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Codeina

Written by Interviste

Ciao ragazzi. Complimenti per la vostra ultima fatica Allghoi Khorhoi. Partiamo da una domanda banale ma necessaria. Che c’entra il nome di una creatura leggendaria, un enorme verme che vive nel deserto del Gobi con i Codeina e la vostra musica?

Ci piaceva l’idea di un verme, per consuetudine creatura infima, non considerata, disprezzata, che in questa occasione assume una posizione di forza. L’Allghoi Khorhoi è un mostro mitologico che si nasconde in lunghi cunicoli scavati sotto il deserto e attacca l’uomo con scariche elettriche o secernendo acido. Quest’essere è talmente radicato nel folklore di quelle zone che ancora oggi la sua figura è vissuta con grande rispetto mantenendo allo stesso tempo il potere di incutere timore. L’abbiamo interpretato come un simbolo di rivalsa, di ribellione dal basso. Una rivoluzione nascosta e silenziosa, che striscia nelle profondità del terreno ed è pronta a esplodere all’improvviso.

Passiamo a voi. Come nasce una band come la vostra e un album come Allghoi Khorhoi?

I Codeina nascono nel 1998 in uno scantinato di periferia. Da qui passano gli anni accompagnati da tanti cambi di formazione alla ricerca degli elementi più “psico-sociopatici”. I Codeina che vedete oggi suonano insieme da tre anni e, fortunatamente, non si registrano danni a persone o cose. Allghoi Khorhoi non è nient’altro che la naturale evoluzione di Quore. Hidalgo Picaresco, il nostro primo album. Un’“evoluzione” del processo creativo, con un approccio più libero e maturo alla proposta e all’elaborazione del pezzo. Allghoi Khorhoi è la prosecuzione di un’esigenza comune di tradurre in musica disagi e insoddisfazioni quotidiane, da una sfera personale e intima a un’altra più ampia e strutturata, sociale e culturale, che riguarda l’intero nostro paese.

La codeina è un derivato della morfina ma Codeine è anche il nome di un mitico gruppo Slowcore statunitense. A quale di questi due paragoni siete più legati? Conoscevate la band di Stephen Immerwahr al momento di scegliere il nome e c’è qualcosa che vi lega, musicalmente parlando?

Dovendo scegliere a cosa siamo più legati, sicuramente sarebbe il derivato della morfina. Ai tempi non conoscevamo i Codeine e non esiste un legame musicale nonostante sia un gruppo che oggi apprezziamo.

Ascoltando i brani di Allghoi Khorhoi sembrano ritrovarsi diverse chiavi di lettura. C’è qualcosa in particolare che unisce le dodici tracce, sotto l’aspetto delle tematiche trattate più che, ovviamente, sotto quello puramente musicale?

Senza alcun dubbio il nervosismo quotidiano. Ogni singola traccia nasce come un esercizio atto a reprimere, veicolare ed espellere il nervosismo che viviamo quotidianamente in qualcosa che sia legale, lecito e magari anche terapeutico.

La vostra musica rimanda soprattutto al più canonico Alternative Rock in lingua italiana. Gli scomodi paragoni si rifanno a Verdena, Afterhours e Teatro degli Orrori. Quanto c’è di vero in queste similitudini? Quanto sono cercate e quanto sono naturale evoluzione dovuta alla vostra formazione personale?

Afterhours direi forse per i primi dischi, per gli altri due paragoni le fonti “estere” da cui hanno e abbiamo attinto sono prettamente le stesse. Noi non facciamo che suonare ciò che maggiormente ci piace ascoltare.

La scena alternativa (passatemi il termine) italiana si sta spaccando pericolosamente in due tronconi. Da una parte il cosiddetto Indie Pop Cantautorale stile Dente, Luci e Brunori, Lo Stato Sociale e dall’altra chi prova a suonare più Rock, violento, nudo e crudo. Per ora il pubblico sembra apprezzare più i primi ma è veramente una questione di scelte o piuttosto un sapersi “vendere” con più efficacia?

