Top 50 album 2024: la classifica della redazione

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Puntuali come sempre, torniamo con la classifica degli album dell’anno che ci sono piaciuti di più: poco più che un gioco, che però ogni volta ci diverte tantissimo.

Un altro anno di musica sta per volgere al termine. Come sempre accade, orientarsi nella miriade di lavori usciti durante gli ultimi dodici mesi non è facile, e fare una classifica quanto più esaustiva e particolareggiata è sempre più complesso.
Quelli che troverete di seguito non sono necessariamente i migliori album pubblicati nel 2024, semmai sono quelli che hanno incontrato maggiormente il nostro gusto e che sintetizzano al meglio le nostre preferenze.
Noi, come sempre, ci siamo divertitə tantissimo nel farla, e speriamo che chi la leggerà possa trovare degli spunti e dei consigli interessanti.

50. Ben Frost – Scope Neglect

[ Mute | post-industrial, elettronica ]
Un lavoro minimalista nel suo stato dell’arte, operando per riduzione all’estremo. Il senso di grandeur ci è rivelato in una chimica di contrasti portati all’esasperazione. Vulnerabili, entriamo in una stanza dove non filtra alcuna luce. Lo spazio e il tempo non sembrano più appartenerci o importarci.
In soli trentasei minuti, l’artista australiano ci ha ancora una volta regalato un capitolo riflessivo della sua carriera che rimbomba angosciante in questi anni che stiamo vivendo. Un’opera sinfonica senza sinfonie, guidata dall’urgenza di un futuro che appare sempre più buio.
(Daniel Molinari – leggi la recensione)

49. DEADLETTER – Hysterical Strenght

[ So | post-punk, art punk ]
Un post-punk ibrido e caotico, mescolato a spolverate ska e a vibranti svirgoli jazz. Un esordio interessante, mai banale, mai noioso. C’è il sax che regala ad ogni brano quel guizzo di particolarità, quell’unicità che serve alla band londinese per spiccare dal marasma post-punk. Con una voce che ricorda vagamente un giovane Nick Cave e coi ritmi danzerecci dei primi Franz Ferdinand, Hysterical Strength è un debutto divertente, che intrattiene. Con testi misantropi, cinici e ironici potrebbero distinguersi e farsi spazio anche in futuro, proprio grazie a questo bell’esordio che li ha portati in superficie come una delle nuove band di questa ondata crank.
(Federico Longoni)

48. SPRINTS – Letter to Self

[ City Slang | garage punk, post-punk, noise rock ]
L’atteso debutto della band di Dublino prosegue sulla falsariga dei due EP precedenti, palesando però un certo occhio di riguardo nei confronti della componente garage punk in seno al quartetto irlandese (a scapito invece di quella più squisitamente post-punk).
Un lavoro energico ed esplosivo, incendiario e roboante, urgente ed espressivo. E, soprattutto, punk. Non rappresenterà forse il disco più complesso e variegato in cui vi sarete imbattuti in questo 2024, ma risulterà senz’altro uno dei più riusciti nell’esorcizzare il disagio interiore attraverso tanti, irresistibili inni garage punk.
(Vittoriano Capaldi – leggi la recensione)

47. Cindy Lee – Diamond Jubilee

[ Realistik / Superior Viaduct | hypnagogic pop, psychedelic pop ]
Può nel 2024 un album della durata complessiva di oltre due ore guadagnarsi l’attenzione di un pubblico sempre più avvezzo a contenuti flash da scrollare senza entusiasmo sui social, sbaragliando le classifiche di mezzo mondo? Ma certo che sì, se la risposta è Diamond Jubilee. Patrick Flegel, ex membro dei canadesi Women, mette la firma su questa monumentale opera che oscilla in continuazione fra seducenti melodie Sixties, pop radiofonico e psichedelia lo-fi, con strutture tanto complesse quanto orecchiabili.
Più affine all’analogico che al digitale, un viaggio morbido e allucinato.
(Francesca Prevettoni)

46. Marika Hackman – Big Sigh

[ Chrysalis | cantautorato, indie rock ]
Alla veneranda – si fa per dire – età di 32 anni, Marika Hackman ha già tirato fuori quattro album solisti (più uno di cover) di ottima fattura: che dire, se non chapeau.
Il nuovo lavoro della musicista inglese è una raccolta di brani che, grazie a sonorità piuttosto variegate e ad armonie molto spesso accattivanti, sanno andare dritti al punto senza il bisogno di aggiungere chissà cosa ad una formula sonora che, sebbene non sia la più originale in circolazione, riesce a funzionare in maniera oltremodo convincente. Tra le intuizioni melodiche di No Caffeine, l’alternative rock di Slime e le venature slowcore di The Lonely House, ce n’è proprio per tutti i gusti.
(Vittoriano Capaldi)

