Abbiamo incontrato la band siciliana poco prima della sua esibizione al Rock Your Head, in un clima di senso di comunità e rilassatezza tipicamente abruzzese.
[Intervista a cura di Federica Finocchi e Vittoriano Capaldi]
[Foto in copertina © Jacopo Benassi]
Le vecchiette del posto chiedono di poter andare a messa. C’è una band seduta su una panchina nel bel mezzo di un vialetto, intenta a rispondere a delle domande sotto gli occhi vigili di una telecamera che li riprende.
Noi, dal canto nostro, siamo di poche pretese. Ci bastano delle birrette, uno scorcio abruzzese mozzafiato, un tavolino e qualche sedia.
Siamo pronti a scambiare due chiacchiere con la band di cui sopra, una delle più importanti degli ultimi trent’anni, in Italia e non solo: gli Uzeda.
Incontrare un gruppo storico e di culto come quello siciliano in un paesino dell’entroterra abruzzese, su una terrazza che si affaccia sulla Majella, è una di quelle esperienze che riempiono davvero il cuore.
Il quartetto catanese ci ha concesso una chiacchierata qualche ora prima di esibirsi nella giornata di apertura dell’edizione numero 14 del Rock Your Head Festival, realtà incredibile che negli anni ha reso un piccolo borgo come Montebello di Bertona (PE) una tappa obbligata per ogni appassionato di musica alternativa (e non solo, visti anche gli innumerevoli eventi collaterali inseriti in cartellone).
Di seguito trovate il testo dell’intervista, per la quale ringraziamo di cuore i quattro Uzeda – Giovanna Cacciola, Agostino Tilotta, Raffaele Gulisano e Davide Oliveri – e lo staff del festival, davvero gentile e disponibile.
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Innanzitutto, da buoni abruzzesi, una domanda doverosa: come vi state trovando nella nostra regione? E come vi sembra l’atmosfera molto DIY e rilassata del Rock Your Head?
Giovanna: Il posto è fantastico e la vostra regione incantevole; da adolescente sono spesso stata in vacanza qui da voi e ho dei ricordi bellissimi.
Per quanto riguarda il Rock Your Head, questo festival è la dimostrazione che, quando si vuole, le cose si possono fare: cura e dedizione sono fondamentali, quando ci sono queste poi tutto il resto funziona da sé.
Se fatte bene, le cose, come diciamo noi, si possono fare anche “sul pizzo della montagna”.
E quando è stata l’ultima volta in cui avete suonato in Abruzzo?
Agostino: Non suonavamo in Abruzzo da una decina d’anni, quando ci esibimmo in un festival vicino Pescara in cui tra gli altri c’erano anche gli Zu.
Tra l’altro, a ben pensarci, fu anche la volta in cui trovammo scritto sul menù di un ristorante “spaghetti alla chiotarra” senza sapere che si trattasse di un errore, perché non immaginavamo affatto che della pasta potesse essere definita “alla chitarra”, e ricordiamo ancora dell’ilarità generale quando li ordinammo dicendo proprio “chiotarra”. [ridono tutti]
Devo poi aggiungere che, rispetto all’ultima volta in cui siamo venuti in questa regione, sono cambiate molte cose, in primis ho notato una presenza massiccia di bed & breakfast che prima era impensabile. Mi sembra sia in atto anche qui un certo processo di gentrificazione.
Vi andrebbe di raccontarci qualcosa su Steve Albini, voi che avete collaborato per anni con lui e che con lui avete sempre avuto un rapporto a dir poco speciale?
G.: Abbiamo tantissimi ricordi legati a Steve Albini, quasi tutti i nostri dischi li abbiamo registrati con lui e quindi abbiamo vissuto insieme davvero tanti momenti. Per quanto mi riguarda, adesso per me sarebbe difficilissimo immaginare di registrare con qualcun altro, perché la situazione umana che si creava quando lavoravamo con lui era unica.
Io di norma non amo registrare e non mi sento particolarmente a mio agio nel farlo, ma fin dalla prima volta che abbiamo lavorato con Steve questa cosa è venuta meno, poiché lui sapeva di questa mia difficoltà ed è sempre stato estremamente delicato, comprensivo ed accogliente con me. La disponibilità e la cura che ha sempre avuto nei nostri riguardi sono encomiabili.
Poteva aver registrato con chiunque prima di te, eppure non ti faceva mai sentire inferiore rispetto a nessun altro, il che è incredibile se si pensa a quali nomi della scena musicale internazionale hanno lavorato con lui.
Davide: Ricordo ancora con quanta umiltà mi suggerì di cambiare le pelli della batteria quando venne a Catania per la prima volta, nel periodo in cui registrammo il nostro primo album in uno studio degli anni ‘70 di proprietà del fratello di Gianni Bella.