Pensiamo si tratti di scelta della massa: semplicemente il cosiddetto pop cantautorale è parte della storia musicale italiana che tutti conoscono (Battisti, De André, Dalla, De Gregori, Guccini ecc ecc.) mentre non ci vengono in mente gruppi per così dire “violenti nudi e crudi ” che abbiano un seguito di simili proporzioni… Basta chiedersi quale sia ancora oggi il festival musicale più importante in Italia…e la risposta si delinea ancora di più. Poco cambia in ambito “alternativo” perché siamo da terzo mondo in materia di cultura musicale e non solo…

Tornando a questa questione, sembra sempre più raro vedere andare a braccetto la qualità e, conseguentemente, il riconoscimento della critica, con i numeri dati dalle vendite di Cd e merchandising, oltre che di ingressi ai live e chiamate per i concerti. Qual è allora il problema, se esiste un problema?

Pubblicità, interessi, soldi. Una proposta musicale sui mass media è incentrata esclusivamente su questi valori. Incapacità o svogliatezza di giudizio critico dal lato del ricevente.

Dall’ascolto di Allghoi Khorhoi, emerge un lavoro intenso, carico di rabbia eppure non troppo originale nello stile. Quanto conta oggi suonare diversi dagli altri e quanto è utile e importante, in termini di riconoscimento di pubblico e critica, essere diversi in superficie e quindi formalmente o piuttosto nella sostanza?

Credo sia un po’ arduo in questo preciso momento storico avere l’obiettivo, la capacità e la superbia per poter anche solo pensare di fare musica “diversa e originale”. Ci concentriamo più su un lavoro di sostanza.

Recentemente, in occasione del M.E.I., mi è capitato di leggere diverse discussioni circa il ruolo attuale delle etichette. Da una parte chi sosteneva che siano le band a dover fare gran parte del lavoro di “formazione” di una base di fan per rendersi appetibili alle label e dall’altra chi ritiene più opportuno che siano le stesse etichette a fare il lavoro che far crescere le band, in ogni senso. Voi da che parte state? Che rapporto avete con la vostra etichetta?

Noi non abbiamo alcuna etichetta. C’è un po’ di verità in entrambe le affermazioni ma credo che la situazione generale a livello di etichette e fondi sia abbastanza grigia e al limite della sopravvivenza. Per cui fanculo e DIY!

Torniamo al disco, Allghoi Khorhoi. Provate ad essere sinceri. Quali brani sono quelli che più sentite vostri, rappresentativi del vostro stile e del vostro carattere? C’è almeno un pezzo che proprio non vi piace?

Sono tutti lati dello stesso carattere, nessuno escluso. Va bene autodefinirsi “psico-sociopatici” ma non siamo ancora del tutto pazzi da inserire nel disco materiale che non ci piace. Oltretutto non abbiamo imposizioni, pressioni o obblighi contrattuali cui sottostare.

Che rapporto avete con la critica musicale? Su Rockambula avete avuto una sufficienza e parole buone ma tiepide. Ha ancora un valore che vada oltre la mera propaganda, il lavoro del critico/opinionista musicale?

Per il primo album abbiamo contattato direttamente webzine e riviste, ottenendo stranamente un buon riscontro sia in termini di numeri sia oserei dire di critica… per Allghoi Khorhoi siamo solo all’inizio.Tante volte ci può essere mera propaganda dietro al critico. C’è chi si improvvisa critico o chi si trova a recensire qualcosa che detesta o di cui non ha un background conoscitivo. In ogni caso dietro una recensione, positiva o negativa che sia, si capisce subito se chi sta analizzando un disco ha gli strumenti giusti per poterlo fare o meno.

Perché un ipotetico lettore di Rockambula, che si trova davanti a centinaia di consigli e suggerimenti ogni mese, dovrebbe dedicare a voi un’ora della sua vita?

Perché il disco dura 44 minuti e noi gli regaliamo i restanti 16 minuti per fare ciò che più gli piace.