45. Adrianne Lenker – Bright Future

[ 4AD | cantautorato, contemporary folk ]
L’ultimo album solista della voce dei Big Thief è un capolavoro estemporaneo di vasta bellezza, uno di quei rari dischi che ti catturano per la limpida semplicità in cui si raccontano e schiudono verso dopo verso, lasciandosi dietro stralci di ricordi, conversazioni, cose. Registrato su nastro e con poco più che piano e chitarra, Bright Future si apre con un racconto d’infanzia che ricorda lo storytelling impressionistico del migliore Sun Kil Moon e continua su un filo folk/country che la produzione lo-fi non fa che rendere ancora più tangibile.
(Claudia Viggiano)

44. Porridge Radio – Clouds in the Sky They Will Always Be There for Me

[ Secretly Canadian | indie rock, alternative pop ]
Il quarto lavoro della band di Brighton mette ancora al centro il songwriting pregevole di Dana Margolin che si articola su un indie rock malinconico ma consapevolmente speranzoso. Come un cielo necessariamente annuvolato che offre stavolta sprazzi di sereno componendo un quadro bittersweet articolato e mai univoco ma fatto di cognizione e accettazione.
I dipinti della stessa Margolin accompagnano bene le atmosfere emotive delle canzoni: due di essi sono presenti nella sleeve interna del disco, gli altri pubblicati sul suo profilo Instagram; tutti rappresentano delle interessanti chiavi di volta per entrare dentro la musica e le parole.
(Dario Damico)

43. The Smile – Wall of Eyes

[ XL | art rock, post-rock, neo-psychedelia ]
Un secondo lavoro che vede la band andare ancora più in profondità nei suoni, scolpire un’atmosfera più specifica e peculiare. Un disco in cui si sperimenta e si evidenziano le differenze più che le somiglianze, ma soprattutto un album che dimostra come sia Thom Yorke che Jonny Greenwood, assistiti da Tom Skinner, non abbiano mai paura di percorrere il sentiero meno battuto, intrecciando abilmente generi che sulla carta non dovrebbero funzionare e che invece producono risultati eccellenti. Un’esperienza di ascolto ricca, entusiasmante e meravigliosa.
(Federico Longoni – leggi la recensione)

42. Ekko Astral – pink balloons

[ Topshelf | noise punk, post-hardcore, post-punk ]
Energia e vitalità, dissonanza e impegno sociale: quello della band di Washington, D.C. è un debutto frenetico che ha il preciso compito di fare rumore in qualunque modo – con le sonorità, con le parole, con le tematiche – e vi riesce in maniera esemplare. La mascara moshpit music del trio statunitense promette di far scoppiare ogni pink balloon in cui possa imbattersi e assesta pugni a raffica senza cedere il passo a compromessi di sorta (vedi brani come head empty blues e uwu type beat), ma riesce a mantenere vibrante il pathos anche nei momenti più diluiti e sperimentali (come nella lunga e conclusiva i90).
Con ogni probabilità, la migliore uscita queercore dell’anno.
(Vittoriano Capaldi)

41. LICE – Third Time at the Beach

[ AD 93 | post-punk, noise rock, experimental rock ]
Ero in viaggio per Vieste in compagnia di una persona speciale quando ho messo su per la seconda volta il nuovo album di questa freschissima band. È stata ancora meglio della prima. Mentre viaggiavamo tra i paesaggi rurali, a tratti abbandonati, di una strada che sembrava non finire mai, io riuscivo a visualizzare esattamente i suoni di Third Time at the Beach. Figure futuriste, stravaganti, distorte, colorate, libere di essere e di agire. Tra noise, industrial, rock progressivo e una forte componente avanguardistica, la musica dei LICE opprime e fa tirare grandi sospiri allo stesso tempo. A Bristol risiede un alto tasso di follia. Speriamo non passi mai.
(Federica Finocchi)

40. Thou – Umbilical

[ Sacred Bones | sludge metal, doom metal ]
Lunga vita al metal, soprattutto a quello ibridato a regola d’arte con mastodontiche sonorità sludge, una pesante impronta grunge, claustrofobiche stanze intossicate di doom, un cantato così graffiante e caustico da corrodere i timpani, e per finire – perché no – anche una discreta quota melodica. Il sestetto di Baton Rouge, Louisiana, preferisce l’impatto fatale degli infernali riff di chitarra ai leziosi virtuosismi e ci consegna un album forte, granitico, politicizzato, impenetrabile, brutale. Che dire? Beautiful heaviness.
(Francesca Prevettoni)

39. C Turtle – Expensive Thrills

[ Blitzcat | indie rock, slacker rock, noise pop ]
Quella della band londinese non è necessariamente musica che faccia venir voglia di piangere, eppure, una volta arrivato alla conclusiva More Insects, ho sentito una lacrima farsi largo sul mio viso. Sarà il tremolante incedere iniziale, sarà la successiva bordata di distorsioni da esplosione emotiva, ma tant’è.
Se siete alla ricerca di un album che coniughi in maniera quasi miracolosa un’annoiata tendenza slacker a un incessante desiderio di feedback fuzzosi, il tutto immerso in melodie semplici e coinvolgenti, allora siete capitati proprio nel posto giusto.
(Vittoriano Capaldi)

