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Flo – 31SALVITUTTI
L’assenza di confini è la cifra stilistica del percorso dell’artista partenopea.
Continue ReadingVinicio Capossela – Canzoni Della Cupa
Canzoni Della Cupa è il decimo album in studio di Vinicio Capossela. Diviso in due parti per 28 brani e una durata di più di due ore, Canzoni Della Cupa è un atto d’amore e di testimonianza verso un tempo passato che ormai è fuori dal tempo, mitizzato nell’immagine brusca e insieme rasserenante di una società contadina, ruvida e sincera, in cui si vive e si canta della vita, e quindi dell’amore, carnale soprattutto, ma sempre giocoso, vinoso, anche quando è serio; della morte e delle creature della notte, degli spaventi nelle ombre dei fuochi e dei monti sotto la luna; dei campi, dei poveri, del sudore, del lavoro; dei primi treni, dei viaggiatori, delle verità scolpite nella pietra dei proverbi e della saggezza popolare.
Ineccepibile nella produzione e nella resa, il disco continua la parabola del mito, della rivisitazione della tradizione (o tradizioni) che Capossela sta portando avanti da Marinai, Profeti e Balene (con in mezzo Rebetiko Gymnastas) ma che è stata da sempre una sottotraccia di tutta la sua produzione, interessata fin dai primi dischi alla rielaborazione del popolare/tradizionale (ritmi sudamericani, armonie mediorientali, atmosfere mediterranee).
Questo disco è l’ideale proseguimento di quella parabola e insieme il suo compimento totalizzante e definitivo: il ritorno nella terra degli avi, l’archeologia sentimentale nei racconti e nelle leggende, nelle storie e nelle musiche che erano la colonna sonora di un affascinante tempo che fu, che qui vira seppia, come le foto, e diventa quasi un’età dell’oro, un mondo che, nei suoi dolori, suonava forse più diretto e vero, più libero, certo più povero e più stanco ma senza perdere la fame d’amore, di festa, di paura anche, quella un po’ superstiziosa che eccita e riunisce il gruppo intorno alle luci e ai canti dopo l’angoscia, il cuore affaticato e una spaventosa, fantastica storia da raccontare.
Non sorprende quindi scoprire che Canzoni Della Cupa fosse in cantiere da più di dieci anni: è una sempreverde voglia di mito a spingere Capossela verso la rielaborazione e la testimonianza per riportare al suo oggi delle tradizioni che, sotto la polvere e oltre l’ombra della memoria, appaiono estremamente vive, anche (e soprattutto) grazie alle sue doti di interprete e riscrittore eccelso, maestro del racconto, sciamano della voce e della parola.
La nota dolente, per i fan del cantautore, potrebbe però nascondersi qui attorno: scavando si trovano tesori, ma ci si ingobbisce; gli occhi si fanno miopi a guardare tanta terra smossa. Canzoni Della Cupa è un progetto ambizioso, pensato ed eseguito senza passi falsi o sbavature (non ci saremmo aspettati di meno); è un racconto mitico e preciso, immaginifico e appassionato, da godersi senza remore, scoprendo in ogni brano una storia affascinante, divertente, incredibilmente vicina. È perciò con una certa amara sorpresa che alla fine, quando rialzi gli occhi stanchi dalla terra e dai suoi tesori, ti accorgi di quanto sia ormai sfocato e nebbioso l’orizzonte: lontano più di quanto, forse, dovrebbe.
C’mon Tigre all’Hiroshima Mon Amour di Torino
Si sente spesso dire che a Torino manca solo il mare. Bene. I nostalgici delle propria terra natìa (tendenzialmente a sud ) e tutti coloro che desiderano ardentemente un assaggio di estate non avranno di che lamentarsi, perché ad aprile il Mar Mediterraneo si trasferirà per una notte nella città della Mole. A portarcelo saranno i C’mon Tigre. Reduci dall’esordio del 2014 con l’omonimo album che mescola Funk, Jazz, World Music, Rock ed Afrobeat (tutto in chiave totalmente sperimentale), il duo si esibirà all’Hiroshima Mon Amour il 9 aprile a partire dalle 22.00. Aspettatevi un clima torrido e non spaventatevi al suono del loro ruggito. Le tigri vi divoreranno l’anima ma nessuno si farà male.
Max Manfredi – Dremong
Appena cinquantadue secondi di “Intro Dremong” e si entra nel mondo visionario di Max Manfredi, artista che nel vinse la Targa Tenco Opera Prima con l’album Le Parole del Gatto. In una carriera di oltre due decenni tanti altri sono stati poi gli attestati di riconoscimento ottenuti (ci piace ricordare appena il Premio Regione Liguria come “capostipite della nuova generazione dei cantautori genovesi” nel 1995, il Premio Lunezia, il Premio Lo Cascio e “miglior solista” al MEI di Faenza nel 2005 e poi nuovamente il Premio Tenco come miglior disco dell’anno nel 2009 con l’album Luna Persa). Anche il pubblico ha comunque sempre creduto in lui, tanto da finanziare attraverso la piattaforma Musicraiser questo nuovo album, Dremong, che prende il nome da un orso che, a quanto pare, secondo una leggenda tibetana diedi i natali a quello che più comunemente chiamiamo Yeti. Fiducia incommensurabile quindi verso un artista che non ha mai deluso le aspettative dei propri fan. Del resto anche Fabrizio De André, rispondendo a una domanda sui cantautori italiani, lo aveva dipinto come “il più bravo” (“Gazzetta del Lunedì” il 23/6/1997), mentre Roberto Vecchioni lo ha definito “un capostipite (…), uno che ha bazzicato col romanzo, con la poesia, col dialettale, con la canzone e senza, un capace, uno che non posso nemmeno limitare con il termine di cantautore”. La vetta della qualità si raggiunge già con la titletrack che non a caso è la seconda in ordine cronologico, ma guai a sottovalutare anche l’armonica “Disgelo” o l’inquieta “Notte”. Testi raffinati ed atmosfere inusuali pervadono l’ascolto di questo disco “inquieto” soprattutto quando ci si immerge nella “medievale” “Sangue di Drago” o in “Finisterre” che prende il nome dal famoso comune spagnolo situato nella Galizia. Tredici nuove canzoni per lo più scritte in binomio con Fabrizio Ugas, con cui c’è un rapporto lavorativo che ormai dura da diversi anni e che si adopera anche alla chitarra classica ed acustica, al laud cubano e ai cori. Tante altre però sono le persone coinvolte però in questo progetto (l’elenco sarebbe troppo lungo per poterle menzionare tutte) che spazia dalla musica etnica alla pura contaminazione sonora del progressive anni settanta senza trascurare il lato oscuro del Rock passando per strumenti strumenti tradizionali come il glockenspiel, la concertina, gli orientali gu-qin e go-zen, i flauti, il violino, la batteria, le percussioni e il basso fretless. Se proprio volessimo quindi circoncidere il disco in un solo genere potremmo quasi farlo includendolo nella cosiddetta world music (anche se forse sconfineremmo leggermente). Sicuramente non avrebbe sfigurato se fosse stato pubblicato da una grande major del settore quale la Real World di Peter Gabriel. Una produzione pressoché perfetta curata nei minimi dettagli da Primigenia Produzioni ed un nuovo capitolo aperto da un grande cantautore quale Max Manfredi. Intanto noi aspettiamo già il suo seguito…