Quando e dove potremo vedervi suonare dal vivo? E che tipo di spettacolo dobbiamo aspettarci?

“Il più grande spettacolo dopo il big bang”. A breve ritorneremo a calcare le scene partendo dalla Brianza e Milano.

Ciao e speriamo di vederci presto.

Grazie, a presto!

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Tutto, album d’esordio de Le Sacerdotesse dell’ Isola del Piacere.

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Tutto è l’album d’esordio del Power-trio piacentino Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere, band dal forte retrogusto anni ’90 (vedere alla voce Motorpsycho, Verdena,Dinosaur Jr). Il lavoro, molto viscerale e genuino, è stato prodotto in autonomia dalla band, riedito e distribuito, in digitale da V4V-Records.

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“Green Like Soul (Part I)” è il video dei torinesi The Circle.

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“Green Like Soul (Part I)” è il primo singolo estratto da Life In A Motion-Picture Soundtrack, l’album di debutto dei torinesi The Circle, in uscita oggi e prodotto da Omid Jazi (tastierista live dei Verdena) per l’etichetta da lui stesso fondata, la Hot Studio. Il video di “Green Like Soul (Part I)” è stato girato a Rosta (TO) con la regia di Lucio Laugelli (Stan Wood Studio) e la fotografia di Samuele Valle. Si tratta di un brano immediato che ben rappresenta le caratteristiche stilistiche e musicali di tutto l’album: orecchiabili linee vocali di matrice Pop unite a sonorità che spaziano dal Brit Pop fino a sfiorare le atmosfere strumentali del Post Rock più melodico. Chitarre che risuonano di delay glaciali e armonie vocali dolci e riverberate sono il filo conduttore di “Green Like Soul (Part I)” e dell’album Life in a Motion-Picture Soundtrack.

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Autumn’s Rain il secondo album si intitola OM.

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Esce il 29 Settembre per Valery Records. Om:̣ “rappresenta il simbolo del suono primordiale, della vibrazione originaria che creò l’universo. È l’immagine di Creazione, Conservazione e Trasformazione”. Non c’è nulla di più adatto di questo piccolo mantra per racchiudere la ricchezza e le diversità presenti in questo album. Esso riflette un cambiamento rispetto all’album d’esordio sin dalla sua composizione, avvenuta nell’arco di 6 mesi presso il Fox Studio, luogo in cui è cresciuta e vive tutt’ora la band, dove è stato seguito e registrato completamente da Andrea Volpato per poi essere mixato e masterizzato da Davide Perucchini (fonico dei Verdena) al Lysergic MixRoom di Pedrengo (Bg). Accogliendo e cercando di non snaturare il punto di forza della band che fa dell’eclettismo il suo tratto distintivo, in Om è perfettamente riconoscibile l’appartenenza di ogni canzone ad un pensiero e ad una intenzione di più ampio ed unitario respiro.

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Codeina – Allghoi Khorhoi

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L’ultima fatica dei Codeina è Allghoi Khorhoi registrato e mixato da Fabio Intraina al Trai Studio di Inzago (MI). L’Allghoi Khorhoi è  un verme rosso brillante leggendario, che sputa acido, emette scariche elettriche ed è in grado di uccidere un uomo. Più che gli Afterhours sembrano i Verdena dei primi dischi già nell’ascolto di “22 Dicembre”, il singolo di lancio dell’album. Si sgola Mattia Galimberti (“non sei uguale a me”) probabilmente contro la massa, intenta, sotto le feste, a fare regali o a scoppiare botti: “Anche se sei bello ricco e intelligente sappi che sei merda”. Si sentono i Germi degli After nel DNA dei Codeina e la voglia di scatarrare sui giovani d’oggi. Il “Male di Miele”, la melodia e il rumore ritmico controllato di Emanuele Delfanti al basso e Alessandro Cassarà alla batteria. Il sound attufato, per scelta, trova finalmente un po’ d’aria in “Cascando”, canzone intima, sull’ansia di essere amati o no e si fa notare anche qualche similitudine con il Teatro degli Orrori. Sembrano un “Carrarmatorock” in “L’Appeso” ma con le voci più lontane rispetto a quella di Pierpaolo Capovilla mentre mi ricorda “Dea” degli After, il brano “Crepa”. È un derivato dell’oppio la Codeina e non è proprio la musica giusta da ascoltare in estate.

