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Merkel Market – La Tua Catena

Written by Recensioni

Il progetto nato a Milano solo quattro anni fa è radicato ben più lontano negli anni; sia nello stile che nelle esperienze dei quattro componenti della band, già protagonisti della scena al fianco di Zona, Pino Scotto, Node, Yak la mente è costretta a tornare indietro fino all’inizio di fine millennio scorso. Proprio per questo, la loro proposta è tutt’altro che originale: onesta gravezza Post Hardcore in lingua madre stile Negazione con  lezione Refused ben impressa nella mente miscelata all’immediatezza violenta dell’Hardcore Punk e al casino controllato del Noisecore che a tratti ricorda sia The Locust sia certi Today Is The Day.

La Tua Catena è un macigno in diciassette frammenti aguzzi, diciassette “canzoni” velocissime e dirette, costruite sulle semplici basi ritmiche fatte di due bassi e una batteria a reggere il peso delle parole urlate, cantate a fatica, stravolte, stuprate e sputate sulle nostre orecchie. La violenza non è solo narrata dalle note aggressive dei quattro ma è anche raccontata come il prodotto malsano e multiforme che marcisce e prende sapore ed odore sugli scaffali di questo orrido supermarket che è l’esistenza umana non sotto l’aspetto morale ma piuttosto comportamentale. Le canzoni sono la trasposizione ideale, la mercificazione di questi prodotti incorporei, offerti dai Merkel Market a prezzo scontato affinché assaggiando il male , chi ne è in grado, riconosca la miseria della società occidentale intesa come consumistica e falsamente globalizzata.

Messa da parte la ridondanza metaforica, ciò che resta è un disco sicuramente riuscito sotto l’aspetto dell’immediatezza e della brutalità che un po’ stanca all’ascolto ripetuto, nonostante non raggiunga i trenta  minuti, per un’eccessiva omologazione al genere, senza alcuna variazione sul tema che desti reale interesse e fornisca nuova linfa a tutta l’opera. Certo è interessante l’inserto di alcune sonorità “extra occidentali”, così come ottimo è il lavoro di Marco Di Salvia alla batteria, capace di unire tra loro tutti i brani a creare un’entità unica, ma tutto questo non basta a fare di La Tua Catena qualcosa di più di un buon disco Italian Post Hardcore per amanti del genere.

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Give Vent 8 ottobre 2016 Garbage Live Club

Written by Live Report

Reduce dalla tappa al Provo Cult Club di San Giovanni Rotondo, il Folk singer emiliano Give Vent sbarca al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ) per presentare i brani dell’ultimo album Days Like Years uscito da poco per l’etichetta diNotte Records. Marcello Donadelli, questo il suo vero nome, messa per un attimo da parte l’esperienza Emo Punk Post Rock con gli You vs Everything e quella con i Moscova, stilisticamente non troppo distanti dai primi, si butta a capofitto in un progetto solista che, già su disco, suona molto più che semplicemente interessante e che, come il live dimostrerà, sarà una vera delizia per le nostre orecchie.

