Genovesi e già sulle scene dal 2005, i Vanessa Van Basten, hanno deciso di celebrare il primo decennio di vita con la ristampa del loro La Stanza di Swedenborg, disco che già ai tempi (2006) aveva suscita tanta curiosità e buone critiche. Soprattutto perché è molto difficile collocarne i brani all’interno di uno stile preciso e perché il melting pot di suoni non risulta un’accozzaglia mal miscelata di stili, ma una soluzione piuttosto omogenea di influenze diverse che riescono a creare qualcosa che, se non proprio originalissimo, risulta comunque piacevole.
Il disco apre con la title-track: è un’intro cinematografica, quasi da colonna sonora di Tarantino ma che riporta stralci di dialoghi di “The Kingdom” (Lars Von Trier, 1994 – che se non avete ancora visto sarà ben ora di rimediare): chitarre che riecheggiano Miles Kane e che lasciano spazio a slanci Metal veri e propri, con liriche che si fondono in un tutt’uno fonico, spettri, atmosfere noir, horror d’autore alla Avati. Quaranta secondi sono sufficienti per la strumentale Noise “Love”, che cede il passo all’eterea “Dole”, nella quale permangono sonorità cupe di un aldilà parallelo, compresente.
Già pochi minuti e la band si presenta tecnicamente capace e comunicativa. La freddezza nordica che fino a qui pervade i brani dei Vanessa Van Basten, si tinge di colori caldi, in maniera quasi didascalica, in “Giornada de Oro”. Non c’è solo il Metal (nella sfumatura Gothic o Dark, quella che preferite), che pure è sicuramente la matrice primigenia su cui tutto si innesta. Il risultato è un Post-Rock / Noise dalle maglie molto larghe, che rimanda subito ad esiti più recenti come Sunn O))) o alla delicatezza di Anna von Hausswolff (come nel brano “Il Faro”, forse il più evocativo, se una classifica in questo senso si può tracciare in un disco che sembra dall’inizio alla fine una passeggiata in una brughiera), dal trattamento timbrico e fonico dei Fugazi agli Architeuthis Rex.
Questa idea di vagabondare e vagare, sollevati dalla nebbia, c’è anche in “Floaters” (titolo azzeccatissimo in fondo) e, a questo punto del disco, l’impressione sempre più prepotente è di essere il Viandante che guarda l’oceano in tempesta: fa freddo, è umido, l’acqua scroscia selvaggia di fronte a noi, potrebbe prenderci e trascinarci lontano, ma non possiamo fare a meno di guardare. “Vanja” e “Good Morning, Vanessa Van Basten!” chiudono il disco con questo mood malinconico di comunione con una natura selvaggia, che spaventa e affascina allo stesso tempo, che è madre e matrigna, che seduce e abbandona.
Probabilmente non è il disco della vita, probabilmente dal vivo e senza l’ausilio di qualche droguccia mescalina (cit, se ce ne fosse bisogno) si resisterebbe cinque minuti e non di più, ma è sicuramente un album evocativo che merita di fare da colonna sonora di qualche pigra giornata di pioggia, con il naso affossato nelle pieghe di un libro e una coperta sui piedi a proteggerci da tutto questo nord.
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Last modified: 20 Febbraio 2022