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Aa. Vv. – Loves You More

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Prima che inizi a parlarvi di questo disco, lasciatemi qualche secondo per raccontare una storia. Siamo a Echo Park, territorio limitrofo alla città degli angeli per eccellenza, Los Angeles, e tra gli alberi che avvolgono l’aria nei loro colori secchi d’autunno si nasconde il cadavere di un ragazzo di appena trentaquattro anni. È il 21 ottobre 2003. Lui è un musicista nato con Post Punk e Grunge nelle orecchie e poi diventato un eccelso cantautore, paladino dell’Indie a bassa fedeltà e tendente, soprattutto agli esordi da solista, a scegliere strade strumentali. Quel musicista ha un tatuaggio sul braccio, il toro Ferdinando, un gigante ma pacifico che alle corride preferisce i fiori, sgraffignato da un libro per bambini. In altre parole un fallito, per chi non riesce a comprendere coloro che si piazzano fuori dagli schemi stabiliti dalla società. Quel cadavere ha un nome: Elliott Smith. Lo stesso Smith che nel 1998 fu nominato agli Oscar per il brano “Miss Misery”, contenuto nel film di Gus Van Sant, Will Hunting – Genio Ribelle. Elliott Smith sale sul palco trasudando un’inadeguatezza quasi malinconica e tenera. Non è quello il suo posto. Forse non è questo mondo il suo posto. Elliott Smith si fa portavoce di una generazione di persone sbagliate nel posto sbagliato. Elliott Smith è infognato nella droga e nell’alcol e nella depressione. Quel cadavere quando ancora era uomo si è preso due coltellate al petto, quel lontano 21 ottobre 2003. Suicidio dicono, eppure pare strano suicidarsi con due coltellate al petto ed è bizzarro che la fidanzata col coltello tra le mani sedesse al suo fianco. Proprio in quei giorni Elliott, nato Steven Paul Smith, stava lavorando all’album From the Basement on the Hill e in quell’ultimo disco abbiamo cercato le tracce che ci donassero la verità, scovando però ancor più il turbamento dell’uomo dietro l’artista.

Loves You More nasce da un’idea di Davide Lasala dei Vanillina. Quindici brani e quindici artisti che all’Edac Studio reinterpretano Elliott Smith, registrando in presa diretta su nastro magnetico e mantenendo intatto quel sapore Lo Fi che ha sempre contraddistinto l’artista statunitense di Omaha. Si va da interpretazioni più canoniche, a scelte più rischiose e audaci, con qualche punta di vera e spettacolare emozione. Non sono certo io il primo sostenitore di tribute e cover eppure operazioni come questa sono qualcosa con un valore che esula dalla pura essenza artistica. Com’è accaduto con il tributo ai Fluxus di qualche mese fa, questi sono strumenti eccelsi che non solo aiutano a riscoprire i grandi del passato e magari proporli alle nuove generazioni ma hanno il duplice ruolo di promotori di nuovi talenti. Nel nostro caso pochi sono i nomi veramente noti al piccolo grande pubblico, Black Black Baobab forse, C + C = Maxigross, Dellera, Edda, Jennifer Gentle mentre gli altri sono soprattutto artisti dei quali, si spera, sentiremo parlare. Dennis di Tuono, Dilaila, Emil feat Cani Giganti, Eva Poles, Il Vocifero, Kalweit and the Spokes, Labradors, Mr. Henry, Nicolas Falcon e gli stessi Vanillina. Da brividi la versione di “Needle in the Hay” di Nicholas Restivo e Roberta Sammarelli dei Verdena ovvero i Black Black Baobab che reinterpretano il pezzo scelto per la colonna sonora del film I Tenenbaum di Wes Anderson. Edda ha optato invece per la lingua italiana intonando “Angels”, brano pubblicato nell’album Either/Or proprio come “Say Yes” dei Labradors e “Between The Bars” intonata da Mr Henry. Degna di nota anche “Bottle Up and Explode! di Emil feat Cani Giganti che azzarda strade di svecchiamento di un sound che in realtà mai suona vetusto, un po’ come propone Kalweit and the Spokes con “A Fond Farewell”.