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Solita atmosfera intima, come spesso accade in un piccolo club di provincia ricoperto di legno, libri, good vibrations e poster dei Nofx mentre fuori scende una pioggia gelida. Give Vent è pronto, chitarra in mano, a dare sfogo a tutta la sua energia; le sue sono canzoni scritte tempo addietro, per necessità espressiva più che con la diretta intenzione di forgiare un disco. Give Vent, ovvero “dare sfogo” in italiano, ed è esattamente questo che fa il musicista, ripiegandosi su se stesso e poi tirando all’esterno la sua anima, il suo cuore e il suo stomaco, con brani tutti in inglese che puntano dritti alla parte più sensibile di noi ascoltatori, narrandoci vita, sogni, rimpianti e sentimenti autodistruttivi. La sua capacità di scrivere canzoni, creare melodie sublimi senza troppe note, senza bisogno di decorare il tutto con arrangiamenti eccessivi, è la sua forza e da questo live acustico, i pezzi spogliati completamente rivelano la loro nuda bellezza. Brani come “Ashes” o “Black Sea” sono gemme miste di profondità e potenza espressiva; “Winter Will Have An End” nella sua semplicità è una delle migliori canzoni che abbia ascoltato negli ultimi tempi. Tutti i pezzi sono un continuo alternarsi e miscelarsi delle diverse anime che si scontrano e danzano nelle corde e nelle parole di Give Vent. Emo, Punk, Acoustic Rock e tanto Folk che s’ispira a band come Against Me!, Frank Turner, The Front Bottoms e poi una voce spettacolare, dalla timbrica inconfondibile e penetrante che, dal vivo, rispecchia pienamente la buona impressione avuta già prima. Circa a metà concerto una corda della sua chitarra decide di farla finita, il pubblico esce per l’immancabile astinenza da nicotina ma nel giro di cinque minuti tutto è sistemato. Give Vent decide di andare a riprendersi i suoi ascoltatori, esce dal locale e inizia a suonare un paio di pezzi con tutti i ragazzi in cerchio attorno a lui, con sorrisi stampati sul volto che raccontano la grandezza di questa passione chiamata musica. Il concerto proseguirà in un crescendo di emozioni e qualche bis, lasciandoci tutti soddisfatti e con la consapevolezza di essere persone migliori di un’ora prima.

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Ovviamente prendo il suo ultimo disco, splendidamente confezionato a mano e numerato. Un packaging di carta grezza marrone racchiude un libretto di venti per venti centimetri che contiene il disco e le sue canzoni, raccontate attraverso splendide fotografie che è lo stesso Marcello Donadelli ad aver realizzato e, in più, per i feticisti spinti, il negativo di una delle foto, incastonato in una piccola cornice bianca. Quello che rimarrà più di tutto, però, è la consapevolezza di aver avuto l’onore di ascoltare una delle voci più promettenti del panorama Folk italiano.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #07.10.2016

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #30.09.2016

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Bol&Snah – So? Now!

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In che modo si può mettere insieme il sound di una semi sconosciuta band norvegese oscillante tra Ambient e sperimentazione con l’esperienza Psych/Prog/Jazz Rock del fondatore dei Motorpsycho, Hans Magnus Ryan? A questo provano a rispondere Bol&Snah, band nordica di Trondheim miscelata allo pseudonimo di voce e chitarra della mitica formazione concittadina.

A tenere insieme questo delicato legame è soprattutto la voce di Tone Ase, perfetta, nonostante non sia proprio fuori dal comune, nella sua capacità di essere potente, intensa e delicata nel declamare le parole del poeta Rolf Jacobsen nelle sue digressioni sul tema del delicato rapporto tra uomo e natura, decantato non con idea unilaterale ma affrontando il problema da diverse prospettive, senza soluzione di continuità.

La profondità e l’attualità del tema, unite alla vocalità della Ase e alle peculiarità dei diversi musicisti, Snah in primis sebbene le sue doti di chitarrista puro non siano quelle più apprezzate dai fanatici tecnicisti, fanno sì che le sei canzoni che vanno a formare So? Now! si alternino in strutture composte, a volte più decise, altre più eteree, con diversi crescendo e in una scrittura musicale precisa ma capace di notevoli aperture sinfoniche e tendenti all’Hard Rock più irruente in diversi passaggi.

Un album costruito perfettamente, in melodie e arrangiamenti, capace di mettere in mostra qualità strumentali, vocali e liriche, con uno Snah in grado di palesare le sue doti, non tanto di virtuoso, quanto piuttosto di compositore, che ha l’unica grande pecca di suonare prolisso e ridondante ascolto dopo ascolto, con tante idee già usate e abusate che, tutto sommato, riescono comunque a reggere la facciata pur se con molta fatica.

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Il gusto dei trent’anni || Intervista a Francesco Motta

Written by Interviste

Del promo tour de La Fine dei Vent’Anni, disco di esordio di Francesco Motta uscito per Woodworm Label a marzo scorso, quello di questa sera a L’Aquila sarà il quinto live a cui assisterò. Dopo averlo osservato calcare i palchi più disparati, posso dire con cognizione di causa che tra le qualità di questo cantautore senza dubbio c’è anche la genuinità.

