Nonostante tutti i pregiudizi e le tare uditive che mi contraddistinguono, in questi due anni con Rockambula ho scoperto e apprezzato orizzonti a me prima oscuri. Ho sempre dosato gli ascolti, ricercando minuziosamente la passione e la primordiale voglia di musica, a volte ben nascosta, ma comunque illuminata dietro ogni nota. Ho cercato di guardare oltre, ma giustamente il gusto si insinua prepotentemente nel giudizio. E così a questo giro mi sbilancio senza mezze misure davanti ad un artista blasonato a livello internazionale come il produttore canadese Tim Hecker. Il suo nuovo lavoro Virgins è nebbia. Nulla che si riesca a toccare con mano. Come quando si prova ad assaggiare un buon vino durante una fortissima congestione nasale, si percepisce la qualità ma non si distingue il sapore. Un grigiore di suoni ben incastrati, condotti all’unione da una sopraffina tecnica, da matematici arrangiamenti.
La descrizione del vuoto inizia con i loop di “Prism”. Ci troviamo in un deserto di alluminio e cemento. Spazi immensi ma che ci stanno stretti, gridiamo e nessuno ci sente. L’eco metallico della nostra voce non basta a rasserenarci e nemmeno a spaventarci. Il piano di “Virginal I” è robotico, martellante per sei minuti e mezzo di strazio che terminano con un suono gracchiante e sgradevole. Sale la voglia di sparare alle casse dello stereo. Per fortuna arriva un po’ di luce con “Radiance”, un’alba sintetica avanza lenta all’orizzonte. La luminosità viene però sotterrata da “Live Room”, un ottimo gioco di tecnica dove il sangue viene totalmente estirpato dalle vene. Di umano in questo suono non c’è proprio niente.
La musica del produttore di Montreal non è nient’altro che energia potenziale. Energia mai sprigionata: una bocca che si spalanca senza gridare, un suono morto. Il tuffo infinito continua in “Virginal II” sempre sintetica e ossessiva come la prima parte del brano. L’unico episodio che ci regala melodia è “Black Refraction”, il piano finalmente esprime un canto soffice e triste come un sogno perduto. Proprio un bagliore, un battito cardiaco in mezzo al nulla, che porta ad immaginare come sarebbe stato diverso questo disco con un briciolo di colore in più. Il resto di “Virgins” è di nuovo aria fritta, con qualche sporadico colpo di scena o spunto di dinamica, senza uscire mai dai binari di uno stile totalmente apatico, privo di spina dorsale e di mordente. La fusione di suoni così visivi non scaturisce nessuna emozione, non smuove nessuno dei miei sensi. Attenzione però, appelliamoci pure all’ignoranza. A dire tutto ciò rimane uno che fino a ieri credeva che il drone fosse solamente il mostro di Alien.