Se riuscite a mettere le orecchie su questo piccolo gioiello, non staccatevene troppo in fretta se non per andare a riscoprire questo genio sofferente, un vero outsider e voce di migliaia di ragazzi troppo fragili per questo mondo. Non staccatevene se non andare a scoprire le nuove voci di una generazione sempre più in crisi e in lotta contro un mondo che sembra non amare la diversità.

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Lotus Syndrome – Iride

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Questo Ep dei ternani Lotus Syndrome suona in maniera decisamente imperfetta, pena per le mie orecchie, è pieno di difetti, sviste, omissioni, imprecisioni e chi più ne ha più ne metta. Nella loro biografia si autodefiniscono un gruppo dalle trame Post Grunge e Alternative non considerando che il Post Grunge è tutt’altra cosa (chi come me ha vissuto in pieno l’epoca Grunge sa cosa voglio intendere). Per quanto riguarda l’Alternative non è ben chiaro il campo in cui vogliano inserirsi. Tra le influenze leggo Foo Fighters, Muse, Afterhours, Verdena. Ma che diamine! La prima band citata ha un certo Dave Grohl (ex Nirvana) nel gruppo, la seconda vive ormai nell’Olimpo del Rock mondiale e le ultime due sono fra i colossi del mondo Indie italiano. Possibile quindi che miscelando tutti questi talentuosi musicisti come risultato abbiamo soltanto cinque brani male effettati e dai ritmi decisamente incoerenti? Non basta possedere ed emulare la discografia completa dei propri idoli, non basta comporre senza una propria personalità, bisogna mettere le proprie maledette idee nella musica. Eppure le prime note di chitarra della traccia che dà il titolo all’Ep, “Iride”, lasciava presagire qualcosa di ottima fattura, ma poi, si sa, è facile perdersi per la strada soprattutto quando si esagerare a dismisura con gli effetti delle chitarre, il rischio è quello di ledere l’ascolto di una voce molto Indie che non sfigurerebbe in occasione di concerti molto (grandi) importanti (si ha l’impressione di un ottimo risultato live piuttosto che in studio).
“Tempo Artificiale” è invece una piccola gemma lasciata lì, gettata in mezzo ad altri quattro pezzi che potrebbero essere ampiamente migliorati con pochi ma significativi ritocchi (magari con la supervisione di un esperto produttore), magari con qualche controcanto, perché la totale assenza di cori (o seconde voci) si fa notare (così come quella di assoli di basso o batteria) e incide anch’essa parecchio sul giudizio complessivo, ma come dico sempre: “Non dai complimenti si cresce, ma dalle sole critiche…”.
In fondo un passo falso può capitare a tutti, anche ai migliori.

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Auden – Love is Conspiracy

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Questo è un progetto “surgelato” e tirato fuori pronto per il microonde, un frammento di memoria regressa riproposto sulla mia scrivania. Auden (famoso poeta anglo-americano profondo e tagliente) è un progetto nato a cavallo tra gli anni Novanta e il duemila e, a sentirlo, se ne porta dietro parte delle sonorità. Un’incubazione derivata dalla scena Hardcore romana dà il ritmo e la struttura a questa composizione che cerca di andare oltre unendo al classico martellamento una forte componente emotiva. Quello che colpisce di questo Love Is Conspiracy è il periodo di gestazione: inciso nel 2002 vede la luce solo ad ottobre 2013 grazie alla neonata Holiday Records che ne inserisce un brano nella propria compilation di presentazione creando l’opportunità per un mini tour. Ovviamente, il gruppo ha perso un po’ di pezzi negli anni anche se il nocciolo duro permane e, quindi, si può considerare un tentativo di recupero bello e buono, un modo di raccogliere e non disperdere le briciole seminate negli anni. Un disco che mescola Hardcore ed Emo, una sorta di biglietto da visita che ci fa presupporre nuova linfa vitale.

