Al terzo atto dell’era artistica inaugurata nel 2012 con La Dieta dell’Imperatrice il cantautore marchigiano continua a fluttuare nell’underground italico in una sorta di bolla impermeabile alle tendenze contingenti, stoico nel percorrere una strada tutta personale fatta di libertà compositive e di poetica spiazzante, che suona aulica e rotonda anche nelle perifrasi più volgari.
Pochi fronzoli per il packaging di un disco che è tutto viscere, introspezione notturna e personale contestualizzata in un Futuro Proximo che si profila all’orizzonte con fattezze distopiche, e che forse è meno prossimo di quanto si creda. Una produzione curatissima, a cui d’altronde Umberto Maria Giardini ci ha ormai abituati, per costrutti sonori che alla formula dell’Alt Rock italico anni 90 applicano inserti orchestrali dall’eco Prog e cesellature elettroniche mai invadenti. Gli intagli sintetici si coniugano fluidi alle linee vocali, a rinfrescare il reiterare dei vezzi che rendono il timbro di Giardini inconfondibile (vedi il ritornello di “Graziaplena”, che converte in luce i virtuosismi tipici di brani come “Anni Luce” o “Il trionfo dei tuoi occhi” mentre sovverte un assunto della tradizione cantautoriale italiana affermando che dalla merda nasce sempre un diamante).
La sezione ritmica incalzante di “Avanguardia” è una violenza di cui godere, che accoglie sinuosi giri di chitarra elettrica, intervallati a liriche che hanno il ritmo di un blando flusso di coscienza e insieme la veemenza di una prosa senza reticenze. Le ambizioni profetiche di “Alba boreale” si espandono nei ritornelli per poi tingersi di stridori inquieti, nell’incomunicabilità di ombre e bagliori. Nell’intermezzo tutto strumentale di “Ieri nel futuro proximo” la componente noir la giocano gli ottoni sul fondale, e il sapore Jazz persiste nelle atmosfere di “Dimenticare il tempo”. Non mancano tregue dal sound più Pop, come le movenze easy di “A volte le cose vanno nella direzione opposta a quella che pensavi” che sfociano nell’ossessività di un loop, ma sempre a scopi funzionali, come il ritmo power di “Onda”: quasi ballabile e con tanto di vocalizzi nei cori, dove il vaticinio nichilista tipico di Giardini prova a farsi comprensibile ai più, prendendo irriverentemente in prestito il linguaggio sonoro da una scena musicale parallela e di certo meno dedita all’introspezione.
A concludere un album tanto denso e raffinato è la più compiuta del lotto, per intensità ed arrangiamento, “Mea Culpa”, ballad al pianoforte che esplode orchestrale in un ossimoro di speranza e disincanto, a sprigionare una dichiarazione d’appartenenza nuda e decadente.
L’ex-Moltheni che non ti aspetti continua a rivelarsi di album in album, e se il futuro prossimo della scena indipendente nostrana non è tra i più lucidi e sinceri non resta che trovare conforto nella disillusione delle liriche sferzanti di un cantautorato con la coscienza perforata, che non sottovaluta mai il peso del supporto sonoro in termini di estro e qualità.
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Last modified: 3 Aprile 2019