38. Delta Sleep – Blue Garden

[ Sofa Boy | indie rock, math rock, Midwest emo ]
La band di Brighton tira fuori il suo album più strutturato e compatto, dove buona parte del romanticismo passato viene sostituita dal pessimismo e da una disillusione relativa al mondo che ci circonda. Arrivati ad una maturità e ad un livello di scrittura che li pongono tra i grandi della scena britannica e non solo, i Delta Sleep fanno brillare di luce propria anche brani nati dall’oscurità più profonda; agari non sanno come parlarne, come comportarsi, ma già prendere una posizione e mantenerla è un segno di dignità e rispetto con cui porsi di fronte a un mondo che sembra non averne mai abbastanza di conflitti.
(Sebastiano Orgnacco – leggi la recensione)

37. Mount Kimbie – The Sunset Violent

[ Warp | indie rock, neo-psychedelia, post-punk ]
Un posto in cui non ti senti a casa, dopo una giornata mentalmente estenuante, mani in tasca e spaesamento totale: parte Empty and Silent e inizi a piangere senza neanche accorgertene.
Riproponendo in un paio di episodi il magico sodalizio con King Krule, il quinto disco della band inglese sa davvero come tenerti compagnia: non troppo depresso, non troppo felice, l’album perfetto per navigare a vista nel distopico fiume delle cose, all’intersezione esatta tra indie rock, post-punk, neo-psychedelia e dream pop.
Uno di quei lavori che arrivano proprio quando ne avresti più bisogno, del resto si sa che nella vita il tempismo spesso è tutto. Soprattutto quando si è empty and silent.
(Vittoriano Capaldi)

36. A Place to Bury Strangers – Synthesizer

[ Dedstrange | noise rock, post-punk, darkwave ]
“The loudest band in New York” conferma ancora una volta la formula vincente del DIY: dai pedali allo studio di registrazione, passando per l’etichetta, con Oliver Ackermann e soci tutto ha un sapore di “fatto in casa”.
Gli APTBS partoriscono un album tiratissimo, caotico ed urgente, in cui i rumori, quelle vibrazioni che richiamano alla vita, quegli “schiaffi in faccia risonanti”, come avrebbe detto il futurista Luigi Russolo, non lasciano scampo. E noi questi schiaffi ce li prendiamo tutti volentieri.
(Paola Simeone – leggi la recensione)

35. Mount Eerie – Night Palace

[ P.W. Elverum & Sun | slacker rock, avant-folk, post-rock ]
Lavoro denso e mastodontico, la nuova opera partorita da Phil Elverum è un compendio artistico e filosofico della carriera del musicista di Anacortes, Washington. Un album poetico e introspettivo che, se da un lato cerca di (ri)trovare un rapporto intimo e introspettivo con la natura e il mondo nella sua interezza, dall’altro tenta di osservare le sfortunate vicende umane da una posizione distaccata, quasi come se le preoccupazioni terrene fossero ormai solo un mero ricordo. E, se siete tra coloro che si interessano ad un disco anche sulla scorta dei titoli dei brani, qui ne troverete alcuni tra i più belli in assoluto apparsi quest’anno.
Un disco da fine del mondo. Pura poesia metafisica e surreale.
(Vittoriano Capaldi)

34. Floating Points – Cascade

[ Ninja Tune | deep house, glitch, elettronica ]
Viaggio emozionale attraverso suoni ben calibrati e cesellati, quello del producer di Manchester è un ritorno alle origini dettato da una serie di brani da dancefloor, senza però accantonare le sonorità più ambient e le parentesi jazz e classiche dei lavori precedenti. Un lavoro che è stato ispirato da tutte le zone della città natale che hanno forgiato carattere e stile musicale di Sam Shepherd, ma che è estremante calzante per dare voce alla natura, alla libertà che essa dona e alla sua forza dirompente.
(Federico Longoni – leggi la recensione)

33. KNEECAP – Fine Art

[ Heavenly | political hip hop, hardcore hip hop ]
Finalmente il primo disco del trio rap di Belfast composto da Mo Chara, Móglaí Bap e DJ Próvaí; un debutto estremamente politico e pienamente nel loro stile che unisce spietato attivismo di matrice repubblicana, provocazione e un certo gusto per la polemica rumorosa. Presenti tanti ospiti d’eccezione: da Grian Chatten dei Fontaines D.C. a Radie Peat dei Lankum, dal famoso documentarista e scrittore irlandese Manchàn Magan a Jelani Blackman.
Quest’anno per loro anche un film in Irish Gaelic e strettamente legato alla questione della lingua, purtroppo ancora non disponibile in Italia.
(Dario Damico)

32. Chelsea Wolfe – She Reaches Out to She Reaches Out to She

[ Loma Vista | darkwave, post-industrial, trip hop ]
Le vertiginose cascate sludge e i battiti doom dei lavori precedenti qui vengono superati e confluiscono in una ricchezza compositiva che ci pone davanti a un’esperienza dai tratti cinematografici che sa ancora imporre attimi industrial opprimenti, ma abbracciare anche, a più ampio raggio, un uso sapiente di synth, glitch elettronici e riferimenti trip hop.
La circolarità del titolo dell’album non è una casualità, la ciclicità nell’immergersi in spazi tra la soglia della coscienza e della percezione. E forse è proprio questa la direzione che Chelsea Wolfe ci indica: ridisegnare sé stessi è doloroso ma possibile, quasi come se fosse un rito di passaggio che tutti noi, prima o poi, dovremo compiere.
(Daniel Molinari – leggi la recensione)