Cinque pezzi essenziali che tra alti e bassi scorrono con piacere facendomi scivolare nel passato e richiamando alla mente soprattutto i Verdena per il modo peculiare di impostare la voce anche se tutto è rigorosamente in inglese. “Spring Grass For a Girl Collision” e “My Wrong Sentimental Education” sono i brani più ritmati e che sicuramente spiccheranno all’ascolto di questo disco di rilancio che riparte dal passato per aprire nuovi orizzonti. Vediamo cosa riserverà il futuro.

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Odatto – Odatto

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Parmensi e attivi dal 2004, gli Odatto hanno già alle spalle due demo, Quelli Come Noi e Ovunque Tu Voglia Andare, e un full lenght Sanno che Ci Sei. A ottobre del 2013 hanno concluso i lavori per la loro ultima fatica, un disco che porta semplicemente il nome della band come titolo, stilisticamente a cavallo fra un Punk italiano di chiara matrice americana e il Metal che già caratterizzava i lavori precedenti. Odatto, infatti, si apre con “Finirà Così”, brano che chiarifica subito la precedente lezione metal, con il cantato spesso obbligato a dilatazioni e contrazioni per riuscire a rendere intellegibile i termini. Sono molto bravi musicalmente e variano spesso all’interno del brano, sia per quanto riguarda il dialogo degli incisi melodici sia per ciò che concerne l’orchestrazione. Non sono coinvolgentissimi nonostante esprimano tanto pathos e tanta rabbia. Anche in “Giorni” troviamo di nuovo l’ispirazione Metal -colpa delle chitarre raddoppiate – e un bel giro di basso. Ricordano un po’ i Linea 77 per la vocalità principale e il dialogo con le backvoice. Con  “Solo Andata”, però, ci si rende conto che gli Odatto hanno svelato già tutte le loro carte.

Qualcosina cambia con “La Nave”, caratterizzata da un sound più patinato e un riff anche più orecchiabile dei precedenti e meno immediatamente connotabile come genere. Esattamente come già si era notato, ci si rende conto che gli Odatto sono bravi ma musicalmente non sono niente di più che quello che hanno già detto in tre tracce. I testi, però, sono davvero meritevoli: senza essere aulici e altisonanti come certi gruppi Alternative, senza essere oscuri come ad esempio sanno essere tanto bene i Verdena, pur essendo incazzati come Ministri, Teatro Degli Orrori, Linea77 riescono a svolgere bene un filo logico narrativo. A “Un Posto Migliore”, però, le chitarre raddoppiate stancano. “Cosa C’e’ da Perdere” apre con un sospiro. La voce è più roca, il testo è puntellato di rime aperte sulla vocale e, in puro stile italiano, evitabile. L’apertura centrale del pezzo è esplosiva, costruita con solite chitarre doppie e un basso che muove in stile Crossover. Sono bravi, l’abbiamo già detto, ma a questo punto, con ennesimi ritorni stilistici e pochissime variazioni, viene da chiedersi se non fosse preferibile fare un Ep.

Dopo un po’ non riesco neppure ad apprezzare più l tecnica: il disco prosegue con “Anima” e “Le Solite Favole”, ma è solo con il ritornello di “Libertà o Schiavitù” che mi riprendo un attimo dal tepore e riesco ad apprezzare di nuovo questi ragazzi. Il disco chiude con “Come le Nuvole” e l’unica cosa che lascia è il dispiacere di non essere riuscita ad ascoltare un album tutto d’un fiato, convinta che, prese singolarmente e ascoltando due o tre canzoni, avrei potuto apprezzare maggiormente ogni traccia e l’intero Odatto.

