veloci, aggressivi, che si distaccano dal Folk per inseguire un alternative e Hard Rock dall’attitudine Punk totalmente inaspettato viste le premesse dei primi brani tanto che andrebbero scomodati termini di paragone quali Beck, Pixies o Sonic Youth per rendere l’idea ma anche Okkerville River pur consapevoli che tra Spine e Will Sheff c’è una bella differenza a favore di quest’ultimo.

Detto tutto questo ci si aspetterebbe un apprezzamento incondizionato a Forage&Glean ma non è così perché, se è vero che la varietà stilistica espressa può accontentare palati dalla diversa sensibilità e se apprezzabilissimo è il tema dell’impegno sociale, è anche vero che questa sorta di punto di arrivo per Spine, vuole essere anche un punto di partenza per puntare a un pubblico più ampio, il quale rischia di finire in confusione per la troppa carne messa sul fuoco. Si aggiunga a questo il fatto che la proposta vista da ogni punto di vista non ha nulla di originale e che le doti del musicista di Seattle sono ben lontane da quelle dei suoi padri putativi ecco che viene a forgiarsi un giudizio che non può andare oltre una timida valutazione.

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Peter Piek – Cut Out the Dying Stuff

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Il poliedrico artista teutonico, polistrumentista, cantautore e pittore oltre che fondatore della comunità artistica del PPZK, nato Peter Piechaczyk a Karl Marx Stadt, oggi Chemnitz, trentatré anni orsono, ricompare con un nuovo prodotto disegnato sapientemente per elevare la sua sfavillante voce oltre la banale beatitudine. Una voce fantasticamente imperfetta, almeno al primo ascolto e solo nella timbrica un po’ aspra ma che non impiega troppo a palesarsi in tutta la sua bellezza data anche da un’ampiezza vocale non comune. La sua veste di artista a tutto tondo prende forma in fase compositiva e anche durante le esibizioni live miscela musica e arte, facendo vedere foto scattate ascoltando brani e fornendo cuffie per udire i brani che hanno suggestionato i suoi quadri. Musica e pittura e arte in generale che si compenetrano, vicendevolmente e senza soluzione di continuità, lasciando emergere l’unica differenza tra le diverse espressioni artistiche rappresentata dal tempo. Questa sua triplice (non disdegna neanche il ruolo di scrittore) veste lo porta spesso a girovagare per la Germania e il mondo intero, dagli Stati Uniti alla Cina e proprio la promozione di Cut Out the Dying Stuff lo ha condotto anche a toccare i lidi della nostra penisola.

L’album è il terzo capitolo della saga personale di Peter Piechaczyk, dopo Say Hello to Peter Piek del 2006 e I Paint It on a Wall di circa quattro anni fa e rispecchia alla perfezione quell’aura d’internazionalità acquisita con le circa cinquecento esibizioni internazionali. La stessa opening altri non è che un’innamorata dedica alla città spagnola (“Girona”) ma non mancano intromissioni in terra inglese, cinese addirittura e ovviamente tedesca. Nonostante l’astrattismo possa essere definito come uno dei punti cardine per orientarsi nell’oceano pittorico di Piek non si può dire lo stesso della marea di note che danzano dentro i dodici brani di Cut Out the Dying Stuff. Al contrario, le liriche presentano strutture Pop melodiose e orecchiabili e raramente fuori dal comune e una forma canzone tutto sommato canonica e anche troppo lineare, con una miscela tra strumentazione sostanziale e arrangiamenti e voce che ricalca le più consone strade del Pop moderno che si affaccia presso i lidi del Contemporary R&B, del Pop Soul, del Cantautorato alternativo e dell’Indie.

Le canzoni di Piek nascono dentro dialoghi spirituali tra la parte più intima del sé e quella che è l’esteriorizzazione artistica della propria anima, sulle orme dei grandi artisti del passato, da Neil Young a Dylan, da Nick Drake a Van Morrison, sempre però con una carica tipica piuttosto di un certo Britpop in stile Oasis o Blur. L’opera di Peter Piek non è, dunque, destinata a cambiare le sorti del mondo, neanche di quel piccolo universo chiamato Musica eppure trasuda amore e libertà, indipendenza che solo certi artisti possono veramente sventolare come un drappo di vittoria al cielo, autonomia da etichette, mercato, autogestione espressiva totale e che non necessariamente deve collimare con concetti legati all’estremizzazione di avanguardie e sperimentazione. Un disco per chi ama, fatto da un innamorato.

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