WE ARE WINTER’S BLUE AND RADIANT CHILDREN, una fredda apocalisse sonora

Written by Recensioni

Arriverà la fine, e sarà terribilmente gelida e poetica come l’esordio del supergruppo canadese.
[ 13.09.2024 | Constellation | post-rock, drone, experimental rock ]

La piccola fiammiferaia della celebre fiaba di Hans Christian Andersen è l’emblema di chi, sommerso dall’indifferenza generale, protende una mano davanti a sé implorando aiuto ma in cambio trova solo un triste, incolmabile vuoto.
Vuoto e freddo, come quel gelido ultimo giorno dell’anno trascorso girovagando scalza per le strade, reggendo fra le pieghe del suo grembiule un gran numero di fiammiferi che nessuno mai comprerà. I piedi che affondano in uno spesso strato di neve, lividi e violacei. La paura di rincasare a mani vuote è tanta, troppa. Nel frattempo, gli abitanti del paese osservano una tempesta di bianchi e soffici fiocchi dietro le finestre della propria calda e confortevole casa. Forse potrebbero fare qualcosa per aiutare una ragazzina povera e spaesata. O forse no. Tutto sembra così distante, disperso nella disturbante inerzia di un giorno troppo freddo.

Freddo come un inverno in Canada, patria dei quattro musicisti che hanno dato origine al progetto WE ARE WINTER’S BLUE AND RADIANT CHILDREN, abbreviato in WAWBARC.
Efrim Manuel Menuck (Godspeed You! Black Emperor, Thee Silver Mt. Zion) e Mat Ball (BIG|BRAVE), a cui si aggiungono in un secondo momento Jonathan Downs e Patch One (entrambi già membri di Ada), si riuniscono in studio agli Hotel2Tango di Montréal per registrare quanto già abbozzato proprio durante la stagione più rigida dell’anno.

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Inevitabilmente, il nome scelto per il supergruppo e il conseguente album di debutto “NO MORE APOCALYPSE FATHER” risentono di quel glaciale influsso. “We’re honoring that idea of winter, when you come inside and your house is warm, a place that only exists because of how cold it is outside”, per spiegarlo attraverso le parole dello stesso Menuck.
Sei tracce sature e pulsanti che oscillano tra Swans, Scott Walker e gli stessi GY!BE, in un continuo scambio fra tensione e rilascio, legate da un unico concept come filo conduttore: il sentimento che si prova nei panni di testimoni dell’orrore del mondo, ma osservato da lontano, da un posto sicuro, senza poter fare nulla per cambiarne il destino.
“NO MORE APOCALYPSE FATHER” è un album sintetico, compatto e opaco come un plumbeo cielo invernale, in cui la forma canzone tradizionale si sgretola e cede il trono ad un unico, ipnotico flusso di coscienza.

Rumore bianco, echi, distorsioni, droni. Come una sferzante ventata di ghiaccio, che penetra tutti gli strati della nostra pelle e si insinua fino alle ossa. La doppietta Rats And Roses/Tremble Pour Light, che introduce l’opera, offre davvero la sensazione di trovarsi di fronte ad un paesaggio coperto da una coltre innevata, nell’apparente calma inquietante che segue una catastrofe appena accaduta.
Di catastrofi narrano anche i testi di Menuck, talmente lucidi e realistici da sconvolgere l’animo: la citata Rats And Roses, ad esempio, parla di una famiglia di vicini di casa che, nel tentativo di debellare un’infestazione di topi, inavvertitamente avvelena degli uccelli.

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Con le dita congelate, la piccola fiammiferaia strofina uno dei suoi fiammiferi contro una parete, nel misero tentativo di riscaldarsi. Una ad una, mille fiamme si accendono. Le luci e i bagliori regalano alla bambina l’illusione di trovarsi in un luogo familiare e ospitale. C’è un arrosto che cuoce in forno, c’è una sontuosa tavola imbandita, un magnifico albero di Natale finemente addobbato. Il dolce abbraccio della nonna è così confortante. Questa è casa, è il luogo dove non si soffre la fame, né il freddo. Poco importa che si tratti soltanto di un angosciante miraggio, presagio di una cattiva fine: è questo il luogo giusto in cui stare.

La titletrack è una vera oasi di fuoco al centro di una desolata landa artica, fulcro e cuore dell’album. Un’esplosione stratificata di disperate voci e abrasive chitarre ci illude di aver trovato un posto in cui rifugiarci sebbene tutto continui a suonare confuso e distorto, come nel mezzo di una tormenta di neve.
La successiva Uncloudy Days, lenta e onirica, pare quasi arrivare apposta per consolarci e farci sentire sani e salvi: una ninna nanna post-atomica di cori e voci sovrapposte, per chi ancora non vuole rassegnarsi alla fine. C’è sempre una luce che vale la pena cercare, anche nel buio più pesto.

“Michael Jackson dangling his baby from a hotel balcony”. Il caos mediatico seminato da quel clamoroso fatto, ormai risalente a 22 anni fa, è ancora impresso nel subconscio e nell’immaginario di Menuck e viene sviscerato nel testo di Dangling Blanket From A Balcony (White Phosphorous). Oggetti inanimati confusi con vite umane, come nel peggiore dei mondi esistenti – quello in cui già viviamo. Come per magia, anche la chitarra di Mat Ball prende improvvisamente vita, iniziando a districarsi sotto il peso di un interminabile tappeto post-rock, quasi cercando di preannunciare qualcosa di imminente e terrificante in arrivo.

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Alla fine della fiaba di Andersen, gli abitanti del paese scorgono il corpo ormai esanime della piccola fiammiferaia soltanto il mattino seguente. Consapevoli o inconsapevoli testimoni di qualcosa che sarebbe potuto non accadere e invece è accaduto, accecati dall’inesauribile orrore di un mondo che per ricominciare da capo dovrà necessariamente finire: talvolta è l’apocalisse il desiderio più forte e inconfessabile.

(Goodnight) White Phosphorous è l’ultimo, straziante atto che detona sussurrando su un mondo così lucidamente perverso da assistere al proprio stesso epilogo filtrato attraverso lo schermo di una TV. Non più candida e morbida neve da osservare attraverso le proprie finestre in pacifica meditazione, ma solo del tossico fosforo bianco che cade dal cielo. Una fine troppo poetica per essere definita tale, destinata a riecheggiare in eterno.

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Last modified: 16 Settembre 2024