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Cinema Bianchini – Qualche Santo Sarà

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La prima cosa che penso quando ascolto “Qualche Santo Sarà” è Jovanotti. La seconda è Grignani. Non perché i Cinema Bianchini siano assimilabili a quello che fanno Lorenzonenazionale o Gianlucatroppobelloperaverecervello; piuttosto perché se da oltre un decennio due riconosciuti campioni di stecca senza tavolo da biliardo, continuano a sfornare dischi che suonino, non dico vocalmente aggraziati, ma quantomeno intonati vuol dire che intonare una linea della voce anche artificialmente (con le immani possibilità del software musicale di nuova generazione) non è così poi difficile. In pratica il discorso è: se addirittura Grignani, da cui ho sentito dal vivo assassinare (oltre le sue, poco male) anche pezzi di Battisti che voleva omaggiare, può fare un disco intonato, ma perché i Cinema Bianchini danno alle stampe un buon disco e poi lo rovinano lasciando tutte le linee di voce stonate? Se è una scelta low profile o low fi, vorrei urlaglielo in modo incontrovertibile, è solo LOW. Anche perché a tratti le linee melodiche dei pezzi di questo sono anche più che accattivanti, sono interessanti e si lascerebbero ascoltare con piacere se non fossero tutte traballanti e incerte nell’intonazione.

Un misto tra Verdena, Timoria dei tempi di “Viaggio Senza Vento” e qualche tirata più Sangiorgesca. Non posso dire che tendenzialmente non possano piacere, posso dire che sicuramente se ne accorgerebbe anche Grignani che il cantante dei Cinema Bianchini stona come un ossesso. Peccato davvero perché anche gli arrangiamenti suonano benino e strizzano l’occhio alla tradizione anglosassone e americana con un batterista in gran forma che dà vita ad un groove danzereccio e non banale. I testi sono ben scritti e nascondono anche qualche bella frasetta da ricordare e sfoggiare con qualche tipa un po’ brilla: “Ci siamo innamorati delle crisi, ci siamo innamorati dell’amore, più dell’amore che della sostanza”. Certo, spero di aver sentito male,  ad un certo punto si sente uno strafalcione grammaticale, un “non smettavamo più” ripetuto due volte in “Mercurio”, che se è una svista è una svista da pennarello rosso nell’occhio; per non dire altro. Concludendo: per essere il primo disco completo, i Cinema Bianchini esordiscono benino, indirizzandosi al segmento dei piccoli adolescenti che si vorrebbero pure emancipare dai loro coetanei discotecari, pur senza grande impegno. Dovrebbero aggiungere all’organico della band due elementi: un Autotune e un correttore di bozze.

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Ghiaccio1 – The First EP

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“Non crediamo nell’esistenza dei generi musicali, la musica è un fiume ed è unica, dunque nelle nostre canzoni potrete trovare le influenze di numerosi artisti e numerose altre band”.

È così che si presentano i Ghiaccio 1, quattro (ora diventati tre) audaci e bizzarri musicisti del teramano che mossi da una certa genuinità smaliziata e liberi da ogni pregiudizio, fanno con la musica un po’ quel che vogliono. Ho avuto il piacere di vederli sul palco di Streetambula, contest dedicato a formazioni emergenti Pop e Rock che si è svolto lo scorso 31 agosto a Pratola Peligna e ora vi racconto cosa ne penso. È vero, il loro intento è quello di non aderire a nessun genere in particolare; forse ci riescono o forse no. In realtà il filo conduttore del loro primo lavoro, una demo di quattro tracce, è un Pop camaleontico che assume forme e sfumature diverse durante tutti i sedici altalenanti minuti.

