Adele, Erica, Marco. E adesso cosa faccio, smetto di suonare? Questo si dev’essere chiesta un po’ spaesata la ventunenne Adele Nigro un anno fa, provando a mettere insieme il puzzle di un passato prossimo appena imploso con le Lovecats e un futuro tutto da scrivere. E invece, come nelle storie che vanno a finire bene, Adele non smette di suonare, alza la posta in gioco e comincia a trovarsi delle date da sola, portandosi in giro la chitarra acustica e alcuni pezzi nuovi che le giravano in testa. Nasce così il progetto Any Other: parte dal rimettersi in gioco, dal piazzare al centro le proprie canzoni ritrovandosi un anno dopo con un disco, Silently. Quietly. Going Away. Dieci brani che raccontano chi è Adele, cosa le succede, cosa le piace e cosa no, cosa ascolta e cosa sa fare con una chitarra in mano. Così l’iniziale “Something” diventa il ponte ideale tra quello che era e quello che è adesso, da cui partire per entrare in un mondo fatto di chitarre e piccola poesia, un indierock che sfiora il college delle origini – quello caro ai Modest Mouse, ai Built To Spill, a Waxahatchee – cantato con la sfacciata sicurezza che ricorda la giovane Alanis Morrissette. Un disco che scorre con assoluto piacere per quaranta minuti, con la voce di Adele a dipingere storie dalle tonalità diversissime, che parlano di distacchi difficili (“Gladly Farewell”), o di paesaggi immaginifici suscitati dallo studio della poesia di Coleridge (“Blue Moon”). Perché Adele ha talento, sensibilità ed una incredibile solidità per i suoi ventuno anni appena compiuti: doni preziosissimi, che permettono di cominciare a vedere il mondo per quello che è davvero ma di non farsi comunque prendere troppo male: così canzoni come “His Era” o “365 Days”, pur percorse da un filo di malinconia, non perdono mai la loro freschezza. E lo stesso vale per le chiacchiere con la propria parte razionale (“Roger Roger, Commander”), anche nei momenti più complicati (“I will try to keep the guilt separated from my temptation of blaming it all on me” in “5.47 p.m.”). Ma qui non c’è solo Adele: canzone dopo canzone, arrangiamento dopo arrangiamento, i giovanissimi Erica Lonardi (non ancora ventenne) e Marco Giudici sono diventati parte imprescindibile degli Any Other, ormai un trio a tutti gli effetti, capace di offrire soluzioni diverse andando oltre il classico pattern chitarra-basso-batteria (come in “Teenage”, in cui Marco suona anche il synth), o dando respiro a ogni dinamica e a ogni tema, compresa l’unica canzone d’amore dell’album, “Sonnet #4”. Si finisce con “To The Kino, Again”, appoggiata su una base di basso e batteria molto serrata che di colpo rallenta, si calma, per poi crescere ancora sul mantra finale, lo stesso che dà il titolo a questo esordio. Due giorni intensi per registrare tutto, a Ravenna, un po’ di tempo in più per mixare il disco a Milano e poi il master di Andrea Suriani (I Cani, Capra, My Awesome Mixtape): il risultato è qui e ha dell’incredibile, se si pensa alla loro giovane età e alla grande autonomia con cui i ragazzi hanno realizzato il disco, a dimostrazione che aver continuato a suonare alla fine è stata una scelta felice. Così felice da essere avvallata dalla nuovissima Bello Records che ha pubblicato Silently. Quietly. Going Away.
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La Band della Settimana: Any Other
We Were Promised Jetpacks
Band scozzese giovanissima, dal nome Indie che più Indie non si può e con due dischi all’attivo senza infamia e senza lode. Ora i cinque ragazzetti (che oltre ad essere terribilmente Indie presentano dei volti terribilmente anglosassoni) approdano nel piccolo Spazio 211 di Torino per presentare il loro terzo lavoro in studio, che pare finalmente dare arie meno radicate al comodo suolo del frenetico Alternative Rock britannico. Alcuni miei amici sostengono che i We Were Promised Jetpacks abbiamo un live set killer. E questo non è l’unico motivo che mi spinge a muovere il culo dal divano il giovedì sera, ma ci si mette anche Daniele Celona che prepara le danze in apertura del concerto. Il cantautore torinese rimane uno dei miei preferiti di questi tempi, anche con uno scarno set acustico da solo, ammalia i presenti con la sua poesia Rock. Dolcezza, timidezza e pennate violente sulla sua chitarra acustica riempiono l’aria di forti emozioni. E allora oltre a nuovi brani (che vedranno la luce a breve nel suo nuovo disco) sentiamo anche le bellissime perle “Millecolori” e “Acqua” che, anche senza la potenza delle valvole e dei colpi di batteria, dimostrano di essere pura perfezione cantautorale. E’ proprio vero che una bella canzone rimane tale anche quando è scorporata di tutti i suoi fasti e ornamenti. Alle 23 circa salgono sul palco i WWPJ (com’è Indie chiamarli così!), poche luci ma ben assestate e le atmosfere della opener del nuovo disco. “Safety In Numbers” parte sottile, con la voce di Adam Thompson che scandisce bene i beat. Le tre chitarre crescono e la puzza di umido e di sudore sale, pare arrivare diretta da un becero garage di Camden Town. I cinque suonano più inglesi che mai e hanno una pacca di rara intensità. Poche fighetterie insomma e colpi ben scanditi a colpire in faccia il centinaio di persone davanti a loro. A seguire ancora un brano nuovo. “Night Terror” si propone con tanto di violenza sul rullante e basso superdistorto e ci manda un po’ al di la dell’Oceano, echi di The Strokes e The Killers. Subito dopo arriva la sicurezza di “Quite Little Voices”, bruciata già al terzo pezzo, con quegli incastri ritmici così storti e poi un treno dritto che pare avere la losca intenzione di riesumare sua maestà Ian Curtis. Spazio 211 si scalda definitivamente, ma la band non fa una piega, continua imperterrita a macinare groove nervoso con “Roll Up Your Sleves” fino all’arrivo di un’altra nuova gemma. “Disconnetting” ha sapore Trip-Hop e la voce di Thompson e il rullante di Darren Lackie si sposano benissimo alla cupa danza. L’assolo di chitarra poi è un viaggio intergalattico, poche frenetiche note in spazia aperti, senza confini. Proprio vero che questo nuovo album “Unravelling” riserva succose novità, come la seguente “Moral Compass”, scura, gutturale e con un ritornello epico e teatrale. I coretti lievemente Coldplay, spezzati dal solito intrecciarsi di ritmiche schizofreniche in “Keeping Warm”, ci accompagnano verso la fine del set breve ma intenso, carico di adrenalina e di chitarre composte ma sudate. Non si può dire che questa band presenti delle hit stellari, ma ha dalla sua un meccanismo ben congegnato e soprattutto ben focalizzato sul risultato live che, inutile girarci attorno, è raggiunto in piena regola. Altra dimostrazione è la New Wave dei primissimi U2 tirata al Noise più incazzato in “It’s Thunder And it’s Lightnening”. L’ultimo brano è a sorpresa una novità, “Peace of Mind” ci abbandona cadenzata, per nulla scontata, processione elettrica verso una luce artificiale. Verso un suono che non è per nulla leggendario, e non vuole neppure esserlo. Ma arriva lo stesso forte e chiaro, come un fascio laser ben mirato sulla nostra testa. Pronto a sparare, ci lascia coi nervi tutti ben tesi.