31. Waxahatchee – Tigers Blood

[ Anti- | alt-country, cantautorato, americana ]
Una delle prime volte che ho ascoltato Tigers Blood per intero vagavo per le campagne e montagne abruzzesi con la mia amica Maria Pia alla guida, e il sesto album di Waxahatchee mi è rimasto impresso così: leggero, delicatamente soleggiato come quella giornata d’aprile, pieno di storie da raccontare. Mi fa pensare alla bellezza della musica che forma amicizie e fa loro da collante, cosa che per me ha fatto e continua a fare. Poi va be’, questo disco contiene anche uno dei singoli più belli dell’anno (Right Back to It con MJ Lenderman) che non è cosa da poco.
(Claudia Viggiano)

30. Other Half – Dark Ageism

[ Big Scary Monsters | post-hardcore, noise rock ]
Un bel pugno nello stomaco, con un sound decisamente post-hardcore che richiama band come i Drive Like Jehu o i vari esperimenti di Vic Bondi degli Articles of Faith. Il terzo album della band di Norwich si muove tra il blando metalcore di Pastoral Existence e il post-punk spoken word di Feeling for Yourself facendo vibrare le corde della nostalgia.
(Gianluca Marian)

29. Avalanche Kaito – Talitakum

[ Glitterbeat | experimental rock, noise rock, post-rock ]
L’estrema umanità, dalla nascita alla morte, attraversata dallo spettro del divino nella resurrezione che segue l’intima apocalisse. Una ridda selvaggia chiassosa, spigolosa e aliena, si contrappone a momenti dronici e ambientali, trovando una sintropia finale nella voce sciamanica di Kaito. Un’esperienza per gli amanti del prog, del tribalismo e del noise rock.
(Gianluca Marian)

28. State Faults – Children of the Moon

[ Dog Knights / Deathwish | screamo, post-hardcore, post-rock ]
Flower Violence: così la band californiana descrive il proprio suono, perfetta sintesi dell’opera gigantesca e mastodontica che è questo nuovo lavoro, album dalla gestazione tumultuosa e contorta ma che nella sua coralità ci regala uno dei migliori episodi della scena screamo e post-hardcore americana.
Ci sono cavalcate fulminee, introspezione downtempo, riverberi sognanti ed echi psichedelici, suite avventurose e una sensazione costante di liberazione solare, per un’esplosione d’energia con terremotanti blast beat o degli assoli trascinanti che danno un tocco old school mai fuori posto.
Vi ritroverete nella spiacevole ma stupenda sensazione di incertezza su quale dei quattordici brani possa diventare il vostro preferito. Spoiler: cambierete idea spesso.
(Daniel Molinari)

27. Bolis Pupul – Letter to Yu

[ DEEWEE | synthpop, electro house ]
Ritrovare le proprie origini in una Hong Kong che sa di perdita e nostalgia. Nato in Belgio da madre asiatica, a molti anni di distanza dalla sua perdita Bolis Pupul intraprende un viaggio in solitaria nella sua terra d’origine con addosso la sensazione di essere “completo a metà”, ma in questa lettera dedicata alla figura materna riesce a imbarcarsi in una sorta di terapia interiore, forte anche della presenza di sua sorella Salah nel brano Ma Tau Wai Road – la strada in cui è nata la madre dei due – che rende il tutto ancora più intimo e curativo. La seconda metà del disco pulsa che è una meraviglia, tra New Order e Kraftwerk in chiave iper electro-synth al cubo, con momenti da club che farebbero venir voglia a chiunque di muoversi. Con la consapevolezza che la musica salva sempre e in ogni luogo, l’artista di Gent ci regala un debutto solista coi fiocchi.
(Federica Finocchi)

26. Drahla – angeltape

[ Captured Tracks | art rock, post-punk ]
Noi qui l’abbiamo definito “post-punk for art”, parlandovi di band che fanno del proprio genere musicale di appartenenza, ossia il post-punk, un punto d’incontro tra arte e musica, disegnando in modo quasi architettonico le coordinate sonore del proprio lavoro.
I Drahla vengono da Leeds – uno dei punti britannici più proficui in campo musicale – e con il loro secondo disco sembrano aver trovato la giusta formula per rimanere impressi a tutti i fan un po’ più “pretenziosi” di un genere ormai saturo e che alla lunga annoia (eccome se lo fa): è l’evoluzione naturale di un debutto (Useless Coordinates) già buono, perché quando ci sono idee e impegno, tutto segue un senso logico. Tra art rock, un post-punk più maturo e sperimentazioni geometriche, la band traccia la strada per superare ancora una volta le nostre aspettative. Mi raccomando, continuate a spingere con quel maledetto basso.
(Federica Finocchi)