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Ottavia Brown – Infondo

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Di certo apprezzabile l’ impegno e lo stile con i quali Ottavia Bruno (ironicamente in arte Ottavia Brown) ha confezionato in autoproduzione la sua opera prima. Dalla cover all’artwork fino al packaging tutto è fatto in maniera professionale e con la voglia di non passare inosservata e apprezzabile è anche che progetto grafico e illustrazioni siano curate dalla stessa la quale, oltre ad essere compositrice è, per l’appunto, anche illustratrice di professione. Questo, però, è solo una luce fluorescente tesa a carpire la nostra attenzione. Ciò che conta non si vede ed è nascosto in dieci tracce in italiano scritte sotto la produzione artistica di Marco Franzoni.

Non fatevi confondere dalle mie parole perché il legame tra i disegni e la musica è molto stretto e necessario per comprendere l’estetica della Brown che, parafrasando le sue parole, al momento della composizione da spazio prima agli occhi e poi all’udito, creando così un legame tra un brano e il successivo come quello che si crea tra le pagine di un libro. Dieci canzoni che parlano d’inquietudine e sogno e raccontano di personaggi apparentemente distanti ma spesso uniti da ambientazioni favolistiche. Assolutamente godibili gli arrangiamenti e lo stile, miscela di Pop moderno e Swing anni 50, con venature Folk e tratti da Film Score Noir, il tutto ad avvolgere una voce gradevole.

Certo, con qualche sforzo in più in fase di scrittura e di ricerca melodica si sarebbe potuto apprezzare con più fermezza, tralasciando il fatto che la voce stessa non è nulla più che una piacevole voce di una seducente songwriter italiana. La costruzione stessa di testi, arrangiamenti, ritmiche e tutto il resto sembra studiata a tavolino per suonare irreprensibile tanto da mancare di coraggio, originalità e voglia di superare taluni limiti. A queste condizioni, è solo un disco ben fatto che, tutto sommato, stanca dopo qualche ascolto, non lascia il segno in nessuna delle tracce e mai riesce a trasportarci dove solo i migliori riescono.

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Daniel Lioneye – Vol. III

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Siamo giunti al terzo disco di Daniel Lioneye, chitarrista dei talentuosi HIM e mente di riff e assoli a dir poco sbalorditivi che senza esagerare fanno gola a tantissimi musicisti di alto livello della scena Hard Rock ed Heavy Metal internazionale. Purtroppo in molti lo conoscono, come già detto, perchè si tratta di uno dei pilastri della tanta amata/odiata band finnica, creatrice addirittura di un genere quale il Love Metal. In pochi sanno però che Mikko “Linde” Lindstrom, ovvero  Daniel Lioneye, ha un suo progetto nato nel 2001 con alle spalle altri due lavori.

La band di Lioneye è composta da altri due membri degli HIM: Migè Amour al basso ed Emerson Burton alle tastiere. Attualmente alla batteria troviamo Seppo Tarvainen dei The Stourger che va a sostituire Bolton degli Enochian Crescent.
Vol. III è un disco che come il precedente ti spiazza perchè comprendi a fondo le potenzialità di determinati artisti. Con questo lavoro non si tratta di cogliere l’ efficienza tecnica dei musicisti, bensì l’inventiva, il gusto musicale, la raffinatezza culturale e la capacità di assemblare generi più “duri”. Vol. III spazia dallo Stoner alla Psichedelia fino a toccare sonorità Black Metal, insomma tipi di musica differenti rispetto alla band madre che si occupa, invece, di un genere dalle tinte cupe, rockeggianti ed oscure. Ci si accorge dell’ottimo prodotto ascoltando tracce come “Break It Or Heal It”, che vanta di massicci riff e giri di chitarra, oppure la possente “Aetherside”, dove lo Stoner è predominante (gli Electric Wizard impazzirebbero per un pezzo di questo tipo). “Licence To Defile” ricorda un po’ l’andazzo del disco precedente solo che questa volta l’accurato lavoro delle tastiere fa la differenza rendendo il pezzo sinistro. “Dancing With The Dead” si posiziona tra le tracce più riuscite: ha un mood cupo dovuto al buon gioco delle tastiere di Burton, i massicci giri di chitarra presenti che vanno poi a comporre un interessante ritornello rendono il pezzo formidabile e il cantato di Mr. Lioneye da un tocco di fascino in più. “Neolitic Way”, già presente in Vol. II, qui è riproposta in una versione più pesante e pulita.

