Dario Mangiaracina ci parla di Go Go Diva e di come musica e teatralità raccontano l’intimità umana.
(di Alessandro Tarasco)
Quello de La Rappresentante di Lista è stato uno dei migliori album del 2018, un vivido affresco di sessualità, violenza e amore: presenti anche in “The New Pope” di Sorrentino, il loro queer rock è stata una delle rivelazioni della scorsa stagione musicale e sono pronti ad investirci con la loro pulsante potenza in un nuovo sognante tour.
Un album di splendida potenza, maturo e graffiante. Un album che si definisce intimamente nella ricerca profonda del rapporto tra fisico ed emozioni, un album che va ad esplorare la forza comunicativa del nostro corpo, strumento principe nel veicolare e descrivere le emozioni più pure di ognuno di noi: il concept di questo lavoro è infatti la ricerca e la comprensione della fisicità umana, passepartout viscerale e chiave di volta per la pura rappresentazione dei nostri segreti più intimi, dei nostri nudi desideri, delle proprie voglie meno apparenti.
Già dalla copertina, due corpi che si spogliano e che circoscrivono al loro interno il graffio del rossetto con cui si firma la Diva protagonista del lavoro, capiamo che siamo di fronte ad una grande manifestazione d’intenti: il gruppo, con un lavoro spietato e carnale, a volte ci accarezza e a volte ci schiaffeggia, ci mette di fronte ad un esplosione di suoni che oscillano tra il pop e il rock, miscelati e plasmati da sintetizzatori ed effetti digitali riuscitissimi. Un queer rock in cui i muri di chitarre si sovrappongono a digitalismi freddi e acuti, in cui le percussioni potenti si infrangono su pareti canore invalicabili che la voce di Veronica Lucchesi erge a contrafforte dell’intimità cantata.
In questo lavoro c’è il coraggio di affrontare temi profondi, e l’approccio viene influenzato sia da tenerezza che da cinismo: è un album vivo, che pulsa. Un lavoro che, ad immaginarselo, per la vividezza della rappresentazione sembra quasi una mise-en-scène: deve averlo pensato anche un premio Oscar come Paolo Sorrentino che ad una sequenza di The New Pope ha affidato il solo commento musicale di Questo corpo, prima traccia dell’album. Come appena accennato l’impasto sonoro, fresco e viaggiatore, brilla della cultura teatrale che Dario Mangiaracina e Veronica Lucchesi hanno saputo dare all’opera; un’apertura culturale che li contraddistingue a livello nazionale, sicuramente un aspetto che si respirerà sui palchi in giro per l’Italia, dove proporranno “uno spettacolo in cui le canzoni fluttuano all’interno di una drammaturgia visionaria, dove il teatro e la musica si mischiano per dare forma a utopie, desideri e lasciare spazio alla meraviglia”.
Abbiamo fatto qualche domanda a Dario, come tutti noi ora intrappolato tra le quattro mura domestiche.
Go Go Diva è un album viscerale, che nasce da emozioni e sensazioni profonde. La metafora del vostro lavoro è perfettamente riconducibile al fuoco rappresentato dai due corpi che si spogliano nella copertina del disco?
Non avevo mai pensato al fuoco, alla fiamma. Abbiamo scelto questa copertina perché in essa è effettivamente contenuto il senso del nostro album: i due corpi rappresentano il concetto centrale del concept che abbiamo voluto dare al nostro lavoro e che riguarda appunto la centralità del corpo, la necessità di spogliarsi e di rivelare i sogni e i desideri più intimi; lo strumento principale (ahimè in questo periodo inutilizzabile) per stare al mondo e per comunicare all’interno di esso è proprio il nostro corpo.
Un album straordinario per complessità e romanticismo, per potenza ed eleganza. Un album che annovera tra le proprie gemme un brano che è stato inserito da un regista premio Oscar, uno dei più grandi cultori del rapporto musica-immagine, nella colonna sonora di una produzione internazionale tra le più acclamate. Cosa significa per voi essere protagonisti musicali della serie “The New Pope” di Paolo Sorrentino?
