Mick Jagger , l’arrogante per eccellenza all’uscita di questo disco disse: “L’ho finito da solo, altrimenti, con tutti gli ubriachi e drogati che giravano in quel periodo..”. Odiava quel suono grezzo, ruvido e mixato indecentemente. Al contrario, a Keith Richard, piaceva moltissimo, amava la riconquista della selvaggia onda del rock e finì che si accollò i meriti e gli onori, portando il suono della sua chitarra sui massimi livelli espressivi.
Album doppio, diciotto tracce che lucidano a fondo l’anima sporca di Richard che, accantonate certe transizioni esotiche, rigurgita in queste outtakes ripescate da bauli segreti, tutti i demoni e i fantasmi “neri” che scalciano nella sua testa; “Exile on main st.” è il disco che “brucia la pelle” a suon di folk, rock’n’roll, boogie, blues, gospel, voodoo plateale e honky-tonky delle paludi del South, cardiopalma da 67 minuti che emana un’incredibile voglia di strada, un incessante fluido di feeling atavico e suoni di terra secca.
Si può benissimo cesellare tra le radici di un lavoro tradizionale – inteso come recupero estetico dei “rumori del diavolo” – in cui la chitarra la fa da padrone, annebbiando un po’ la fisionomia sexy di Jagger, che – ad un attento ascolto è messo in seconda fila dal suo amico-nemico-rivale.
Registrato a metà, tra gli studios Sunset Sound di Los Angeles, e la villa in Francia di Richard, questo caposaldo – a posteri – della discografia degli Stones, è un inno pazzesco al boogie di razza innalzato al massimo da pompate di fiati, scartavetrate di pianoforti e odi di slade e gospel che inducono al tremore; Casino boogie, Rip this joint, Tumbling dice, Rock off sono le piste che più di tutte scialacquano negli acquitrini salmastri dell’Old South of America – fenomenale la rivisitazione di Shake your hips del grande bluesman Slim Harpo – ma è tutta l’atmosfera che gira in questo album che fa agitare, in fondo, il vero spirito sonico/primordiale degli Stones.
Wyman, Jagger, Taylor e Watts, fanno miracoli a stare dietro alla forma smagliante, quanto diabolica, di un’impossessato Richard che tra sferragliate di chitarra e genuflessioni al sacro fuoco del gospel –blues Sweet Virginia, goliardie country Torn and frayed, scatenamenti woodoo satanici I just wont to see his face e solismi d’armonica, percussioni e acustica Sweet black angel, sfoga rabbia e divinazione che poi in seguito si dovranno cercare con il lumicino.
Lancinanti le performance di Bill Preston alle tastiere, Bobby Keys al sax, Jim Price alla tromba e Jim Miller – quest’ultimo alle percussioni roventi nel revisitez blues Stop breaking down di Robert Johnson.
Dopo questo disco “rotolante” come Dio comanda, l’inferno quello vero, la droga che si impadronisce di Richard e la caduta dei Rolling Stones nel torpore di una vana creatività che si prolungherà per molto.