Questo Vol. III è un album di ottima qualità, dove non solo la musica suscita interesse ma anche i testi scritti da Mige Amour. Nell’attesa di riascoltare gli HIM possiamo goderci questo affascinante lavoro di Daniel Lioneye, magari qualche accanito fan di Sua Maestà Infernale potrà deliziarsi con qualcosa di diverso mentre i guru del metallo pesante o i fondamentalisti potranno ricredersi sulla bravura e la genialità di questi musicisti.

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Santilli | Pratola Peligna (AQ) 10/09/2016

Written by Live Report

È un piovoso sabato di settembre e in un’atmosfera decisamente autunnale il Garbage Live Club di Pratola Peligna (Aq) si appresta a inaugurare la nuova stagione live con il cantautore, ex leader, frontman e voce della band Rock’ n Roll The Old School, Niccolò Maria Santilli, talento nato e cresciuto tra queste valli abruzzesi ma ormai trapiantato stabilmente nella capitale. Il clima è di quelli giusti; il caldo dell’estate lascia spazio al fresco e all’umidità di questo mese tanto malinconico; le mura del club scaldano gli animi in un tepore irreale che riesce a spezzare ogni timore terreno, preparando il campo alla performance avvolgente del songwriter. Santilli è pronto a imbracciare la chitarra e proporci alcune delle sue canzoni, ispirate tanto dalla tradizione italiana che fa capo a Lucio Battisti, quanto al Pop britannico nato con i Fab Four e cresciuto con l’ondata Brit Pop e al Folk d’oltreoceano. Il concerto inizia puntualmente alle ventitré, il grosso del pubblico arriverà puntualmente in ritardo; il fresco del pomeriggio sembra essersi attenuato e sono molti quelli che decidono di ascoltare dall’esterno del locale.

Santilli parte subito con uno dei brani contenuti nel suo ultimo Ep, “Shabalalla”, e, da quel momento in poi, sarà un crescendo continuo sia a livello d’intensità sia sul piano performativo, col cantautore che lentamente riprende la consueta familiarità con le corde vocali e quelle della sua chitarra. Gran parte dei brani che seguiranno, da “Son of a Rocker” a “High and Dry” fino alla scanzonata chiusura in una sorta di medley Rock’ & Roll, passando per qualche chicca regalata in esclusiva al pubblico della serata, mettono in luce tutta la nuova vena artistica di Santilli. Rispetto al passato, ora la chitarra viene solo leggermente accarezzata, in un’esplosione soffusa di note che vuole essere soprattutto accompagnamento alla voce. Solo in rare occasioni la mano del musicista pesta sul legno sprigionando potenza pura, nel resto dei casi è soprattutto una sorta di graffio al cuore, un continuo scavare leggero e persistente nel nostro animo.

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A concerto concluso sono tanti quelli che dimostrano di aver apprezzato, con applausi e complimenti. Non era un live semplice, da eseguire e da seguire; e non lo era soprattutto per una disabitudine del pubblico a un ascolto attento, silenzioso e intimo, specie se chi si mette alla mercé della folla non è un affermato cantautore da duemila euro a serata ma un ragazzo agli esordi, con infinita passione e voglia di urlare al mondo un pezzo di se.

