“Il fiume che tutto travolge è chiamato violento ma nessuno chiama violenti gli argini che lo arrestano”.
I Thot prendono a prestito queste parole del pensatore tedesco Bertold Brecht per racchiudere in una frase ciò che rappresenta il loro Fleuve e non potevano esserci parole migliori. La formazione Industrial Prog belga capitanata da Grégoire Fray arriva al sesto Lp (remixe compresi) dopo una serie di prove altalenanti che vanno dal buon esordio del 2005 The Huffed Hue fino a quel The City That Disappears che tanto ha diviso la critica tra chi l’ha elevato a capolavoro del genere e chi l’ha disapprovato pesantemente. Con Fleuve, i Thot riscrivono la definizione stessa di Rock elettronico, riscoprendone il lato più crudo e diretto ma scavalcando quegli argini sopra citati alla stregua di un esagitato Mike Patton, relegando la melodia a ornamento del caos organizzato proprio del Prog Metal e concedendosi lunghe digressioni strumentali Post Rock potenti e prepotenti calchiate da synth grevi, fiati accorati e cori pomposi.
Fleuve è “un’ode luminosa al continente europeo” e l’Europa non è punto di riferimento metaforico per l’opera ma anche sostanziale, con quel sound oscuro e malefico tanto caro al nord del continente e i tanti riferimenti mai troppo palesati e forzati ai maestri Opeth o alle innumerevoli formazioni Industrial che si sono accavallate tra i decenni Ottanta e Novanta. La voce di Fray si presenta versatile pur non spiccando per originalità timbrica e, la produzione di Magnus Lindberg, storica chitarra degli svedesi Cult of Luna, non può che amplificare il lato più evocativo dei Thot.
Nonostante questo, Fleuve è anche un album che sa farsi ascoltare da chi è meno avvezzo a certi suoni, che sa sperimentare e azzardare senza perdere mai la bussola, un disco romantico a suo modo, spirituale e sensuale, teutonicamente marziale ed energico ma al contempo introspettivo pur osannando la natura e la sua femminilità tanto da autodefinirsi Vegetal Noise Music, e ancora rabbioso, meccanico e caotico.
Per il sottoscritto, un passo avanti rispetto al precedente The City That Disappears, una specie di devianza non programmata da quella che sembrava una via intrapresa senza biforcazioni, un’esaltazione rigorosa di un caos disciplinato e per tornare a citare Brecht in guerra basta spesso la più piccola deviazione da un ordine per portare in salvo la pelle.
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Last modified: 20 Febbraio 2019