La sua più grande abilità era quella di riuscire a metterti nelle condizioni migliori per esprimerti come musicista, Steve era completamente al servizio degli artisti e non a caso lui in primis non si è mai considerato un produttore.
Ovviamente alle sue doti umane si univa una grande capacità tecnica e di comprensione dell’ambiente e del suono. Con lui non ti sentivi mai sotto pressione, io suonavo con una libertà che non riuscivo ad avere neanche in sala prove. Anche quando ci consigliava o suggeriva qualcosa, non lo faceva mai con prepotenza o arroganza.
Ora che ci penso, una cosa bella e curiosa che ricordo è che riusciva a farsi i lacci delle Dr. Martens con i ritagli dei nastri dei 24 tracce: in pratica li tagliava, li stirava e se li metteva nelle scarpe.
Raffaele: A proposito dei nastri, lui utilizzava una tecnica analogica in voga negli anni ‘60 che credo in pochi sappiano maneggiare oggi: quando c’era un errore durante un’esecuzione, lui era in grado di tagliare il nastro esattamente nel punto in cui c’era stato il problema, per poi incollarlo di nuovo con un’altra porzione di nastro su cui era stata registrata la nuova parte, stavolta senza errori.
Me lo ricordo inginocchiato lì davanti al registratore alla ricerca del punto esatto del nastro da tagliare: lui tagliava e incollava e tu non ti accorgevi di nulla.
I nastri che dovevano essere scartati per via degli errori venivano riutilizzati come lacci per le scarpe, in nome di una grande filosofia del recupero e anche di una certa propensione allo scherzo e alla leggerezza.
Steve era poi in grado di cogliere il suono senza togliere né aggiungere nulla, che secondo me è proprio ciò che dovrebbe fare ogni produttore nella sua accezione più nobile.
A.: Steve era una persona estremamente privata e ha passato gran parte della sua vita in studio.
Preferisco sempre parlare di lui sotto l’aspetto umano, perché ricordare lo Steve ingegnere del suono è quasi banale, dal momento che la sua figura professionale non ha certo bisogno del mio commento.
Per fare un esempio, quando gli Slint si apprestavano a registrare il loro primo album, il chitarrista David Pajo ingaggiò Albini, mentre il batterista Britt Walford nel frattempo aveva contattato Brian Paulson. Quando si ritrovò con la band e vide che in studio c’era già Paul, Steve andò da un imbarazzato Pajo e, con tutta la modestia e l’umiltà che lo contraddistinguevano, gli disse che si sarebbe fatto da parte, perché la sua presenza lì non era necessaria.
Tra noi e Steve c’era davvero una connessione, per di più io e Giovanna abbiamo registrato con lui anche tutti i dischi usciti a nome Bellini. Con lui ci è capitato di lavorare in posti davvero fatiscenti e non si è mai lamentato, si metteva lì e si divertiva nello smontare il banco del mixer con i suoi giraviti.
Addirittura una volta mi chiamò alle 6 del mattino perché di lì a poche ore avrebbe dovuto firmare il contratto di acquisto della struttura che sarebbe poi divenuta Electrical Audio e voleva essere rassicurato e spronato da me.
A volte, quando avevamo qualche difficoltà, ci è anche venuto incontro a livello economico, e ricordo ancora di quando sua moglie gli diceva che con i diritti sulle canzoni che registrava avrebbe potuto vivere di rendita e lui le rispondeva che questi appartengono ai musicisti, non ai produttori. Aveva davvero uno sguardo che andava oltre.
Per lui, venire a registrare gli Uzeda equivaleva ad andare in vacanza; con noi si divertiva e si rilassava, si sentiva davvero a casa e non a caso si riferiva a noi con la parola “family”.
È impossibile dimenticare quando, prima di un nostro concerto alla Maroquinerie a Parigi, ci presentò sul palco definendoci “la miglior band del mondo”. Inutile dire che noi eravamo del tutto increduli e stupefatti.
D.: Aggiungo che, per quanto mi riguarda, per capire chi era davvero Steve bisognerebbe guardare il suo modo di suonare. Lui era estremamente essenziale ed efficace, uno dei pochi musicisti che, attraverso l’essenzialità, era in grado di risultare estremamente convincente.
Nel suo stile chitarristico c’era tutta la sua capacità di arrivare alla riduzione in nome dell’efficacia, e il suo approccio era quello tipico di chi ha le idee molto chiare.
R.: Tra l’altro era anche generoso, del resto su YouTube ci sono diversi video in cui spiega ed espone le tecniche che utilizzava per registrare. Condivideva tutti i segreti del suo mestiere e questo è indice di una generosità davvero unica.