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Dovremmo imparare a vivere nella consapevolezza che non saremo in eterno, imparare a fermarci, cogliere e goderci ogni momento di questa esistenza effimera. Dovremmo impararlo davvero e per poco più di un’ora, Santilli, non ha fatto altro che ricordarlo a noi, che abbiamo saputo ascoltarlo, con la sua voce incantevole e una manciata di parole cariche di energia e voglia di essere in eterno.

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Goran Bregovic, Calcutta & Paolo Tocco (Pescara 04 settembre 2016)

Written by Live Report

La chiusura dell’estate musicale pescarese regala ai cittadini, ai turisti e a tutti quelli che, come me, hanno macinato chilometri per esserci, una giornata carica di appuntamenti gratuiti per tutti gusti e di forti emozioni e divertimento. Almeno tre gli eventi, non direttamente collegati tra loro, ci hanno accompagnato già dal pomeriggio fino alla sera non troppo inoltrata visto il relativo rispetto degli orari previsti per i concerti. Alle ore diciassette, presso la libreria Feltrinelli, il produttore, promoter e cantautore chetino Paolo Tocco fa il suo ingresso in punta di piedi nel mondo della letteratura presentando l’opera prima edita da Tabula Fati, Il Mio Modo di Ballare, raccolta di racconti che sono trasposizione delle canzoni del suo fortunato ultimo album, dallo stesso titolo, particolarmente apprezzato dalla critica (me compreso) tanto da finire tra i finalisti del Premio Tenco. La presentazione è impreziosita da un live acustico per il quale, l’artista, sceglie la sua voce, una chitarra e due musicisti che saranno gli stessi del prossimo disco del musicista abruzzese già in fase di preparazione. L’esecuzione dei brani è alternata a un reading di estratti dei racconti a cura dell’attore Massimiliano Elia e alle domande dei giornalisti e moderatori Donato Zoppo e Luca Pompei. I pezzi già noti dell’album sono riproposti spesso con arrangiamenti che donano loro nuova vitalità e distolgono l’attenzione da un’esecuzione non sempre impeccabile. Del resto il protagonista oggi non è tanto la musica quanto le parole ed è proprio Massimiliano Elia a creare la giusta atmosfera per farci appassionare, emozionare e tutt’altro che annoiare nonostante la durata dell’esibizione che arriva a quasi due ore. Il momento più toccante si ha con la dedica al padre, oltretutto presente e in lacrime; è stato proprio lui a suggerire involontariamente il titolo dell’opera quando cercò ingenuamente di giustificare la sua impossibilità a camminare e muoversi come una volta. Non mancano momenti di critica velata da parte dei moderatori e di autocritica, come quando si fa notare l’accostamento impossibile tra architettura romanica e ambientazione a stelle e strisce o quando si fa cenno all’uso di nomi stranieri per “scenografie” italianissime, ma la grande umiltà e simpatia di Paolo Tocco riescono sempre a far scivolare talune incongruenze o eccessive licenze poetiche in un’aura di magia e umanità. Come lui stesso ammetterà, non ha la presunzione di credersi scrittore nel senso professionale e artistico del termine come non ne ha di essere un cantante. È soltanto un essere umano con diverse cose da dire e tanta voglia di dirle, senza mai svelarsi troppo ma cercando di colpire al cuore dalle più disparate prospettive. Il disco è riuscito nel suo intento, per il libro dobbiamo aspettare almeno il tempo di leggerlo.

