La band irlandese, giunta al temutissimo capitolo del secondo album, abbandona l’anima tetra dell’esordio e sbaraglia le aspettative con mille meravigliose sfumature.
[ 20.01.2023 | Human Season Records | punk, post-punk ]
In “Gente di Dublino”, il protagonista del racconto “Una Piccola Nube” è un uomo intrappolato dalla propria routine apparentemente ordinaria e mediocre. Lavora come impiegato e prova invidia per i coetanei che sono riusciti a realizzarsi, vorrebbe inseguire i propri sogni di gioventù buttandosi nella scrittura e nella poesia ma sembra non crederci fino in fondo. La sera torna a casa dalla sua famiglia, stremato e accecato dalla frustrazione, il pianto acuto e insistente del figlio di pochi mesi gli perfora i timpani e qualche amara lacrima scende sul suo viso mentre “pensa alla vita e – come sempre accadeva quando pensava alla vita – si sente malinconico”.
La mia mente elabora un repentino ed istintivo collegamento a questo straziante (e tremendamente attuale) racconto di James Joyce nel momento in cui premo play e inizio ad ascoltare Existence, la prima traccia del tanto atteso sophomore firmato The Murder Capital. “Existence fades”, quel mantra ripetuto più volte, la malinconia di una vita che si dissolve, brucia e si consuma lentamente mentre tentiamo invano di capire chi e dove vogliamo essere, cosa vogliamo fare, quali sono i nostri veri desideri.
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Gigi’s Recovery è il secondo album della band irlandese capitanata dal magnetico frontman James McGovern e arriva quasi quattro anni dopo il debutto con When I Have Fears, un disco eccellente seppur inevitabilmente segnato da alcuni tragici eventi durante la sua stesura (il suicidio di un amico e la scomparsa della madre di uno dei componenti del gruppo).
“Is this our end?” è il pesante interrogativo che ci viene posto in Crying: è questa la nostra fine? Una domanda che forse la band pone a sé stessa e, se è vero che ogni fine è un nuovo inizio, allora potremmo essere d’accordo, almeno musicalmente parlando. I Murder Capital sembrano infatti aver superato il loro periodo più oscuro e si lasciano alle spalle le atmosfere dark e decadenti del citato album d’esordio per fare spazio ad un sound più maturo e ricercato ed un approccio più esistenzialista e meno luttuoso.
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Nessun cliché post-punk trito e ritrito, anzi, l’esatto opposto; un tentativo più che riuscito di liberarsi di un’etichetta fin troppo scontata, un’occasione per mettersi alla prova intraprendendo nuove strade e scansare il continuo paragone con altre realtà già affermate nell’ambito della suddetta scena contemporanea (Idles, Shame e soprattutto i connazionali Fontaines D.C.).
Le spettrali chitarre in stile Joy Division e le ritmiche cupe che avevano caratterizzato When I Have Fears vengono accantonate e sostituite da sonorità più brillanti, tipiche dell’indie rock a cavallo fra gli anni 90 e i 2000: è il caso del singolo Only Good Things, l’episodio più pop e carico di ottimismo, in cui le chitarre di Damien Tuit e Cathal Roper e quel cantato sbarazzino e quasi trascinato ci riportano direttamente a Julian Casablancas e i suoi Strokes.
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Anche lo spirito dei Radiohead post Kid A/Amnesiac aleggia costantemente sulla maggior parte dei brani contenuti nell’album: l’esempio più lampante è sicuramente A Thousand Lives, nelle sue atmosfere nebulose sognanti e nel drumming pulito e preciso di Diarmuid Brennan che rimanda all’inconfondibile stile di Philip Selway dell’epoca sperimentale e contaminata di In Rainbows (ascoltare Weird Fishes/Arpeggi per credere).
O ancora, The Stars Will Leave Their Stage, in cui il giro di basso di Gabriel Pascal Blake, che non stonerebbe affatto in Ok Computer, guidato da un beat ossessionante, accompagna un geniale contrasto fra un inquietante piano metallico che pare suonato da un robot ed una delle più straordinarie, calde e commoventi performance vocali di McGovern finora ascoltate (fan di Nick Cave, se ci siete battete un colpo).
L’ipnotica Belonging evoca i paesaggi soffusi e notturni di Darkest Dreaming di David Sylvian e resta sospesa, senza un vero e proprio finale, un perfetto preludio per la successiva The Lie Becomes The Self che ancora una volta riconduce l’immaginario dell’ascoltatore all’universo sonoro della band di Thom Yorke.
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Un lavoro compatto e ben strutturato, in cui la malinconia persiste ma non è più un mood ossessivo e permanente come accadeva nel precedente album, bensì si tramuta in una sottile, piacevole trama impalpabile che ricopre ogni cosa in maniera sapientemente dosata.
Impossibile a tal proposito non citare Ethel, una delle perle dell’album, introdotta da un rintocco di campane sinistro e dissonante: una meravigliosa storia raccontata in parole, immagini e un sorprendente crescendo musicale da pelle d’oca.
Un cerchio si chiude definitivamente in Exist, parallela ad Existence.
Ed esattamente come accade nella vita, fra un punto di partenza e quello di arrivo nulla è più come lo abbiamo lasciato, come lo ricordavamo.
Non è più “existence fading”, infatti, ma “existence changing”.
Una conclusione più che appropriata per l’opera di una band che ha scelto di non essere come i personaggi dei racconti di James Joyce, paralizzati dalle proprie esistenze, ma ha fatto del cambiamento la propria strada per realizzare un capolavoro che – a parere di chi scrive – ha tutte le carte in regola per restare impresso nei cuori di chi ascolta ancora per molto tempo.
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Last modified: 16 Dicembre 2023