Per noi è stata una grande emozione vista l’attenzione e l’importanza che Sorrentino ha sempre dato alle sue colonne sonore. Ricordo che anni fa, quando ho iniziato ad appassionarmi al cinema di Sorrentino con titoli come “L’uomo in più” o “Le conseguenze dell’amore”, scrivevo canzoni e pensavo che sarebbe stato incredibile entrare in una delle sue colonne sonore. L’emozione è stata poi ulteriore quando abbiamo scoperto che il regista ha deciso di utilizzare Questo corpo facendo tacere i due protagonisti e di farli “parlare” attraverso la nostra canzone: un grande motivo di orgoglio.
Il rapporto tra musica e teatralità che scorre nelle vene della vostra musica è affascinante. Quanto ha influenzato la vostra produzione l’essere degli artisti così variegati e versatili?
Sicuramente tanto perché siamo gli autori che siamo grazie alla passione che ci abbiamo messo: abbiamo coltivato più aspetti della scrittura e della cultura e questo ci ha dato un punto di vista molto aperto e personale sulla scrittura. Il teatro ci ha insegnato a prediligere il palcoscenico, il live, dove pensiamo che effettivamente la musica trovi la sua espressione massima. Nel prossimo tour (purtroppo rinviato a data da destinarsi) abbiamo cercato di esprimere questo concetto ancora di più, portandoci dentro una costruzione performativa che possa accompagnare lo spettatore attraverso tutto il concerto.
A proposito di versatilità: dal 19 febbraio comparirete nella nuova stagione della serie Il Cacciatore, in onda in prima serata su Rai2, e nell’occasione avete riarrangiato in chiave anni 90 alcuni brani del vostro ultimo disco: visto il progetto ibrido e poliedrico come il vostro, splendido perché visionario e sfuggevole, vi siete ispirati a qualcuno in particolare per creare una ristrutturazione melodica riconoscibile e “classificabile”?
Siamo un po’ figli degli anni 90, ci siamo formati musicalmente sicuramente nel periodo a cavallo della fine del millennio. Quando avevo 15 anni, nel 2000, l’onda musicale 90’s non si era ancora di certo esaurita, portandosi dietro tutto quel mondo grunge e punk rock che sicuramente è stato di riferimento tanto allora quanto in questo periodo quando, appunto, abbiamo dovuto attingere dalle nostre esperienze per poter tratteggiare nella maniera corretta questo progetto. Ognuno di noi ci ha messo dunque qualcosa, andando a scavare appieno nei propri ricordi.
È giusto dire che fate musica straniera cantata in italiano? La freschezza della vostra proposta mi sembra unica nel contesto italico. Per un progetto che sta crescendo e si sta affermando sempre più come uno dei più interessanti del panorama italiano, quali sono i riferimenti a cui vi siete affidati?
Siamo particolarmente attaccati alla nostra radice italiana, al fatto che la nostra sia musica italiana. Scriviamo e cantiamo in italiano perché vogliamo che questa sia la nostra proposta, la più vera e intima: lo vogliamo fare e crediamo fortemente che si possa fare musica in italiano ma con respiro internazionale, immaginandola come libera e che si possa appunto definire, pur essendo nostrana, una produzione fruibile anche fuori dal contesto italico. Detto questo in effetti ascoltiamo molta più musica straniera che italiana; Parlando degli ultimi 10/15 anni ci piacciono molto, circoscrivendo gli artisti più vicini concettualmente alla nostra musica, gruppi come i Son Lux, gli Arcade Fire o James Blake.
La vostra storia inizia a Milano, continua a Palermo, si produce prima a Bologna e poi ad Arezzo. In mezzo live per tutta la penisola e puntate all’estero, come per esempio la presenza allo Sziget di Budapest. Pattern melodici che per freschezza sembrano arrivare da lontano, una scrittura precisa e mai banale. Da che città arriva la vostra idea musicale?