25. Hammok – look how long lasting everything is moving forward for once

[ Thirty Something | post-hardcore, noise rock, screamo ]
Folgorati sulla fredda via per Oslo: un debutto che ha saputo rapirci fin dalle prime note con la sua produzione affilatissima e una poliedricità camaleontica che sorprende, spiazza e sposta gli equilibri e i confini sonori del disco a piacimento. Ci ritroviamo prima nel mezzo di un dancefloor con degli acidi beat post-hardcore, per poi scatenarci nel punk danzereccio che sconfina tra noise e venature industriali. Ma gli Hammok non dimenticano mai un sapiente uso melodico che impreziosisce più di un brano, per confermare una bravura compositiva che straborda di contaminazioni e episodi riuscitissimi, nutrendosi spasmodicamente di grezza adrenalina e ricercatezza levigata.
(Daniel Molinari)

24. Father John Misty – Mahashmashana

[ Sub Pop | soft rock, traditional pop ]
Il “Bardo Thötröl”, il libro tibetano dei morti, è un libro di istruzione sulla natura dell’impermanenza, referenza imprescindibile per chi voglia provare a cercare risposte – o porsi domande – sulla morte. È quello che prova a fare anche il caro Josh Tillman con Mahāśmaśāna, parola che in sanscrito indica il “grande terreno per la cremazione”: tra massimalismo esistenzialista, dissonanze scombussolate e suoni solenni, si muove agile su una struttura orchestrale in perfetto equilibrio con il lirismo denso e diretto. Un album intenso che gioca su strati di rivelazioni e simbolismi, per ricordarci che in fondo “una bugia perfetta può vivere per sempre. La verità non se la cava altrettanto bene”.
(Paola Simeone)

23. Foxing – Foxing

[ Grand Paradise | emocore, post-hardcore, art pop ]
L’intero album è incentrato sul confronto tra nichilismo e speranza, e sul tracciare la linea tra i due, e bene si lega alla grandeur delle atmosfere di alcuni brani, schiacciata da una produzione spesso compressa e filtrata, quasi a non voler far godere l’ascoltatore di tutta la bellezza messa sul piatto dai Foxing, o forse proprio a volergliene far trovare anche dove sembra portata via.
Anche stavolta la band di St. Louis ha messo tutta sé stessa in questa ennesima reincarnazione, il nuovo atto dell’esplorazione di una galassia rock indipendente che tende a dimenticarli, band DIY oscurata dagli squali dell’hype e dalle mode del momento.
(Sebastiano Orgnacco – leggi la recensione)

22. Acaciafire – Knockin’ on Heaven’s Door

[ Pine, Cotton, Sand | post-hardcore, noise rock, post-rock ]
Nato inizialmente come progetto solista e poi evoluto in una vera e propria band a Wollongong, Australia, gli Acaciafire si propongono di raccogliere e reinterpretare quel magma sonoro che mescola post-hardcore, post-rock, noise rock e slowcore, tipico del periodo che va dalla fine degli anni ’80 agli inizi dei 2000. Tra i riferimenti che emergono si possono citare band come Unwound, Fugazi, Shellac, Slint, Rodan, Duster e molti altri. Knocking on Heaven’s Door è un’epopea punk di quasi 80 minuti che vi catturerà dall’inizio alla fine.
(Gianluca Marian)

21. Frail Body – Artificial Bouquet

[ Deathwish | screamo, post-hardcore, blackgaze ]
Non c’è nulla di radicale nella band dell’Illinois, bensì si può riscontrare un’evoluzione coerente del genere che viaggia senza intralci su dei binari roventi per intensità e emotività: in fondo i due pilastri fondamentali dello screamoL’aura emanata dal secondo lavoro del quartetto di Rockford è di quelle importanti, e noi non possiamo far altro che abbracciarne il significato liberatorioche poi è la ragion ultima per cui siamo e saremo sempre in prima fila a sudare e urlare insieme a band come i Frail Body, alla ricerca di una connessione umana che solo certe distorsioni sanno regalare.
(Daniel Molinari – leggi la recensione)

20. King Hannah – Big Swimmer

[ City Slang | indie rock, alternative rock, slowcore ]
Secondo album per il duo di Liverpool che, ancor di più del primo lavoro, pesca a piene mani dall’immaginario americano; sia musicalmente, tra slacker, country e folk elettrico in salsa slowcore, che tematicamente, con aperti riferimenti a New York, El Paso e a uno dei re del cantautorato, John Prine.
Il risultato è un disco godibile per qualsiasi viaggio on the road sulle strade statunitensi, siano esse infinite autostrade o lenti e tortuosi sentieri di campagna.
(Dario Damico)

19. Fat Dog – WOOF.

[ Domino | dance-punk, new rave, EBM ]
Istruzioni per l’uso: spegnete il cervello. Assicuratevi che nessun pensiero intrusivo, nessuna preoccupazione, nessun cattivo presagio occupi la vostra mente. Vestitevi comodi. Premete play senza indugio, alzate il volume (esagerate pure: forse i vostri vicini di casa, col senno di poi, vi ringrazieranno). Fatto? Ok, ora ballate, ballate come se non ci fosse un domani.
Il debutto della band londinese è studiato appositamente per lasciarsi andare e perdere la testa, innovativo quanto basta e ben farcito di una generosa dose di accessibilità pop: merce rara di questi tempi, roba di cui abbiamo decisamente bisogno.
(Francesca Prevettoni – leggi la recensione e l’intervista).