Per voi che avete fatto parte di una sorta di microscena a partire dagli anni ‘90 ad oggi, quanto impatta il fatto che attualmente le scene musicali, soprattutto quella alternativa in Italia, siano piuttosto disgregate?
G.: Questo è un discorso molto impegnativo! [ride] Non so se le microscene siano mai esistite. Una scena, per essere tale, presuppone che abbia con sé un numero di persone che condivide ideali, principi, intenzioni sociali e politiche. Non so se tutto questo ci sia mai stato. Se oggi non c’è, la motivazione sta nel fatto che al momento non c’è questa esigenza. Senza chiederci le ragioni e di chi sia la responsabilità, viviamo in un momento storico in cui l’azione più forte che si possa fare da un lato è da un lato tacere, dall’altro fare. Le persone oggi non sono disposte ad ascoltare, non c’è desiderio di sapere. Fare significa essere attivi, nel proprio ambiente e rispetto a quello in cui si crede.
Negli anni ‘90 c’erano delle cose importanti sulle quali ci si basava, c’era una sorta di etica che oggi non ritroviamo più, una comunione d’intenti emotiva rispetto ai modi di esprimersi e di comunicare la musica.
In Italia non c’era però una vera e propria “scena”. Una scena era quella di Washington D.C., dove dei musicisti hanno preso posizione riguardo ciò che accadeva intorno a loro, con la nascita del movimento straight edge che aveva una motivazione sociale fortissima, in una società distrutta da droga e alcol.
D.: Bauman la chiama “società liquida”. Con l’avanzare della tecnologia si è creata una connessione non più solida, ma totalmente mischiata, fluida. Oggi tutto può essere diluito, non come accadeva anni fa. Oggi abbiamo accesso alla musica in streaming e ascoltiamo di tutto, con l’esigenza di avere tutto e subito, tanto nella musica quanto nella letteratura.
A.: Le cose si possono fare. Se si ha davvero pensiero, forza, volontà, saranno gli altri a seguire, se ci si crede.
Che sensazioni avete avuto qualche mese fa quando avete visto per la prima volta il film-documentario Uzeda Do It Yourself di Maria Arena? E cosa si prova pensando che la sua realizzazione è stata possibile grazie a un crowdfunding tra i fan che ha raccolto più di 20.000 euro?
D.: Maria Arena, la regista, ha deciso di mettere insieme otto anni di riprese degli Uzeda fuori e dentro la musica. Al cinema, osservando gli anni di vita trascorsi insieme sullo schermo, mi sono emozionato. Per me questo docufilm è talmente bello da non sembrare legato al crowdfunding e al cinema indipendente. Maria Arena ha fatto davvero un lavoro di ottima qualità.
R.: È stato molto emozionante anche per me. Maria è stata molto brava nel cogliere anche le piccole cose, senza però snaturarle. Il concetto che più ne esce fuori è sicuramente quello di “indipendenza”, intesa come libertà di espressione di sé stessi, che è ciò che ognuno di noi dovrebbe fare. Lavorare insieme aiuta anche in questa scoperta individuale, alla ricerca di una visione a 360°.
Nel docufilm vedrete ciascuno di noi intento a fare anche altro, tra chi va a tagliare l’erba in campagna e chi insegna a scuola. Quella che esce dallo schermo è una dimensione ben più ampia, che scorre anche molto velocemente – la pellicola dura quasi due ore – e non possiamo che ringraziare Maria per ciò che ha fatto per noi. Andate a vederlo!
G.: Riguardo il crowdfunding, è stata una piacevolissima sorpresa scoprire che così tante persone abbiano aderito all’iniziativa. Sapere che qualcuno ha messo parte del proprio guadagno quotidiano per la realizzazione di questo progetto ci riempie il cuore di gratitudine. Proviamo la stessa sensazione quando le persone vengono ai nostri concerti, perché ci regalano la cosa più importante della loro vita: il tempo.
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Alla domanda circa progetti futuri della band, Giovanna ci risponde disegnando un gigantesco punto interrogativo nell’aria, mentre Davide ci fa notare che il progetto a breve termine è quello di andare in albergo a cenare.
Abbiamo trattenuto gli Uzeda a lungo ma è stata una chiacchierata costruttiva e profonda, il cui ricordo va necessariamente custodito in due scompartimenti distinti: quello della memoria e quello del cuore.
Grazie a Giovanna, Agostino, Raffaele e Davide. E grazie anche al Rock Your Head.
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Intervista Math Rock noise rock Post-Hardcore Rock Your Head festival Steve Albini Uzeda
Last modified: 13 Settembre 2024