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Vostok – Vostok
Si può dire tutto dei livornesi Vostok ma non che brillino per unicità. Basta infatti digitare il loro nome su un qualsiasi motore di ricerca per trovare almeno cinque omonimi sparsi tra Russia, Inghilterra, America e addirittura Italia (un duo pugliese di cui abbiamo recensito l’album di debutto Lo Spazio Dell’Assenza più o meno un anno fa). Leggendo nella loro biografia che questi Vostok nascono dalla voglia del chitarrista e del batterista di dar vita a qualcosa di nuovo, mi sento rincuorato e affronto l’ascolto con un piglio fiducioso. Vane speranze che si dissolvono al cospetto del riff iniziale di “Solo un’Ora” piuttosto simile a “School” dei Nirvana. Comunque intravedo del buono, nascosto, nemmeno troppo bene, sotto pelle. Queste buone sensazioni sono tutte espresse nelle prime cinque canzoni, dove il valore aggiunto è l’ispirazione, figlia non solo della band-icona di Kurt Cobain, ma anche dei Seaweed (pargoli dimenticati ingiustamente della corrente Grunge) e dei più rinomati Queens Of The Stone Age. Un po’ come se Seattle rivivesse vent’anni dopo in Toscana. E poi mi perdoneranno se l’attacco di “Sui Tuoi Passi” mi ricorda simpaticamente “Teenage Lobotomy” dei Ramones, anche se poi il brano si sviluppa in modo totalmente differente. Il Rock ‘N’ Roll del singolo “Baudelaire”, la perfetta armonia tra suoni acustici ed elettrici di “Eva” e la vena poetica de “La Sindrome di Danuz” (sei come neve che il sole on teme, versi semplici eppure di forte impatto) ci prendono per mano e ci conducono alla fine della prima parte del disco.
Se si concludesse qui e fosse un EP sarebbe da 7 pieno. Purtroppo non è così e le altre cinque tracce sono più deboli, mancano di coraggio e finiscono per darsi la zappa sui piedi, facendo abbassare il voto complessivo. L’esordio dei Vostok ci mostra un progetto che sa di work in progress, colmo di cose interessanti e dell’impegno per realizzarle al meglio. Magari se le idee non fossero così appannate si andrebbe ben oltre la sufficienza. Alla prossima puntata.
Vostok – Lo Spazio Dell’Assenza
Da Brindisi la classe dei Vostok – Mina Carlucci voce e Giuseppe Argentiero alla chitarra – un duo alle prese con una versione retro futurista della poesia e Lo Spazio Dell’Assenza è la valigia sonora della loro storia, l’amalgama ufficiale della loro soluzione metafisica e artistica che prende nome dal progetto spaziale sovietico Vostok ed il suo eroe Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio, ed ispirazione ma poteva essere più azzeccata in quanto l’ascolto di queste nove tracce danno il senso e il peso compiuto del non peso, di un qualcosa a metà strada tra la ionosfera e la melodia galleggiante, sospesa come un palloncino blu gonfio di elio.
Tutto quello che si ascolta in questo disco ha il tocco autoriale delle cose messe a segno, il marchio di fabbrica della grazia dall’andamento lieve, ai continui cambio registro che tra voli impalpabili e torrenti di parole in piena danno la resa d’ascolto delle piccole opere rilevanti già al primo passo ufficiale; anche disco contaminato da pulsioni alla Claudia Fofi, Petramante, il vezzo elegante della Ruggiero e la malinconia presa col cuore di una Anna Maria Stasi dei CFF e Il Nomade Venerabile, una leggiadria vocale e di trasporto che se volteggia sui vostri soffitti pensierosi non è un effetto ottico/sensoriale, ma la pura magia di un gioco sonoro che rispolvera il peccato originale della bellezza.
Chitarra acustica, voce e tutta la strumentazione dei ricami doc costituiscono i tendaggi caldi e confortevoli di questi novi brani che non vivono senza l’ausilio delle immagini che evocano, convincono e incantano al loro passaggio, brani influenti di poetica di livello che fanno vivere di rendita l’ascolto per molto ancora dopo che il disco zittisce il suo respiro, la tenerezza complice di “Lontano Dalla Luce”, il sogno lucido di “I Tuoi Occhi”, il richiamo della mediterraneità “Lacryma” e il battito folkly ancient risvegliante dal torpore onirico di tutto quello che è scorso prima “Kamet 42”; i Vostok non sono di qui, sono di lassù dove tutto scorre senza tempo, oltre il cielo di Gagarin, ancor più oltre, lontano dalle cose applicabili, vicino alle cose di culto. Underground ma quello di culto!