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Chiusa la presentazione tocca spostarsi verso il mare. Due sono gli avvenimenti che si svolgeranno di lì a poco quasi in contemporanea: da una parte c’è la festa dei Giovani Democratici con l’inspiegabile fenomeno di massa Calcutta e, ad aprire, I Missili, giovane, allegra e interessante formazione Pop Rock abruzzese messasi in evidenza con l’album Vitamine del 2014 edito da V4V Records. A qualche centinaio di metri, nell’Arena del Mare, c’è Bregovic, con la sua Wedding & Funeral Band. Faccio la mia scelta e, nonostante avessi già visto in passato un suo spettacolo, ma mai quello di Calcutta, mi reco dall’artista serbo occupando posto nelle retrovie, con i piedi nella sabbia e il palco dritto davanti a me. La World Music di Goran Bregovic è quella che conosciamo, lo show non si discosta affatto da quello che ricordavo, i suoi pezzi più noti sono tutti palesati, i fiati, le percussioni, le voci regalano un momento comunque unico a tutti i presenti; ragazzi sdraiati sulla spiaggia, adulti che non riescono a stare fermi e tanti bimbi che ballano come pazzi, per la gioia del genio di Sarajevo (del resto il tour ha il titolo Chi non Diventa Pazzo non è Normale). La scelta della regione Abruzzo nell’ambito Open Day (progetto di promozione turistica voluto dalla presidenza della Giunta regionale “per far crescere la competitività dell’Abruzzo” con la collaborazione dell’amministrazione comunale di Pescara e di Banca Intesa) di finanziare e dare voce a Bregovic si rivela indovinata non tanto o non solo per l’atmosfera di festa che è riuscito a creare ma anche per la sensibilità e l’acutezza con la quale tocca temi importanti come l’integrazione o la guerra. Durante la serata viene anche promossa la raccolta fondi avviata dalla regione a sostegno delle popolazioni colpite dal sisma (se volete dare una mano, il conto corrente è 1034127231 intestato a “Regione Abruzzo – Pro Sisma 2016”, codice Iban IT-73-A-07601-03600-001034127231) secondo modalità probabilmente rivedibili, almeno per aumentare la partecipazione dei presenti; alla fine poco conta se l’ovvia conclusione del concerto si avrà con la sua nota versione di “Bella Ciao”, poco conta se la Festa dell’Unità dei Giovani Democratici è da tutt’altra parte, poco conta se non tutti gli astanti si sentono rappresentati dal famoso canto popolare partigiano. La sabbia salta via dai piedi nudi dei ragazzi, le braccia volano verso il cielo, la danza collettiva resuscita uno spirito di partecipazione e solidarietà che non si vedeva da qualche tempo e anche se non tutti sono mossi da sincero trasporto ma piuttosto dalla voglia di fare “casino” il risultato è di quelli che ci rimarranno nel cuore a lungo.

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Finito il concerto, mi fiondo verso Calcutta, sperando, per una volta, che gli orari non siano rispettati e riesca a vedere la conclusione del live. Arrivo e mi accorgo che le mie speranze possono andare e farsi fottere ma comunque posso scambiare quattro parole con i ragazzi che hanno organizzato e visto il concerto. C’è profonda delusione, mi dicono. Il concerto è durato pochissimo, è costato un sacco, avrà cantato quattro canzoni, oltretutto malissimo e si è rivelato anche tutt’altro che disponibile, rinunciando a incontrare i suoi fan con la scusa che non ama il contatto fisico. Del resto non è un obbligo, per chi suona, darsi in pasto alle folle ma il giudizio sulla sua esibizione mi lascia soddisfatto della scelta di essere altrove e, tutto sommato, sembra confermare tutto quello che temevo circa l’eccessivo, inutile, sconsiderato fragore intorno ad un ragazzo senza troppo talento che si è trovato al posto giusto al momento giusto. Il bilancio della serata resta positivo e, per ora, lasciamo da parte le critiche sulla contemporaneità di eventi di grande risonanza, non solo di Calcutta e Bregovic ma anche con la serata Aquilana, il Jazz Italiano per Amatrice. Per una volta, siamo contenti della vasta possibilità di scelta e dell’abbondanza. Presto torneremo ai piccoli e appassionati concerti nei minuscoli club di provincia e a “emigrare” verso le grandi città del nord per assistere a qualcosa d’importante che, nella mia regione, non si trova con troppa frequenza quando il sole si fa più mite e la brezza della sera si trasforma in un freddo pungente. Oggi mi godo il fresco ricordo di una caldissima giornata sulla riva del mare pescarese.