18. Nilüfer Yanya – My Method Actor

[ Ninja Tune | indie rock, indietronica, cantautorato ]
La cantautrice londinese porta avanti ciò che già aveva plasmato nei due album precedenti: un pop con richiami alle sonorità alternative tipiche degli anni ‘90 e dei primi ‘00, in brani solidi e godibili, capaci di piantarsi in testa al primo ascolto. Un album maturo, senza filler, senza troppi orpelli. Nilüfer va dritta al punto con le sue chitarre distorte quasi grunge, ma anche con l’uso del violino, riuscendo a creare uno stile peculiare e riconoscibile anche per merito della produzione pulitissima e precisa. Spiccano nell’album i due brani centrali: Mutations, dalle rarefatte atmosfere quasi trip hop, e Ready For Sun (touch), che emoziona con le delicate sonorità folk sporcate da un tappeto elettronico delicatissimo. Sicuramente un lavoro che conferma il talento di Nilüfer Yanya e che merita di essere annoverato tra i migliori dell’anno.
(Federico Longoni)

17. Nicolas Jaar – Piedras 1 & 2

[ Other People | elettronica, ambient, glitch ]
Venerdì 25 ottobre 2024 il musicista e compositore statunitense cileno ci ha completamente spiazzati tirando fuori non uno, ma ben due album, Piedras 1 e Piedras 2: due dischi apparentemente diversissimi tra loro, eppure complementari. Se nel primo prevalgono ritmi ipnotici, tribali, oscuri, ancor più di quanto Jaar ci avesse abituati coi suoi precedenti lavori, il secondo si rivela in tutto il suo meraviglioso minimalismo, tra suoni ambient, glitch, a cavallo tra elettronica e noise nel lungo gioco di synth della parte finale. Parte 1 e parte 2 rappresentano un dualismo che rispecchia le catastrofi del mondo in cui viviamo. Un mondo diviso a metà, tra silenzi e grida, indifferenza e dolore, distruzione e impotenza. Nicolas Jaar ha a cuore la causa palestinese da sempre, e questi due lati musicali ne sono il testamento. Lo spazio è solo rumore. Riempiamolo d’amore.
(Federica Finocchi)

16. Cloud Nothings – Final Summer

[ Pure Noise | indie rock, emo, post-hardcore ]
A quanto pare, Dylan Baldi è riuscito a scendere a patti con il mondo, o almeno ci sta provando. All’interno di questo nuovo lavoro c’è infatti un senso di catarsi che è molto bello da vivere in tempo reale. Potete considerarlo un fratellino di quel Life Without Sound che – almeno per chi vi scrive – riusciva a coniugare al meglio l’impatto fisico dei brani con il loro lato melodico. Una cosa è certa: nei suoi 29 minuti di durata, il disco non alza mai il piede dall’acceleratore, anche nei momenti più mid-tempo.
L’ennesima, minuscola rivoluzione di una delle più importanti e sottovalutate punk band americane.
(Sebastiano Orgnacco – leggi la recensione)

15. Kendrick Lamar – GNX

[ pgLang / Interscope | West Coast hip hop, conscious hip hop ]
Dopo aver infiammato il 2024 con uno dei dissing più incendiari (e squilibrati) che la storia del rap ricordi, il nuovo album di Kendrick Lamar si apre con un atto di lesa maestà. “Yesterday, somebody whacked out my mural”, sibila K.Dot, ma GNX non è un disco sui propri nemici, piuttosto un victory lap a celebrare sia lo status semi-divino che Kendrick ricopre, sia lo spirito originario della West Coast che trasuda in ogni sillaba e in ogni produzione (complici un ritrovato Sounwave e un sorprendente Jack Antonoff). Tra brani già iconici, momenti introspettivi e una voce sempre più libera di osare, è un album che sfila trionfalmente tra passato e futuro, confermando Lamar come IL rapper di questa generazione.
(Sebastiano Orgnacco)

14. Geordie Greep – The New Sound

[ Rough Trade | jazz rock, avant-prog, art rock ]
All’esordio da solista, l’ex cantante e chitarrista dei black midi ci porta in dote un progetto che bolle e ribolle, sempre in movimento. È dinamico, oscuro, in continua agitazione. Non c’è mai un momento di quiete, ogni traccia sembra spingere verso qualcosa di nuovo, di inaspettato. È un album che vive di tensione e contrasto, come se fosse sempre sul punto di esplodere o di trasformarsi in qualcos’altro.
(Gianluca Marian – leggi l’articolo)

