Tornano quei fenomeni, nel bene e nel male, de Lo Stato Sociale, e lo fanno con L’Italia Peggiore, secondo disco che prosegue il discorso del precedente Turisti Della Democrazia. Verbosi, danzerecci, di un’allegria folle che ricorda il discorso di Vasco Brondi sulle “feste senza senso” in cui “ballare sotto le bombe”: tutto è in macerie, tanto vale pompare il volume e cantare con una voce sola, sentirsi finalmente insieme ad alzare le mani e batterle, forte. Mentirei se dicessi che le canzoni de L’Italia Peggiore sono brutte canzoni (a parte qualche faux pas in cui si toccano le profondità di una piscina per bimbi, tipo elenchi alla Jovanotti – “C’Eravamo Tanto Sbagliati” – oppure quando si cerca la simpatia a tutti i costi in situazioni di cui ormai abbiamo la nausea – “Instant Classic”). I testi sono ironici e brillanti, e quando non eccedono in paraculaggine si fanno ascoltare con un mezzo sorriso complice. Certo, c’è sempre quella sensazione sotterranea e strisciante di fregatura, ma ci torniamo dopo.
Musicalmente, Lo Stato Sociale fa esattamente ciò che si pone come obbiettivo: farti ballare e sorridere. L’uno-due con i testi (tu balla, ridi, ogni tanto ti tocco la spalla, serissimo, per ricordarti che vivi in un Paese di merda in mezzo a gente di merda, poi scoppio a ridere anch’io e tu continui a ballare senza capire se ti sto coglionando o meno) è ciò che distingue Lo Stato Sociale da altri act simili: un loop trasformista tra serietà acida e follia demenziale (esemplare “”Questo è un Grande Paese”, che è più cabaret radiofonico che canzone). Da questo punto di vista, il disco è riuscitissimo, e sono certo che sarà un successo, trascinerà torme di fan ai concerti, pronti a scatenarsi nel delirio quasi tamarro di questi cazzoni col cuore dal lato giusto. Però. Però c’è qualcosa, lì dentro, che non mi convince più di tanto. C’è qualcosa che puzza, che serpeggia tra le righe dei quattordici pezzi di questo disco variopinto. È una sensazione di incompiutezza, di pressapochismo. I sostenitori dei bolognesi la chiameranno Lo-Fi, scelta artistica, stile. A me sembra scazzo, una terribile parvenza di ruvidezza generale. Il fatto che magari sia voluta non so se migliori o peggiori la situazione. L’effetto che mi fanno le canzoni de Lo Stato Sociale è quello degli animatori nei villaggi vacanze. Ti devono caricare, energizzare, devono per forza farti sorridere, partecipare. Si attaccano ai luoghi comuni, li sfruttano, per poi farti credere che è ironia, e magari lo è davvero, ma dopo due o tre giri di giostra, come si fa a distinguere il cliché dal commento sarcastico al cliché? Si divertono a cazzeggiare senza remore, però in fondo si percepisce un orgoglio da gruppo impegnato che a quel punto un po’ stona.
Forse non si può fare tutto, o forse è la mia piccola testa limitata che, ad oscillare così ampiamente tra un estremo e l’altro, si sente nauseata e incerta sul da farsi. Senza parlare della resa sonora che, qua e là, tocca livelli pessimi (pensate a come sono prese certe voci, o considerate che, in “C’Eravamo Tanto Sbagliati”, c’è una chiarissima interferenza da cellulare, minuto 0:33 – per dire). Sono queste sensazioni, per così dire, “scomode”, a non farmi godere il divertimento e l’acutezza che certamente Lo Stato Sociale sa così efficacemente trasmettere. Ma voi non fatevi problemi: L’Italia Peggiore fotografa, forse meglio di molto altro, lo spirito (anche musicale) di questi tempi. Voi ballate e divertitevi, e cercate di perdonarmi se non faccio salti di gioia…