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President Bongo – Serengeti

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Perché un artista islandese dovrebbe narrare in note terre tanto lontane fisicamente e idealmente? La risposta è nella definizione che Stephan Stephenson (suo vero nome) si è cucito sulle spalle: lui è un carpentiere emozionale e in quanto tale non può che superare ogni sorta di limite per costruire addosso a ognuno di noi l’emotività voluta. Se a qualcuno il nome President Bongo non ha detto nulla, considerando anche che questo è un disco d’esordio, il succitato nome di battesimo dovrebbe ricordarvi una band fondamentale per l’Elettronica nordica che si è sviluppata dai Novanta. Il nostro President è stato, infatti, dalla formazione al 2015 uno dei membri dei GusGus, band di Reykjavik che ha brillantemente esplorato territori vasti dall’House alla Techno, dal Trip Hop all’Elettronica passando per il Pop più “sintetico”.

Se non lo avete capito dall’incipit, Serengeti (disco uscito nell’ottobre 2015 ma, in edizione italo-francese con bonus, nel 2016) narra dell’Africa e, più nello specifico, dell’annuale e mastodontica migrazione dei mammiferi nella regione orientale del continente, raccontando attraverso una miscela molto aderente al concetto dell’opera, la ciclicità eterna di tale spostamento, in apparenza sempre uguale a se stesso ma in realtà ogni volta difforme a causa di diverse condizioni climatiche e non, piccole variazioni che rendono ogni esperienza unica. Quasi a esprimere e ampliare uno dei concetti fondamentali di Eraclito, President Bongo vuole esprimerci tutta la forza del mutamento, del cambiamento e del divenire anche quando l’apparenza sembra suggerire un’illimitata reiterazione del momento.

Per esprimere tutto questo, l’artista islandese sceglie strumenti tutto sommati simili a quelli usati nel progetto GusGus ma il risultato è certamente differente, molto più teso verso un’Ambient e un’Elettronica old style, di chiara ispirazione Eno e con elementi etnici e Afro Jazz che tanto ricordano i Dead Can Dance, oltre ad elementi Folk, Blues e Neo Classic (“Levante”) ed è proprio questa varietà che finisce per fare da legante tra le terre gelate del nord e il Serengeti.

Nonostante i pezzi siano stati scritti tra paese d’origine, New York e Berlino, il riferimento al continente nero non è solo frutto del suo ingegno ma deriva anche dall’esperienza che l’autore ha fatto su queste terre cariche di vita e musica ancestrale; e la scelta di questa terra è anche un omaggio alla sua musica che in fondo è la genesi di tutto quello che abbiamo oggi.

In atto di ossequio all’Italia, gli otto brani che rappresentano un diverso momento di questa grande migrazione, a volte attimi, a volte intere giornate, hanno tutti il nome di venti italiani (l’autore è affascinato da come ogni nostro vento prenda nome diverso secondo la provenienza cardinale) e lo stesso nome non è stato scelto a caso ma con riferimento alle caratteristiche del vento stesso e a come queste si legano con il suono del brano.

Serengeti è un disco complesso nella sua genesi e non semplicissimo all’ascolto, variegato e multiforme, la cui descrizione è fondamentale per comprenderlo al meglio. Allo stesso tempo è opera di pregio assoluto, con alcuni spunti strepitosi, decisamente in grado di esprimere tutto quello che si era preposto in fase di scrittura. Non aggiungerà molto al panorama nel quale possiamo inserirlo ma il pregio e la cura con cui è realizzato e la resa all’ascolto ne fanno uno dei migliori dischi dell’anno passato che noi poveri italiani possiamo goderci nell’anno in corso.

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Quanto è Rock una bestemmia?

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È il 30 luglio del 2016 in una piazzetta di un paesino di provincia; sotto il palco del festival Streetambula c’è tanta gente, sopra il palco è appena salito Giorgio Canali. L’ex chitarrista dei Csi impiega molto a lanciare una sonora bestemmia; noi sappiamo che è fatto così, sapevamo che avrebbe fatto così e quella non sarà la prima ma neanche l’ultima imprecazione della sera. La maggior parte dei presenti non ci farà neanche caso ma, in quella piazza, c’è qualcuno cui la cosa non va affatto giù.

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