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Devendra Banhart – Mala

Written by Recensioni

La prestigiosa Nonesuch, nella quale stazionano Byrne e Veloso, con questo nuovo Mala, annovera d’ora in poi nel rooster il cantautore americano Devendra Benhart, che balza sulle scene dopo quattro anni di assenza dovuti a fermenti d’amore sulla rotta Serba con una stupenda ragazza di nome Ana Kras, e a riportarlo in vita artistica è stata la smania di avvicinarsi cautamente ad un nuovo mondo sonoro – per lo più allineabile alle produzioni passate cosparse di neo-folk psichedelico – ma con barlumi accennati di elettronica che qua e la picchettano la tracklist e contribuiscono ad allentare minimalmente  le tensioni freak in cui l’artista si avviluppava copiosamente.L’amore – si sa  – allenta e circuisce qualsiasi cosa, e Banhart non è da meno, mette in fila quattordici tracce e va ad accentuare un album a suo modo sognante, vagamente riflessivo, ma con una strana baldanzosità di fondo – molto di fondo – sulle reazioni e contemplazioni  del rapporto di coppia, della condivisione di una o qualsiasi cosa; rimane comunque uno stropicciato raccounteur che da quando lo si conosce come picaro del suo folk pre-war, cerca di maturare a gradi e sinceramente con questo ultimo lavoro questa crescita “intellettuale” gli si può riconoscere, valutandola buona e indagante, forse una ennesima sua reincarnazione, ma sta di fatto che il menestrello alcaloide da il meglio di sé e lo si sente sin dall’attacco della tracklist.

Quattordici tracce dai colori celestini, piccole danze intime dai vari riflessi ed echi, tracce che si ascoltano come sottofondi di ore tralasciate o dedicate alla percezione diciamo solitaria; registrato a Los Angeles con il sodale Noah Georgeson, il registrato  – della vecchia proposta dell’artista – conserva i scandagli beatnik, specie negli strumenti a caso che agiscono sulla modularità sonica e con una strepitosa benedizione Beckiana che si riscontra nelle cavalcate di “Never Seen  Such Good Things”, “Hatchet Wound”, “Taurobolium”, mentre le bordate mentali ed intime arrivano con la deriva sausalita “Mi Negrita”, “A Gain” , dentro il liquido amniotico di “Mala” o nella misticheggiante onda flessuosa che in “Fur Hildegard Von Bingen”.Decisamente il cantore delle lune di traverso, l’anatroccolo delle stravaganze hippie si sta trasformando in un cigno dalle ottime fattezze a conferma che l’amore spiana ed appiana ogni cosa ed in questo disco il Signor Banhart fa davvero il Signore come si deve.

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