13. Friko – Where we’ve been, Where we go from here

[ ATO | indie rock, noise pop, chamber pop ]
L’esordio del giovane duo di Chicago deve molto alla tradizione indie rock della città e d’oltreoceano in generale (Wilco, The Microphones, Bright Eyes, Okkervil River, solo per fare qualche nome). Durante l’ascolto, ciò che colpisce maggiormente è un’urgenza rarissima e riservata quasi esclusivamente agli album di debutto, un’urgenza che racconta di sensazioni vissute al massimo, forse per la prima volta, con la purezza senza filtro di chi non ha ancora fatto il callo alle tante delusioni e disillusioni della vita.
(Claudia Viggiano – leggi l’intervista)

12. bondo – Harmonica

[ Day End | post-hardcore, slowcore, post-rock ]
Nel mondo musicale odierno non inventare nulla è considerato un peccato capitale, il che diventa ancor più assurdo se si tiene conto del fatto che nell’A.D. 2024 partorire qualcosa di totalmente nuovo in quello che chiamiamo rock mi pare perlomeno complesso. Perché questa premessa? Perché i bondo, quartetto da Los Angeles al suo secondo disco, mi ricordano tante cose: dagli ultimi Fugazi di The Argument (Sink) agli Unwound più crepuscolari (BG), senza dimenticare Duster (Harmonica) e Polvo (Porchetarian).
Tutta roba già sentita? Senz’altro, ma io nel dubbio una perla slowcore come Triple Double e la magnifica dissonanza di DJ Lessons me le tengo strette più che volentieri. Sia messo agli atti.
(Vittoriano Capaldi)

11. Nick Cave & The Bad Seeds – Wild God

[ Play It Again Sam | cantautorato, art rock ]
Un dio selvaggio, Il Primo Dio di Emanuel Carnevali, è forse quello stesso dio a cui prova ad avvicinarci Nick Cave. Wild God arriva come un caos calmo, lontano dai deliri dark e dai tormenti. Cave è un uomo maturo, che ha saputo non solo affrontare dolori incredibili nella sua vita personale, ma è riuscito addirittura a servirsene grazie alla musica. Dal dolore alla gioia, il tempo di 10 pezzi che rappresentano “un’esplosione verso l’alto”, per citare lo stesso Cave. In questo disco c’è ancora posto per la bellezza, per i ricordi e per la trasformazione. Sinfonie gospel, cori sacri, e melodie imponenti. Siamo davanti all’album del risveglio, della cura e dell’elevazione perché, proprio come diceva Carnevali, “ho imparato a non temere la morte, io che muoio una volta al giorno.”
(Paola Simeone)

10. Lip Critic – Hex Dealer

[ Partisan | synth punk, digital hardcore, industrial hip hop ]
Non è post-punk, non è hip hop, non è industrial, non è noise, non è elettronica, non è musica da club, non è un tentativo di ricalcare i solchi lasciati da Death Grips e The Garden.
E allora cos’è Hex Dealer? È ovviamente un po’ di tutto questo, ben miscelato come un ottimo drink dall’elevato tasso alcolico, ma soprattutto è una sonora sberla in faccia a chi non esce mai dal proprio recinto musicale. Zero chitarre, tanti synth impazziti, un’urgenza incontenibile: godimento assicurato.
(Francesca Prevettoni)

9. Touché Amoré – Spiral in a Straight Line

[ Rise | post-hardcore, melodic hardcore, screamo ]
Il punk del gruppo losangelino è ancora una volta intimo e sincero, senza troppi voli pindarici e soprattutto senza la pretesa di stravolgere la propria identità. Tutto è contraddistinto da una coerenza innegabile. Un disco che lascia la sensazione di aver ritrovato per l’ennesima volta degli amici che rappresentano un porto sicuro per chi ama queste sonorità, pronti a volare sul palco lanciandoci in quei sing-along che ci spezzano le corde vocali. E questo, sì, ci rimette in carreggiata.
(Daniel Molinari – leggi la recensione)

8. Chat Pile – Cool World

[ The Flenser | noise rock, sludge metal ]
Il secondo lavoro della band dell’Oklahoma presenta una varietà compositiva quasi inaspettata per un gruppo apparentemente così “rozzo”. Cool World non è un album di argomenti glamour, e soprattutto non è un disco che fa stare bene. Se i brani suonano alla grande è perché dietro ci sono dei musicisti eccezionali che con le loro idee e i loro ideali prendono un qualcosa che senza contenuti potrebbe risultare monotono e lo elevano allo step successivo. Dischi così fanno bene perché – musicalmente e non – vogliono solo prenderti a cazzotti in faccia.
(Sebastiano Orgnacco – leggi la recensione)

7. Porcelain – Porcelain

[ Portrayal of Guilt | post-hardcore, noise rock ]
Se Paolo di Tarso fosse stato incline al noise e non alla spiritualità, la sua folgorazione sulla via di Damasco sarebbe probabilmente avvenuta con i Porcelain. La band di Austin – nata da una costola dei magnifici Exhalants – esordisce davvero col botto, grazie ad un lavoro ispiratissimo ed estremamente solido che mescola le taglienti bordate degli Unwound e il rumorismo efferato dei METZ, l’aggressività dei Fugazi e gli intrecci dei June of 44, senza dimenticare un certo retrogusto post-punk à la Protomartyr.
Un debutto roboante che si candida ad essere una delle uscite più interessanti in ambito noise di questo 2024. Dove c’è rumore, c’è casa.
(Vittoriano Capaldi)

