Il collettivo irlandese ci guida alla scoperta di paesaggi esteriori ed interiori attraverso uno straordinario percorso in dodici fermate.
[ 24.11.2023 | folk, jazz, experimental | autoprodotto ]
Nella prefazione di Listening To The Wind, primo volume di un’interessante trilogia a tema, lo scrittore e cartografo Tim Robinson descrive in maniera eloquente la vasta gamma di suoni che caratterizzano il Connemara, la regione più selvaggia e pittoresca d’Irlanda: una zona ricca di folklore, ambienti incontaminati e cultura.
Il delicato sussurro del vento che fa vibrare le foglie nei boschi, il perpetuo scorrere dei ruscelli, il potente ruggito delle onde che si infrangono sulle coste: echi immensi e indefiniti che contraddistinguono in maniera univoca un unico spazio, risuonando contemporaneamente come fossero un’unica grande orchestra diretta dalla natura, che rendono il silenzio – udibile soltanto quando si presta attenzione – quasi ineluttabile.
La cosiddetta psicogeografia – ovvero, l’influenza che le caratteristiche geografiche di una particolare area avrebbero sulla mente delle persone di quel luogo – gioca un ruolo fondamentale nella musica dei Trá Pháidín, ensemble composto da nove membri che proprio nel suggestivo territorio sopra descritto affonda con fierezza le proprie radici.
Solo un ascolto più approfondito ed analitico può scomporre gli elementi che danno forma al loro sound compatto, armonioso, elegante e al tempo stesso piacevolmente disordinato.
Su una base prevalentemente oscillante fra folk e jazz, i Trá Pháidín tracciano mappe a mano libera e costruiscono pattern complessi attingendo ad un colorato ventaglio di generi diversi, improvvisano cambi di ritmo e di umore, arricchiscono la miscela con innesti psichedelici, rifiniture post-rock e kraut, sottili trame ambient.
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Impossibili da etichettare in maniera rigida, esattamente come alcune delle band che vagamente rievocano nelle loro sonorità (Black Country, New Road, BADBADNOTGOOD, Kokoroko), la loro essenza è indubbiamente votata ad una piena libertà di struttura ed espressione.
L’utilizzo del gaelico in titoli e testi è una scelta peculiare, che rafforza un senso di appartenenza e una precisa identità da difendere, preservare, tramandare con orgoglio.
An 424, terzo LP della formazione irlandese, è un viaggio, e lo è nel vero senso letterale del termine.
Il titolo dell’album cita il numero della linea dell’autobus che percorre quotidianamente sulla R336 la tratta Galway-Carna, costeggiando una serie di vedute mozzafiato: dalla baia di Galway alle isole Aran, lo sguardo del passeggero si immerge in un universo fatto di inspiegabile bellezza dalla quale appare impossibile distrarsi.
Molti di noi riconosceranno sicuramente un suono familiare in quello scorrere di pneumatici sull’asfalto, che si può cogliere sulle prime note di cáin chairr e che torna ogni tanto a farsi sentire fra un pezzo e l’altro. Per alcuni è il suono della routine, della ripetitività quotidiana, per altri quello dell’eccitazione mista a sana agitazione che contraddistingue una gradevole partenza.
Si avverte un’atmosfera iniziale rilassata, un momento di estrema consapevolezza in cui ancora non si sa bene cosa aspettarsi e la propria percezione è aperta a raccogliere ogni segnale sensoriale dall’esterno. Un’atmosfera che poi inizia gradualmente a trasformarsi in gioia, brio, pura festa, fra strumenti che appaiono e scompaiono, come luci che si accendono e spengono ad intermittenza; sembra davvero di trovarsi con gli occhi incollati ad un finestrino, osservando un paesaggio che passa davanti ai nostri occhi in continuo mutamento, in linea con un’incessante metamorfosi di emozioni e sentimenti.
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Un possibile fil rouge è individuabile nel trittico fear Liatroime: un brano diviso in tre atti, tanto differenti quanto inevitabilmente connessi fra loro e con il resto dell’album.
Nella prima parte, interamente strumentale, prevale un assorto e contemplativo panorama ambient, quasi un sogno sconnesso e disturbato da rumori esterni, la testa cullata dalle leggere vibrazioni di un sedile.
La seconda parte nasconde un’anima avventurosa ed impavida e potrebbe essere considerata la componente più “punk” del lotto, fra spoken word, batterie imbizzarrite ed un crescendo quasi insostenibile, che culmina e si adagia sul finale in una coda free jazz che si fa via via sempre più minimale, fino a divenire quasi dissonante. Le visioni oniriche sfumano e lasciano spazio ad un breve, fugace attimo di lucidità.
Infine, la terza: fra note confuse e sommerse, un ponte che collega le due parti precedenti, quasi in uno stato di dormiveglia, sospeso fra realtà e immaginazione.
È interessante notare come ogni contrasto trovi il proprio incastro, senza alcuna forzatura, solo una stupefacente e naturale armonia: dalla dolcezza quasi nostalgica nel sax che si disperde nel caos creativo di maidin heinz, al senso di straniamento quasi ipnotico in teach tuí Bhearna; dai momenti di raccoglimento ed estasi che sfociano in un tumulto che ribolle di voci sovrapposte (Monty Phádraic Jude), al puro, cristallino folk di cé mo dhuine siúl sa hi-vis, passando per alcuni trascinanti episodi di “bossanova nordica” valorizzati da fusioni fra generi e un’illimitata sperimentazione (m’anam go b’ea, yung fella).
Il finale, affidato a Bóthar an Chillín, rappresenta il degno epilogo di ogni viaggio che si rispetti: una conclusione dal retrogusto amaro e malinconico, il desiderio di imprimere ogni ricordo nella propria mente, forse un velo di tristezza negli occhi.
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An 424 è un itinerario in dodici fermate, una riflessione sul corso della vita espressa attraverso la metafora di un’esperienza in movimento, in un ascolto libero e aperto ad ogni possibile interpretazione.
Domani sarà già tempo di riavvolgere il nastro, ricominciare da capo, ripartire; come onde che si infrangono su una costa, mai uguali fra loro, come un tragitto che attraversiamo ogni giorno ed ogni giorno non si ripete mai identico al precedente.
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Last modified: 24 Novembre 2023