“Tic Tac” parte con un liquid guitar, un basso pulsante e una batteria marziale che si fondono in un Funky abrasivo e incalzante che però puzza di un po’ di Negramaro. “Mary” col suo ritmo allegrotto condito da sferzate di feedback e virate Psych Rock, è un evidente richiamo al Folk italiano che inaspettatamente s’incupisce grazie a un infantile e macabro carillon burtoniano. “Lisergia” è di certo il loro pezzo migliore, chiaro è il riferimento all’immortale Psichedelia di stampo floydiano ed è qui che le capacità tecniche dei nostri giovani abruzzesi si fanno avanti, la voce di Alberto Di Festa perde l’inclinazione melodica per farsi più matura e aspra, chitarre e batteria procedono fluide e decise. Nella conclusiva “Labbra e Fauci” di nuovo prepotente il bisogno di Di Festa e compagni di non rispettare nessun canone musicale proponendo un improbabile connubio tra Verdena e le Vibrazioni conditi con un pizzico di misoginia.

È chiaro i Ghiaccio 1 hanno un forte desiderio di sperimentare, quasi per non sentirsi etichettati o incatenati a un genere preciso; il problema è che la loro eterogeneità rischia d’incamminarsi verso l’inconsistenza, o meglio, nella spersonalizzazione. È bene che s’incanalino invece verso tendenze quantomeno più precise e circoscritte, che costruiscano uno stile personale e riconoscibile, è questo ciò di cui hanno necessariamente bisogno i Ghiaccio 1 e non c’è niente che gli impedisca di riuscire.

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Sakee Sed – Ceci N’Est Pas un Ep

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I Sakee Sed sono un duo bergamasco formatosi nel 2010. Il cantante e chitarrista Marco Ghezzi e il batterista Gianluca Perucchini determinano il centro di una formazione che a seconda dei concerti si allarga con Marco Carrara alle tastiere, synth e cori, Jonathan Locatelli al basso e Guido Leidi alla chitarra. Il loro viaggio, come stavamo dicendo, inizia nel 2010 e dopo i primi LP Alle Basi della Roncola, Bacco EP e A Piedi Nubi lo scenario cambia e si allarga verso l’apertura dei concerti dei Verdena, Bud Spencer Blues Explosion, Zen Circus, Giorgio Canali e la creazione della loro etichetta discografica Appropolipo Records.

Anche il 2013 comunque si arricchisce con l’uscita di Ceci N’Est Pas un Ep, lavoro formato da una copertina molto vintage e sei brani. Primo tra tutti “Boccaleone”, orecchiabile, incalzante, che apre l’immaginario sonoro a una vocalità piena di effetti e che mira, attraverso il video ufficiale, a sottolineare il loro essere sempre in tour e le loro influenze visive, come la leggendaria passeggiata dei Beatles sulle strisce pedonali, riproposta da tutti e in mille salse diverse. Si prosegue con “Il Mio Altereggae” che centra l’intenzione di riproporre il genere Reggae qui in versione molto Blues, con un marcatissimo levare e synth sempre presenti che arricchiscono il tutto.E si cambia scenario con “Metal Zoo” molto anni settanta dai toni forti e dalle chitarre aggressive, e con “Olderifa Express” dall’inizio destabilizzante che poi si concretizza in una delicata ballata Rock, nella quale però la voce appare poco chiara. “Jimmy è Perso Nel Delirio” invece è un breve cavalcata Rock’n’Roll/Country, al contrario dell’ultimo brano “Strappi Bianchi” che racchiude in se un po’ tutto l’Ep, dal sapore Blues e con cori sempre molto centrati.

Insomma i Sakee Sed sono un gruppo volenteroso, come direbbero le maestre di una volta, per l’indubbia voglia di fare, di studiare e riproporre in chiave più contemporanea il Rock anni settanta con delle contaminazioni stilistiche interessanti e molto centrate.Un gruppo ironico che sa prendersi in giro e sempre pronto a registrare, mixare e masterizzare i loro lavori, soprattutto Ceci N’Est Pas un Ep che verrà stampato anche in vinile e in edizione limitata.

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