6. MJ Lenderman – Manning Fireworks

[ Anti- | alt-country, slacker rock, cantautorato ]
Qualcuno pensi anche ai teneri e ai sopraffatti, mio dio. MJ Lenderman, venticinque anni da Asheville, North Carolina, è il nuovo idolo goffo e un po’ sbrindellato della categoria. Equamente divertente e deprimente, l’album è costellato di storie di tragicomici perdenti: chi drena sperma dalle docce degli hotel, chi compra casa al mare a Buffalo, chi diffida di John Travolta pelato. Non sono personaggi coraggiosi né ammirevoli né propriamente cool o goffamente sexy à la Seth Cohen: sono veramente solo dei teneri sfigati.
Che finalmente non ci sia più bisogno di guardare solo a band di ultracinquantenni per avere un po’ di sano dad rock?
(Ilaria Procopio – leggi la recensione)

5. Fontaines D.C. – Romance

[ XL | post-punk, alternative rock ]
All’origine ci perdemmo tra le vie inzuppate d’acqua del cielo plumbeo di Dublino con Dogrel, poi ci siamo scaldati al tepore del sole di A Hero’s Death, prima di catapultarci nell’atmosfera notturna da clubbing decadente di Skinty Fia. Quest’anno è stato il turno di Romance, che ha segnato un notevole cambiamento in seno alla band irlandese (a livello di sonorità, estetico e anche di etichetta, con la fine del lungo sodalizio con Partisan).
Ne abbiamo scritto diffusamente qui, in un articolo a livello redazionale: leggi l’articolone.

4. DIIV – Frog in Boliling Water

[ Fantasy | shoegaze, dream pop, slowcore ]
Dove Deceiver aveva degli hook luminosi a cui aggrapparsi, il suo successoresceglie una via più omogenea, senza singoli di lancio particolarmente canticchiabili, o men che meno quei riff iconici a cui siamo stati ben abituati. La band di Brooklyn si accerta di alzare la temperatura di distorsioni e messaggi poco per volta, facendoci acclimatare in questi 43 minuti di disillusione, critiche alla società, errori del passato e accettazione passiva di un futuro non più solo distopico. Si parte dall’individuo, si racconta una società, e poche band riescono a farlo con una mancanza di speranza così plateale da diventare per forza di cose autosabotaggio.
(Sebastiano Orgnacco – leggi la recensione)

3. The Cure – Songs of a Lost World

[ Polydor | gothic rock, alternative rock, post-punk ]
Un giorno che sa di pioggia e malinconia, tristezza e voglia di ritirarsi nei propri pensieri. Un periodo che profuma di autunno inoltrato, foglie secche che crepitano sotto le nostre suole durante silenziose passeggiate immerse nella nebbia: l’atmosfera ideale per immergersi nella nuova opera della leggendaria band guidata dall’immenso e iconico Robert Smith. L’abbiamo aspettato con tanta lucida e sana impazienza, ci abbiamo sperato ma talvolta non troppo, e alla fine è arrivato.
Per il ritorno in grande stile dei Cure non potevamo non proporre un articolo collettivo redazionale: leggi l’articolone.

2. Yard Act – Where’s My Utopia?

[ Island | dance-punk, art punk ]
James Smith ha due grandi qualità: è cocky come Jarvis Cocker ed è un ottimo paroliere come Alex Turner. Sarcastico, dinoccolato, canta (recita, parla, reppa?) con accento pronunciato aforismi ingegnosi e sottili. In più, testi introspettivi su eco-ansia e compromessi per sopravvivere all’industriale musicale contemporanea vs melodie accessibili, poppy e che annullano i confini di genere.
Non è post-punk, non è dance-rock: i nuovi Yard Act sanno solo quello che non sono. E meno male.
(Ilaria Procopio – leggi la recensione)

1. Godspeed You! Black Emperor – “NO​ ​TITLE AS OF 13 FEBRUARY 2024 28​,​340 DEAD”

[ Constellation | post-rock, drone, experimental rock ]
Nessun titolo, nessun nome per ogni singola perdita umana che diventa solo un triste numero e si consuma di fronte ai nostri occhi nell’atroce tragedia quotidiana di una realtà che mai e poi mai avremmo voluto vivere, eppure ci troviamo ad osservare impotenti. Con il consueto spessore – non solo artistico – che lo contraddistingue da sempre, il fenomenale collettivo guidato da Efrim Manuel Menuck ancora una volta prende posizione e tramuta in apocalittici suoni un vero e proprio manifesto socio-politico. Senza proferire parola, come il più fragoroso e devastante dei silenzi mai ascoltati, come quello del mondo che assiste al proprio stesso orrore.
(Francesca Prevettoni)

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Last modified: 20 Dicembre 2024