Ci piace raccontarci come una band con base a Palermo: una città del sud, lontana da tutto, con i suoi ritmi e i suoi tempi. Ci piace perché rende giustizia al nostro essere: non ci sentiamo una band di Milano, piuttosto che di Bologna. Go Go Diva, per essere precisi, l’abbiamo scritto durante un viaggio di circa due mesi in Marocco: pur essendoci alcune contaminazioni nate da questa esperienza, non penso si possa definire come un lavoro che appartenga ad una città del Nord Africa; per quanto ci piaccia essere radicati e appartenere ad una città come Palermo, allo stesso tempo vogliamo essere apolidi e immaginare la nostra musica come viaggiatrice, libera di adattarsi ai più diversi contesti.
L’elegante potenza della voce di Veronica flirta alla perfezione con tessuti musicali delicati ma che sono sempre pronti ad incazzarsi. E ad unire il tutto gli splendidi testi. Ci sono tracce travolgenti e tracce di meditazione all’interno della vostra opera: il testo nasce libero dalla melodia e in un secondo momento ne detta il ritmo oppure nasce con già intrinseco una particolare interpretazione musicale?
E come se fossero delle tracce che nello sviluppo di esse vanno ad intrecciarsi: io e Veronica scriviamo ognuno le proprie parti, legate da un concetto comune, che poi vanno ad unirsi. La ricerca testuale va quindi a completarsi prendendo un po’ da una parte e un po’ dall’altra, unendosi. Una volta che abbiamo il testo o l’idea possiamo andare a ragionare sulla musica e sul suo comparto melodico, sugli strumenti; Possiamo fare varie prove, appunto con più strumenti, in studio o anche solamente chitarra e voce: così facendo sviluppiamo le varie idee e proviamo a realizzarle.
Di recente siete stati a Sanremo al fianco di Rancore e Dardust: ancora non è chiaro a molti che cosa sia veramente il Festival, o perlomeno quello che stia diventando. Voi che l’avete vissuto quest’anno e in passato come nuove proposte, potete darci una mano? È davvero una rassegna che può aiutare a far crescere il movimento musicale italiano o le band di rottura, piuttosto che gli artisti che mettono ancora la musica e l’arte al centro di tutto, servono solo a far storcere il naso agli aficionados della tradizionale musica leggera italiana?
Sicuramente abbiamo avuto un grande riscontro perché Sanremo è un palco importante, c’è la televisione, è indubbiamente un grande amplificatore. L’abbiamo vissuta con grande serenità anche grazie al fatto che fossimo ospiti di una sola serata, quella dei duetti, e che il brano non fosse nostro. Sicuramente gli altri artisti sono stati sottoposti ad un grande stress. È interessante il fatto che arrivando sul palco dell’Ariston la nostra musica, grazie all’amplificazione di cui abbiamo accennato prima, arrivi ad un pubblico molto più ampio, anche e soprattutto ad un pubblico che non ci conosce: ci interessava cercare di capire quale fosse il ritorno da tutte quelle persone che non avevano seguito il nostro percorso, che non ci conoscevano e se il nostro eco potesse farci scoprire, far riascoltare i nostri dischi… È stato bello avere avuto un grande riscontro da un pubblico per noi lontano. Bello e importante.
Come state vivendo questo periodo di inattività forzata (il tour in programma è stato posticipato, ndr)?
Abbiamo iniziato la pausa da poco, abbiamo voluto portare a termine la preparazione dello spettacolo pensato per Go Go Diva e lo abbiamo fatto a Livorno. Scriveremo sicuramente molto, e personalmente lavorerò musicalmente su alcune cose lasciate indietro; insomma, proveremo a godercela.
Sperando che arrivi presto e che la situazione si sblocchi, cosa dovremo aspettarci dal vostro nuovo tour?
Vogliamo portare in scena più delle altre volte il teatro, il nostro teatro; In passato siamo stati descritti come attori prestati alla musica: nel tempo siamo riusciti ribaltare la cosa, o meglio ad ottenere una dimensione più totale di entrambe le cose; vogliamo portare questa dimensione nel nuovo spettacolo cercando di trasportare all’interno dell’esibizione della drammaturgia, che oltre a definirci possa anche avvicinarci a quello che sarà poi il prossimo lavoro, salutando per l’ultima volta questa Diva che ci ha accompagnato in questo anno e mezzo.
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Last modified: 29 Marzo 2020